Articoli precedenti:
Primo: Quale filosofia alla base del Femminismo? – I
Secondo: Quale filosofia alla base del Femminismo? – II
Da tutto quanto detto sinora, emerge come, nella persona umana, convivano la corporeità istintuale del mammifero (materia) e l’anima razionale (forma), con tutte le sue specificità individuali e, come vedremo, collettive. L’uomo e la donna presentano, come il maschio e la femmina di tutti i membri della nostra classe, spiccate differenze fisico-biologiche e comportamentali, ma, a differenza di quanto avviene negli animali, il comportamento umano è sempre sottoposto al vaglio della ragione, che, a livello personale, valuta l’idoneità del comportamento alla fattispecie concreta in cui la persona si trova ad operare. È da notare che, per la persona umana, anche le inclinazioni, le pulsioni, le sensazioni hanno un carattere diverso da quello che hanno negli animali, non fosse altro che per la loro minore vincolatività.
Aristotele (384-322 a.C.) definisce l’essere umano «πολιτικόν ζῶον» (politicòn zoon), vale a dire «animale politico», per indicare la sua attitudine naturale a vivere in comunità ed a dare a tale comunità una struttura politica. Ogni comunità nasce dalla differenziazione dei ruoli al suo interno; Karl Marx (1818-1883), nella sua concezione materialista dell’uomo ed economicista della società, parlava di divisione del lavoro, ma il concetto di differenziazione dei ruoli è più vasto e più profondo. Anche il pensatore tedesco comprendeva che alla base di ogni società c’è la famiglia, tanto è vero che, per eliminare ogni società fino ad allora conosciuta, al fine di sostituirla con il sistema comunista, postulava l’eliminazione di questa prima cellula di ogni organizzazione umana.
La visione marxista, come tutte quelle derivate dall’Illuminismo, ha una concezione materialista dell’uomo, negandone la dimensione spirituale. Questo porta, inevitabilmente, ad una lettura puramente economicistica della società, come, ad esempio, ci conferma l’ideologia tecnocratico-sinarchica, che da Claude-Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon (1760-1825), passando per Joseph Alexandre Saint-Yves, marchese d’Alveydre (1842-1909), conduce all’Unione europea. Tutte queste filosofie, però, si scontrano con il problema della famiglia, che non comprendono e non possono comprendere, perché è nella famiglia che la dimensione spirituale dell’uomo viene a palesarsi in maniera più evidente e generalizzata. E questo vale anche per il Femminismo, anche se al suo riguardo è assolutamente improprio parlare di filosofia, come dicevamo in apertura (qui).
La famiglia è la società naturale per eccellenza, poiché le altre ne sono derivazione, eccezion fatta per la Chiesa, che è di diretta derivazione divina. L’uomo trova la sua prima e naturale realizzazione nella famiglia, proprio per la sua fortissima differenziazione sessuale, che non solo ha un carattere puramente biologico, come negli altri mammiferi, ma investe anche il suo aspetto spirituale, dal quale viene, a sua volta caratterizzata. Quando la Bibbia dice «maschio e femmina li creò»[1], non intende dire che l’Onnipotente abbia creato solo un corpo maschile ed uno femminile, ma che le due persone create erano maschio e femmina: la virilità e la femminilità non riguardano solo la materia (il corpo), con tutto il suo apparato di istinti, ma anche la forma (l’anima), con tutta la sua dimensione razionale; esse caratterizzano tutta la persona e ciò è naturaliter comprensibile dalla sola ragione umana, come il mito platonico della metà della mela o la definizione delle donne come «l’altra metà del cielo», data da Mao Tse-tung (1893-1976), dimostrano.
Questa dimensione della natura umana rende la famiglia il “luogo” normale della completa realizzazione della persona; esistono vocazioni particolari, cui Dio chiama anime particolari ed il cui assenso comporta la rinuncia alla famiglia; si pensi alla vita consacrata o al sacerdozio; ma si tratta di casi particolari, eccezioni, potremmo dire, che nulla tolgono alla regola generale. Nella famiglia si ha piena realizzazione di tutta la persona e vi vengono esaltate tutte le sue dimensioni.
L’essere umano nasce all’interno di una famiglia. Le eccezioni a questo principio si concretizzano in vere e proprie disgrazie, per chi le patisce, e, quando esse sono il risultato dell’azione umana responsabile, possono essere definite veri e propri atti di violenza. In questa normale situazione, la persona trova tutto ciò di cui necessita per essere posta in condizione di adempiere al suo dovere più alto: il raggiungimento della quanto più possibile perfetta conformità all’umana natura. E tutto ciò che vi rinviene è l’effetto della realizzazione dei suoi genitori. È nella famiglia che trova la sua massima espressione il principio aristotelico della “politicità” dell’uomo: l’interesse (il vero interesse) individuale coincide con l’interesse collettivo e con l’interesse di ogni altro singolo consociato.
In famiglia si esprimono tutte le dimensioni umane. Anche qui, però, le esigenze materiali sono unicamente strumentali a quella che, con terminologia contemporanea, potremmo definire la sua «piena realizzazione», vale a dire all’adempiere al suo primo e fondamentale dovere. Si potrebbe obiettare che esistono vocazioni che chiamano, come accennavamo, alla rinuncia della famiglia. È vero, ma tali vocazioni sono date per adempiere ad uno scopo ancora più alto e sono riservate a pochi eletti, a cui Dio, qualora essi adempiano alla Sua chiamata, concede grazie di stato[2] particolari, che le consentono la piena realizzazione anche fuori della normale condizione familiare.
Le differenze ontologiche tra l’uomo e la donna sono il presupposto della loro complementarietà, di conseguenza, della nascita e dell’esistenza della famiglia. A differenza di quanto avviene nelle altre specie di mammiferi, nell’umanità, come dicevamo, tali differenze caratterizzano anche la dimensione spirituale e razionale; questo significa che tali caratterizzazioni sono, al tempo stesso, più profonde, ma meno meccanicamente applicabili, più tendenziali, proprio perché coinvolgono una libertà individuale che solo l’anima razionale può dare al soggetto.
La donna è, tendenzialmente, più attenta ai particolari ed allo specifico, mentre l’uomo è “istintivamente” più portato all’aspetto teoretico. Questo comporta, nella donna, una maggiore capacità di concentrazione, che si esprime tanto nell’azione materiale, quanto nella dimensione spirituale; tale attitudine le permette una capacità di coinvolgimento di ragione e volontà, che si sostanzia in una dedizione ed in un dono totale di sé, normalmente più difficili nell’uomo. Queste caratteristiche femminili hanno fatto sì, ad esempio, che sia sempre stata appannaggio delle donne la cura di coloro che necessitano di essere assistiti con continuità e, in particolare, di bambini, anziani e malati. Sul piano più squisitamente spirituale, questo ha come conseguenza la maggiore “facilità” con cui le donne si approcciano alla mistica, come testimoniato dal numero incomparabilmente superiore di mistici donna, rispetto a quello di mistici uomo. È quella che viene normalmente chiamata la maggiore concretezza del gentil sesso.
L’uomo ha, normalmente, una maggiore capacità di astrazione razionale ed una maggiore attitudine alla teorizzazione. Ciò si riflette, come abbiamo visto, in una minore attenzione al particolare, con la conseguente minore capacità di concentrazione sul singolo aspetto della realtà, con la conseguente tendenza a porre attenzione alla visione di insieme. Questa maggiore tendenza all’aspetto teoretico della vita è testimoniato, ad esempio, dal fatto che la quasi totalità dei grandi filosofi e dei grandi teologi è composta di uomini.
Normalmente, si afferma che le donne siano più “emotive” degli uomini o, il che è la stessa cosa, che le prime «vivano più intensamente» gli avvenimenti rispetto ai secondi. Questa affermazione è vera, ma necessita di essere compresa correttamente, per evitare di cadere in luoghi comuni. Si tratta di una diretta conseguenza della maggiore capacità di concentrazione e della maggiore attenzione al particolare, di cui abbiamo detto: la donna, normalmente, ponendo maggiore attenzione ai singoli elementi del vivere, tende a concentrare su ciascuno di essi un maggiore trasporto, anche emotivo, che lo arricchisce di implicazioni non rigidamente razionali, tanto sub-coscienti e, quindi, emotive in senso stretto, quanto sovra-coscienti e, dunque, spirituali. Ciò si traduce, di fatto, in una duplice attitudine: da un lato, esse hanno una maggiore capacità di cogliere tutti quegli aspetti del vivere che non sono immediatamente evidenti all’analisi razionale, quando intuiscono queste sfaccettature del reale, mentre, dall’altro, hanno la tendenza ad attribuire ai fatti coloriture che essi non sempre hanno. Si può sintetizzare questo, dicendo che la maggiore intuitività femminile conduce ad una maggiore introspezione del vero, tanto più quanto più equilibrata è la donna che esamina, mentre, al contrario, porta a «dare corpo alle ombre», tanto più quanto maggiori sono gli squilibri emotivi irrazionali della donna stessa.
La maggiore tendenza alla razionalizzazione ed all’astrazione dell’uomo lo conduce ad essere maggiormente incline all’elemento giuridico e gerarchico della vita, mentre la donna è maggiormente incline alla soluzione del problema concreto, prescindendo dal suo incasellamento in logiche, principi o norme astratti. Ciò è particolarmente evidente nell’educazione dei figli, nella quale, in linea di principio, il padre incarna (o dovrebbe incarnare) il principio di autorità, con conseguente imposizione, sia pure con diverse modalità, tra le quali centrale rimane il convincimento e la persuasione, mentre la madre incarna (o dovrebbe incarnare) l’amorevole accudimento, teso a sostenere la volontà ed il desiderio del figlio al bene. Emblematica è, a questo riguardo, l’ormai proverbiale minaccia «lo dico a tuo padre, se…», extrema ratio della madre esasperata dall’indisciplina, non più amorevolmente riconducibile a ragione, del figlio. Allo stesso modo paradigmatica è l’espressione «perché vuoi far soffrire così tua madre?», sottinteso «che ti ama così tanto», a cui ricorre il padre, quando vuole fare appello ai sentimenti del figlio. Il fatto che il padre incarni l’astratto concetto di autorità e la madre quello di amorevolezza non significa che il padre non possa e non debba essere amato o che la madre non possa e non debba essere rispettata, ma, unicamente, che ciascuno dei due porta maggiormente incisa in sé quello di cui è emblema.
È di ogni evidenza che, essendo gli uomini e le donne persone umane, quindi esseri dotati di anima razionale e di individuale volontà, quanto detto a proposito delle loro differenze non può essere interpretato come regola meccanica, smentibile dal verificarsi di una o più eccezioni, ma deve essere considerato come un insieme di tendenze naturali, sempre sottoposte alla libera determinazione. La riscontrabilità di quanto evidenziato deve, quindi, essere valutata nelle grandi tendenze naturali, nell’id quod plerumque accidit, ovviamente al netto di tutte le distorsioni ideologiche che caratterizzano i vari momenti storici, con l’occhio a ciò che si mantiene costante ed è quindi proprio della natura umana.
Da tutto quanto detto consegue l’insensatezza di ogni contrapposizione tra i sessi, tanto a livello concettuale, quanto a livello sociale, come ci apprestiamo a vedere.
(3-continua)
[1] Gen 1,27.
[2] Per «grazia di stato» deve intendersi l’aiuto soprannaturale che Dio dà ad ogni persona per permetterle di adempiere al proprio dovere nella situazione (stato), nella quale l’ha posta.