Quale filosofia alla base del Femminismo? – VI

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Articoli precedenti: primo: Quale filosofia alla base del Femminismo? – I – secondo: Quale filosofia alla base del Femminismo? – II – terzo: Quale filosofia alla base del Femminismo? – III – quarto: Quale filosofia alla base del Femminismo? – IV – quinto: Quale filosofia alla base del Femminismo? – V

 

Il Femminismo, come dicevamo in apertura (qui) non ha una base filosofica, né dottrinale e neppure ideologica; il concetto stesso di una visione generale della realtà, da cui far scaturire le proprie conclusioni puntuali, è rifiutato.

Esso nasce dalla constatazione che, all’interno di tutte le società, il ruolo della donna è tendenzialmente diverso da quello dell’uomo. Agli uomini spettano ruoli di maggiore autorità e (almeno così sono percepiti dai seguaci del Femminismo) di maggiore potere. E ciò viene percepito come inaccettabile ingiustizia. Il problema concettuale che immediatamente si pone è la constatazione che questo sistema di cose ha caratterizzato pressoché tutta la storia dell’umanità, anche se, come vedremo, non è esattamente così, anche se in tal modo viene percepito da pressoché tutto il “movimento” femminista.

Nell’antichità sono esistiti regimi matriarcali, con linee dinastiche matrilineari. Queste società si sono rette sulla formalizzazione, anche istituzionale, del fondamentale “strumento di potere” della donna: la maternità. La constatazione che sopprimere una vita è relativamente facile, mentre metterla al mondo è complesso porta, in moltissime società primitive, ad attribuire la maternità ad un potere magico ed alla maternità stessa la capacità di accrescere tale potere. Da questa idea si deduce che, per poter dare appieno tale potere, a vantaggio di tutta la società, è necessario attribuire anche autorità politica a chi lo detiene, in modo che la vita tenda a fluire in tutto il corpo sociale con la maggiore gagliardia possibile.

Questi sistemi di governo, però, sono scomparsi per lasciare il posto, pressoché in tutto il mondo, a sistemi patriarcali, con linee dinastiche patrilineari. Ciò è dovuto al fatto che quello della maternità è un potere di generazione e di accudimento, non di governo; il potere materno, come abbiamo visto (qui), è un potere d’amore, che lega a sé i destinatari (i figli) con un vincolo di riconoscenza, che trova già nell’intrinseca infamia della sua rottura la punizione. La gestione politica di una comunità, invece, si basa su un potere di autorità, capace, all’occorrenza, di farsi temere, in quanto in grado di irrogare sanzioni, anche delle più pesanti; il vincolo politico può anche essere cementato da legami affettivi, ma non si può basare su di essi, avendo, nella normalità dei casi, bisogno dell’esercizio, effettivo o minacciato, della forza coercitiva.

 

Élisabeth Vigée Le Brun (1755-1842), Autoritratto con la figlia Julie (1786)

 

Il venir meno delle società matriarcali non ha, però, fatto scomparire il potere della maternità, che, ricondotto al suo alveo naturale della famiglia, si è, anzi, rafforzato, con la conseguenza di renderlo tanto più sentito quanto più tradizionale e patriarcale è la società. Un esempio di ciò si può ravvisare nella «credenza delle voglie», secondo la quale, se una donna incinta non soddisfa i suoi desideri, rischia di far nascere il figlio con macchie sulla pelle, dette, per questo, «voglie»; questo ha contribuito a rafforzare il senso di venerazione di cui, in tutti gli strati sociali, le donne «in stato interessante» hanno sempre goduto nelle società tradizionali.

Altro esempio è il ruolo delle Regine nelle monarchie patrilineari, caratteristiche dell’Occidente prima della Prammatica Sanzione (1713)[1]. Il loro potere non è codificato, ma è particolarmente autorevole: normalmente si astengono da ogni ingerenza nell’ordinaria azione di governo dei Sovrani (loro mariti o figli), ma, quando intervengono, in questioni da loro ritenute fondamentali, il loro interessamento genera, nella grande maggioranza dei casi, il risultato di ottenere ciò che chiedono, tanta era l’autorità ed il prestigio di cui godevano, come madri o come madri degli eredi. È per questa ragione che, tradizionalmente, la Chiesa ha sempre mirato a convertire le Regine, sapendo che il loro abbracciare la Fede avrebbe comportato non solo la conversione anche del Re, ma anche di tutto il popolo, cosa cui il monarca difficilmente si sarebbe adoperato senza le pressioni della consorte o della madre.

Il Femminismo, rifiutando di riconoscere la natura sessuata dell’uomo, non comprende tutto ciò e, non potendo spiegare il passaggio da più primitive società matriarcali a più evolute società patriarcali, nega semplicemente che ciò sia avvenuto e presenta la storia umana in maniera assolutamente semplificata, come il continuo protrarsi della violenza e della sopraffazione dell’uomo sulla donna. Ciò sarebbe avvenuto fin dai primordi della storia, in virtù della «differente dotazione muscolare» che caratterizza i due sessi: l’uomo, per la sua maggiore forza fisica, avrebbe sistematicamente ridotto la donna ad uno stato servile, protraendo ed istituzionalizzando questo dominio, attraverso la violenza e la spoliazione. Il protrarsi di tale egemonia sarebbe stato reso possibile dall’aver affiancato alla pura violenza concezioni sacrali e religiose “discriminatorie”, oltre all’esclusione delle donne dalla gestione dell’economia, con conseguente loro ricattabilità sul piano economico.

Questa ricostruzione “storiografica”, che abbiamo sintetizzato, è l’unica “base teorica” del Femminismo. Da qui si dipana tutta l’avversione, per non dire l’odio, verso l’identificazione della donna come madre e, più in generale, verso il concetto stesso di maternità. Essa viene vista come il principale strumento, almeno ai nostri giorni, di oppressione maschile della donna, in quanto la cura dei figli, oltre che, ovviamente, degli anziani e dei malati, ostacolando la carriera lavorativa dei membri del gentil sesso, li rende costantemente dipendenti e, quindi, incapaci di “realizzarsi”.

La «liberazione dal maschio» diviene progressivamente l’evoluzione “naturale” dell’iniziale «liberazione dal potere del maschio». Anche prescindendo dall’apologia dell’autoerotismo femminile, particolarmente virulenta e volgare negli anni ‘70 del secolo scorso, e da quella del lesbismo, diffusasi a partire dal decennio successivo, la stessa rozzezza del linguaggio bene descrive la ferocia dell’irrazionalità semplificatoria dei concetti sottostanti. Il sottinteso, più volte, però, esplicitato, è che nell’uomo[2] sia presente qualcosa di ontologicamente malvagio, quando non tutta la sua natura sia corrotta, forse irrimediabilmente, mentre nella donna c’è tutta la bontà propria di chi è, almeno di fatto, sempre vittima. Tutto ciò non viene assemblato in una teoria (per quanto demenziale) coerente, ma viene lasciato all’istintiva attività di induzione che l’ascoltatore e/o il lettore è portato a fare dalla giustapposizione di singoli atti di violenza di uomini su donne, elencati senza alcun legame logico, se non il fatto di vedere sempre la parte femminile come vittima e quella maschile come carnefice. Una teoria compiuta comporterebbe la necessità di spiegare i motivi “logici” per cui l’uomo è sempre malvagio e la donna sempre buona, ma questo, ovviamente, risulta impossibile e, quindi, ci si rifugia nell’aneddotica.

Da tutto quanto abbiamo visto finora, risulta evidente che il Femminismo si colloca nel solco della tradizione volontarista e dà una particolare coloritura all’Evoluzionismo, fungendo da ponte tra la negazione della natura umana come specifica ed ontologicamente diversa da quella di tutti gli altri animali ed il superamento della medesima nel trans-umanesimo. Occorre, però, aggiungere che il Femminismo porta avanti i suoi postulati attraverso lo strumento del moralismo bigotto.

Per bigottismo si intende quell’approccio alla morale che non fa derivare l’etica dalla realtà metafisica, ma che afferma in maniera dogmatica alcune regole ed alcuni principi di comportamento, prescindendo in maniera pressoché assoluta dalla loro difendibilità razionale. Esso si inserisce, ovviamente, nel volontarismo, ma più che una dottrina è un metodo, che può essere applicato a contenuti differenti. I precetti comportamentali perdono la loro derivazione dalla realtà ed acquisiscono l’assolutezza dei dogmi di fede, con il ribaltamento del rapporto tra metafisica e morale.

Nelle concezioni realistiche, come abbiamo più volte detto, è la metafisica che detta l’etica, in quanto questa non è altro che l’insieme dei principi e delle norme che permettono all’uomo di raggiungere quanto più possibile la perfezione della propria natura, che, invece, è assoluta ed indipendente dall’agire umano. Il metodo bigotto, proprio di tutte le dottrine volontaristiche, invece, pone come assoluti i comandi morali e pretende di modificare la realtà in modo da realizzarli. Le norme, quindi, non sono giuste in quanto discendenti razionalmente dalla verità, ma lo sono unicamente perché il soggetto, che si è autoproclamato depositario della giustizia, ha detto che lo sono; e la realtà, quando contrasta in maniera palese con questi comandi astrattamente dati, deve essere modificata o, addirittura, immaginata come diversa da quella che è. Il caso dell’Evoluzionismo, che abbiamo trattato nell’articolo precedente (qui), ne è un esempio plastico.

Il Femminismo, che ne è, per un verso, l’approfondimento ed il compimento e, per un altro, una specificazione, segue il medesimo filone. Poiché la natura umana contraddice le pretese di “emancipazione femminile” poste come assolutamente buone e giuste, ne deduce che essa semplicemente non esista o che, al massimo, sia il risultato di un certo approccio culturale “deviante”. E, ovviamente, poco rileva agli occhi dei suoi seguaci il fatto che tutta la storia del genere umano li contraddica: «se non è mai stato così, vuol dire che lo sarà da oggi o, al massimo, da domani». E, per raggiungere l’obiettivo posto dalla propria delirante volontà, nessun ostacolo, né logico, né morale, dovrà frapporsi sulla via.

La difficoltà ad intraprendere qualunque tipo di dialogo con i seguaci del Femminismo risiede proprio in questo: tutte le argomentazioni che chiunque possa portare a dimostrazione dell’irrazionalità dei loro postulati non verranno mai contraddette sul piano logico, ma verranno semplicemente bollate come «malvagie».

Per rispondere alla domanda contenuta nel titolo, «quale filosofia alla base del Femminismo?», si deve tristemente concludere che non ne esista alcuna, a meno che non si voglia considerare come concezione filosofica la negazione di ogni filosofia ed il rifiuto di affrontare i problemi etici e politici sul piano razionale.

 

(6-fine)

 

[1] Si tratta dell’abbandono da parte della Casa d’Austria della Legge Salica, che, risalente ai Franchi Salii e sempre tramandato oralmente, fu codificata da Clodoveo I (466-511) nel 503 e che, tra le altre cose, regolava la successione dinastica in quasi tutte le Case Regnanti europee; il principale strappo, operato dall’imperatore Carlo VI d’Asburgo (1685-1740), consiste nel consentire la successione al trono anche le figlie femmine.

[2] Inteso qui come essere umano di sesso maschile.

 

 

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