Note di linguistica Romanza: dal siculo al gallo-italico

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Passando in rassegna, poco tempo addietro, i primi documenti letterari scritti nei volgari d’Italia, avevamo osservato che, prima di Dante, il quale in qualche modo certificò con la sua opera il prevalere del volgare toscano come idioma letterario (ma non ancora dell’uso) in Italia, parecchi volgari (dialetti) avevano prodotto opere artistiche di notevole levatura, tali che, se – per assurdo – le cose fossero andate diversamente e non si fosse imposto il toscano, avrebbero avuto discrete possibilità di raggiungere essi lo status di “volgare letterario nazionale”[1].

Stiamo parlando, in primis, del siciliano dotto, cioè quello parlato e scritto alla corte dell’imperatore (dal 1220) e re di Sicilia (dal 1198) Federico II di Svevia (1194-1250), e del milanese usato da Bonvesin de la Riva nel comporre parecchie sue opere.

Per quanto riguarda il siciliano “cortese” (cioè usato a corte) abbiamo parecchie testimonianze, ma l’esempio più interessante, perché meno interpolato con termini toscani, è quello fornitoci dall’altrimenti sconosciuto giullare Cielo d’Alcamo.

L’unico componimento pervenutoci a suo nome è infatti una canzone-contrasto, noto come Rosa fresca aulentissima, primo verso del componimento[2], composta di 32 strofe di 5 versi ciascuna, per un totale di 160 versi. A proposito di tale componimento, e del suo autore, abbiamo pochissime indicazioni cronologiche e biografiche. Procedendo con ordine.

Autore. Nel ms. 3793 della biblioteca Apostolica Vaticana di Roma[3] troviamo il testo del contrasto, anonimo, ma l’umanista Angelo Colocci (Jesi, 1467-Roma, 1549) ha aggiunto a margine l’indicazione che questo componimento è opera di tal cielo dal camo, senza aggiungere null’altro di utile all’identificazione ed alla collocazione cronologica dell’autore stesso. È evidente che questa testimonianza, non avendo alcun altro avallo o conferma, non è risolutiva, ma può essere accolta – in mancanza appunto di altre testimonianze – come un punto di partenza, rispetto al quale, tuttavia, fino ad ora non si è progredito punto. Tutto ciò che possiamo aggiungere è che il nome Cielo è il diminutivo di Michele e che l’indicazione geografica dal camo può essere risolta in “d’Alcamo”, rimandando così alla località, ora in provincia di Trapani, di cui doveva essere originario l’autore del testo.

Di lui non solo non si conoscono elementi biografici, ma neppure se possa essere considerato (come ritengono ormai i più) un poeta dotto in qualche modo “prestato” (almeno in questa sua unica composizione a noi nota) alla poesia popolare, da lui imitata e resa quindi (secondo le consuete categorie interpretative) “popolaresca”, oppure un vero e proprio poeta “venuto dal popolo”, e quindi poetante secondo gli schemi e le categorie della cultura plebeo-popolare. Va da sé che questa seconda ipotesi (peraltro ora pressoché abbandonata) fu tenuta in auge dalla critica marxista, sempre ansiosa di andar trovando esempi di scrittori “proletari” che si opponessero, con la loro vivacità ed il loro brio tutto plebeo, alla sussiegosità ed all’accademismo della cultura, nel Medioevo, aristocratica e, nei secoli successivi, aristocratico-borghese. Gli elementi “dotti” disseminati qua e là nel testo fanno invece propendere – come detto – per un’origine almeno dotta (se non anche aristocratica) dell’autore, che nei suoi versi si rivela conoscitore sia delle strutture (la “pastorella”, cioè il dialogo tra un giovanotto ed una ragazza) che degli stilemi (figure retoriche, lessico elevato…) della immediatamente precedente poesia provenzale di corte.

Testo. Si tratta, come detto, di una canzone di tipo “amebeo”[4] cioè “a botta e risposta”, in cui ogni strofa è pronunciata alternatamene dai due protagonisti (il poeta, definito “canzoneri”, e la ragazza). Il contesto è urbano e richiama vari modelli provenzali, tra cui il dialogo tra un cavaliere ed una contadina di Marcabru(n) (ca. 1110-1150) e il contrasto bilingue tra il poeta ed una donna genovese (Domna, tant vos ai preiada) di Raimbaut da Vaqueiras (1155?-1207?), ma potrebbe rimandare anche a molti altri modelli di canzoni popolari[5], ascrivibili al genere, anch’esso trattato dai poeti provenzali, della “pastorella”.

Abbiamo appena accennato al fatto che l’origine “dotta” del componimento, e del suo autore, può essere argomentata grazie alla sua conoscenza, rilevabile dal testo stesso, sia di modelli alti e di un lessico elevato che di stilemi retorico-stilistici propri di una cultura aristocratico-cortese. Mentre rimandiamo al commento testuale l’analisi degli elementi lessicali e retorici che permettono di svelare l’origine dotta del componimento, in questa sede rileviamo alcune caratteristiche stlistico-strutturali che fanno trapelare una competenza di scrittura nutrita più di modelli letterari che non di esempi popolari.

1) La struttura dialogico-amebea (cfr. supra), in cui – ad abundantiam – rileviamo anche, in parecchie sezioni del testo, la caratteristica tipica dei poeti provenzali detta delle “coblas capfinidas” (letteralmente “strofe testa-finita”), cioè la pratica di cominciare una strofa riprendendo le ultime parole di quella precedente: «poniamo che s’ajúnga il nostro amore./ Che ’l nostro amore ajúngasi» (vv. 15 e 16).

2) La struttura metrica, costituita da strofe di 5 versi di cui i primi tre (il primo dei quali sempre sdrucciolo) sono versi detti alessandrini (o martelliani), cioè versi doppi formati da due settenari, mentre i due conclusivi sono endecasillabi monorimi, così come monorimi sono anche i primi tre. Schema: AAAbb.

3) La presenza di figure retoriche discretamente “impegnative”, quali l’adýnaton (αδύνατον) dei vv. 7sg. e 28sgg., consistente nell’affermare che “prima di poter sperare di avere o di fare qualcosa” sarebbe più facile che capitasse qualcosa di, appunto, “impossibile” (in greco, “adýnaton”).

Ultima osservazione sul testo è la sua datazione, che non può essere precisa, non avendo nessun documento o attestazione che ce la dichiari. Possiamo quindi solamente (ed è già comunque molto, per i testi delle origini) stabilire i due termini cronologici (ante quem e post quem) entro cui poter collocare la composizione del contrasto. I due termini sono ricavabili dal testo stesso, ed esattamente al v. 22 (post quem) e al v. 24 (ante quem). Al v. 22 infatti il poeta ci dice che, per difendersi dall’ira del padre della ragazza, egli porrà “Una difensa […]di dumili’ agostari” (cioè 2.000 monete imperiali: augustane), mentre due versi dopo, ringraziando per questa sua possibile difesa, egli inneggia a Federico II imperatore esclamando “Viva lo ’mperadore, graz[i’] a Deo!”. La “difesa”, invocata dal giovane, era contemplata da una delle “Costituzioni di Melfi”, pubblicate da Federico II, mentre la felice invocazione di “Viva” implicitamente dichiara che l’imperatore sia in quel momento ancora vivo. Concludendo, le Costituzioni melfitane furono pubblicate nel 1231 e Federico II morì nel 1250, ergo il contrasto è stato scritto nel periodo compreso tra queste due date.

 

CIELO D’ALCAMO

CONTRASTO[6]

«Rosa fresca aulentis[s]ima ch’apari inver’ la state,

le donne ti disiano, pulzell’ e maritate:

tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate[7];

per te non ajo abento[8] notte e dia,

penzando pur[9] di voi, madonna[10] mia». 5

«Se di meve[11] trabàgliti, follia lo ti fa fare.

Lo mar potresti arompere, a venti asemenare,

l’abere d’esto secolo tut[t]o quanto asembrare[12]:

avere me non pòteri a esto monno;

avanti li cavelli m’aritonno[13]». 10

«Se li cavelli artón[n]iti, avanti foss’io morto,

ca’n is[s]i [sí] mi pèrdera lo solacc[i]o[14] e ’l diporto.

Quando ci passo e véjoti, rosa fresca de l’orto[15],

bono conforto dónimi tut[t]ore:

poniamo che s’ajúnga[16] il nostro amore». 15

«Che ’l nostro amore ajúngasi, non boglio m’atalenti:

se ci ti trova pàremo[17] cogli altri miei parenti,

guarda non t’ar[i]golgano questi forti cor[r]enti.

Como ti seppe bona la venuta,

consiglio che ti guardi a la partuta». 20

«Se i tuoi parenti trova[n]mi, e che mi pozzon fari?

Una difensa mèt[t]onci di dumili’ agostari[18]:

non mi toc[c]ara pàdreto per quanto avere ha ’n Bari.

Viva lo ’mperadore, graz[i’] a Deo![19]

Intendi, bella, quel che ti dico eo?» 25

«Tu me no lasci vivere né sera né maitino.

Donna mi so’ di pèrperi[20], d’auro massamotino[21].

Se tanto aver donàssemi quanto ha lo Saladino,

e per ajunta quant’ha lo soldano,

toc[c]are me non pòteri a la mano». 30

«Molte sono le femine ch’ànno dura la testa,

e l’omo con parabole[22] l’adímina e amonesta:

tanto intorno percazzala fin che·ll’ha in sua podesta.

Femina d’omo non si può tenere:

guàrdati, bella, pur de ripentere». 35

«K’eo ne [pur ri]pentéssende? davanti foss’io aucisa

ca nulla bona femina per me fosse riprisa!

[A]ersera passàstici, cor[r]enno a la distesa.

Aquístati riposa, canzoneri[23]:

le tue paraole a me non piac[c]ion gueri». 40

«Quante sono le schiantora che m’ha’ mise a lo core,

e solo purpenzànnome la dia[24] quanno vo fore!

Femina d’esto secolo tanto non amai ancore

quant’amo teve, rosa invidïata:

ben credo che mi fosti distinata». 45

«Se distinata fósseti, caderia de l’altezze,

ché male messe fòrano in teve mie bellezze.

Se tut[t]o adiveníssemi, tagliàrami le trezze,

e consore m’arenno a una magione,

avanti che m’artoc[c]hi ’n la persone». 50

«Se tu consore arènneti, donna col viso cleri[25],

a lo mostero vènoci e rènnomi confleri:

per tanta prova vencerti fàralo volontieri.

Conteco[26] stao la sera e lo maitino:

Besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino». 55

«Boimè tapina misera, com’ao reo distinato!

Geso Cristo l’altissimo del tut[t]o m’è airato:

concepístimi a abàttare in omo blestiemato.

Cerca la terra ch’este[27] gran[n]e assai,

chiú bella donna di me troverai». 60

«Cercat’ajo Calabr[ï]a, Toscana e Lombardia,

Puglia, Costantinopoli, Genoa, Pisa e Soria,

Lamagna e Babilonïa [e] tut[t]a Barberia[28]:

donna non [ci] trovai tanto cortese[29],

per che sovrana di meve te prese». 65

«Poi tanto trabagliàsti[ti], fac[c]ioti meo pregheri

che tu vadi adomàn[n]imi a mia mare e a mon peri.

Se dare mi ti degnano, menami a lo mosteri,

e sposami davanti da la jente;

e poi farò le tuo comannamente». 70

«Di ciò che dici, vítama[30], neiente non ti bale,

ca de le tue parabole fatto n’ho ponti e scale.

Penne penzasti met[t]ere, sonti cadute l’ale;

e dato t’ajo la bolta sot[t]ana.

Dunque, se po[t]i, tèniti villana». 75

«En paura non met[t]ermi di nullo manganiello:

istòmi ’n esta grorïa d’esto forte castiello;

prezzo le tuo parabole meno che d’un zitello.

Se tu no levi e va’tine di quaci,

se tu ci fosse morto, ben mi chiaci». 80

«Dunque vor[r]esti, vítama, ca per te fosse strutto?

Se morto essere déb[b]oci od intagliato tut[t]o,

di quaci non mi mòs[s]era se non ai’ de lo frutto

lo quale stäo ne lo tuo jardino:

disïolo la sera e lo matino». 85

«Di quel frutto non àb[b]ero conti né cabalieri;

molto lo disïa[ro]no marchesi e justizieri,

avere no’nde pòttero: gíro’nde molto feri.

Intendi bene ciò che bol[io] dire?

Men’este di mill’onze lo tuo abere». 90

«Molti so’ li garofani, ma non che salma ’nd’ài:

bella, non dispregiàremi s’avanti non m’assai.

Se vento è in proda e gírasi e giungeti a le prai,

arimembrare t’ao [e]ste parole,

ca de[n]tr’a ’sta animella assai mi dole». 95

«Macara se dolés[s]eti che cadesse angosciato:

la gente ci cor[r]es[s]oro da traverso e da·llato;

tut[t]’a meve dicessono: ’Acor[r]i esto malnato’!

Non ti degnara porgere la mano

per quanto avere ha ’l papa e lo soldano». 100

«Deo lo volesse, vitama, te fosse morto in casa!

L’arma n’anderia cònsola, ca dí e notte pantasa.

La jente ti chiamàrono: ’Oi perjura malvasa,

ch’à’ morto l’omo in càsata, traíta!’

Sanz’on[n]i colpo lèvimi la vita». 105

«Se tu no levi e va’tine co la maladizione,

li frati miei ti trovano dentro chissa magione.

[…] be·llo mi sof[f]ero pèrdinci la persone,

ca meve se’ venuto a sormonare;

parente néd amico non t’ha aitare». 110

«A meve non aítano amici né parenti:

istrani’ mi so’, càrama, enfra esta bona jente.

Or fa un anno, vítama, che ’ntrata mi se’ [’n] mente.

Di canno ti vististi lo maiuto,

bella, da quello jorno so’ feruto». 115

«Di tanno ’namoràstiti, [tu] Iuda lo traíto,

como se fosse porpore, iscarlato o sciamito?

S’a le Va[n]gele júrimi che mi sï’ a marito,

avere me non pòter’a esto monno:

avanti in mare [j]ít[t]omi al perfonno[31]». 120

«Se tu nel mare gít[t]iti, donna cortese e fina,

dereto mi ti mísera per tut[t]a la marina,

[e da] poi c’anegàs[s]eti, trobàrati a la rena

solo per questa cosa adimpretare:

conteco m’ajo a[g]giungere a pec[c]are». 125

«Segnomi in Patre e ’n Filïo ed i[n] santo Mat[t]eo:

so ca non se’ tu retico [o] figlio di giudeo,

e cotale parabole non udi’ dire anch’eo.

Morta si [è] la femina a lo ’ntutto,

pèrdeci lo saboro e lo disdotto». 130

«Bene lo saccio, càrama: altro non pozzo fare.

Se quisso non arcòmplimi, làssone lo cantare.

Fallo, mia donna, plàzzati, ché bene lo puoi fare.

Ancora tu no m’ami, molto t’amo,

sí m’hai preso come lo pesce a l’amo». 135

«Sazzo che m’ami, [e] àmoti di core paladino.

Lèvati suso e vatene, tornaci a lo matino.

Se ciò che dico fàcemi, di bon cor t’amo e fino[32].

Quisso t’[ad]imprometto sanza faglia:

te’ la mia fede che m’hai in tua baglia». 140

«Per zo che dici, càrama, neiente non mi movo.

Intanti pren[n]i e scànnami: tolli esto cortel novo.

Esto fatto far pòtesi intanti scalfi un uovo.

Arcompli mi’ talento, [a]mica bella,

ché l’arma co lo core mi si ’nfella». 145

«Ben sazzo, l’arma dòleti, com’omo ch’ave[33] arsura.

Esto fatto non pòtesi per null’altra misura:

se non ha’ le Vangel[ï]e, che mo ti dico ’Jura’,

avere me non puoi in tua podesta;

intanti pren[n]i e tagliami la testa». 150

«Le Vangel[ï]e, càrama? ch’io le porto in seno:

a lo mostero présile (non ci era lo patrino).

Sovr’esto libro júroti mai non ti vegno meno.

Arcompli mi’ talento in caritate,

ché l’arma me ne sta in sut[t]ilitate». 155

«Meo sire, poi juràstimi, eo tut[t]a quanta incenno.

Sono a la tua presenz[ï]a, da voi non mi difenno.

S’eo minespreso[34] àjoti, merzé, a voi m’arenno.

A lo letto ne gimo a la bon’ora[35],

ché chissa cosa n’è data in ventura». 160

Bonvesin de la Riva[36], nato a Milano dopo il 1240 ed ivi morto prima del 1315, appartenente come frate laico all’ordine degli Umiliati, fu quasi certamente maestro di scuola. Scrisse varie opere in latino, ma parecchie anche in volgare (alias: lingua) milanese: le Quinquaginta curialitates ad mensam, il “Libro delle tre scritture” (nera, rossa, aurea), considerato una sorta di antecedente della Commedia dantesca, ed una serie di contrasti allegorici (“dispute”), tra cui quello della rosa con la viola, quello della Vergine con Satana e quello dell’anima col corpo. Tra le opere latine ricordiamo il De vita scolastica e il De magnalibus urbis Mediolani (Le meraviglie della città di Milano).

 

Le Quinquaginta curialitates, una sorta di “galateo”[37] relativo al ben comportarsi quando si è a tavola con altri, attraverso 50 quartine (51 se consideriamo anche l’introduzione) si presentano, circa 300 anni prima di monsignor Della Casa, come un esempio di trattatello di buone maniere[38], anche se Bonvesin si limita – come detto – allo star a tavola, mentre il rinascimentale autore del Galateo si occuperà di tutte le situazioni “di società” in cui una persona ben educata può venirsi a trovare.

Vediamo alcune strofe del testo, notando che – come anche per Cielo d’Alcamo – il verso scelto per le quartine, in rima baciata (AABB), è il doppio settenario (o alessandrino), che alcuni commentatori ritengono verso “giullaresco”, e quindi popolare, per eccellenza. La lingua utilizzata presenta sia forme popolari, adatte al pubblico cui l’autore evidentemente si rivolgeva, ma anche termini dotti (latinismi e francesismi), così come troviamo parecchie figure sia retoriche (ossimori, anacoluti…) che prosodiche (assonanze, rime interne…).

 

De quinquaginta curialitatibus ad mensam[39]

Fra Bonvesin dra Riva, ke sta im borgo Legnian,

de le cortesie da desco qui lò ve dise perman;

de le cortesie cinquanta ke se dén servar al desco

4 fra Bonvesin dra Riva ve ’n parla mo’[40] de fresco.

La premerana è questa, ke, quando tu ve’[41] a mensa,

del pover besonioso imprimamente impensa:

ké, quand tu pasci un povero, tu pasci lo to pastor[42],

8 ke t’à pasce pos[43] la morte in l’eternal dolzor[44].

[…]

La cortesia ogena si è, ke Deo n’acresca,

no trop impir la boca ni trop mangiar im pressa[45];

lo gordo ke mangia im pressa, ke mangia a boca plena,

36 quand el fisse appellao, el have responde a pena.

[…]

L’oltra ke segue è questa: quand tu e’ a li convivii,

anc sia bon vin in desco, guarda ke tu no te invrii[46].

Ki se invria matamente, in tre mainere offende:

60 el nox al corpo e a l’anima, e perde lo vin k’el spende[47].

[…]

La sedesena apresso sì è con veritae:

no sorbiliar dra boca quand tu mangi con cugial[48].

Quel hom e quella femena k’entro cugial forfolia,

68 fa sì com’ fa la bestia[49] ke mangia la corobia[50].

La dexsetena apresso sì è: quand tu stranudhi[51]

on k’el te prende la tosse, guarda com’ tu te lavori[52].

In l’oltra parte te volze, de cortesia impensa,

72 azò ke dra saliva no zese sor la mensa.

[…]

Pos la vingena è questa: no mastruliar[53] per tuto

com’ have esse carne on ove on semeiant condugio.

Ki volze e ki mastrulia sor lo talier cercando,

88 è bruto e fa fastidio al companion mangiando.

[…]

L’oltra è: no mete im parte per mezo lo companion

ni graellin ni squella[54], se no ghe fosse grand cason.

On graellin on squella se tu voi mete in parte,

100 per mezo ti lo di’ mete pur da la töa parte.

[…]

Pos la trentena è questa: zascun cortese donzello

ke se vol mocar[55] al desco, co li drapi se faza bello.

Ki mangia on ki ministra, no se dé mocar co le die;

128 co li drapi da pei se monde, et use de cortesie.

L’oltra ke ven è questa: le toe man sïan nete,

ni li die entre oregeni ’l man sul cò[56] di’ mette.

No dex[57] a l’om ke mangia, s’el ha ben nudritura,

132 a berdugar[58] co le die in parte o sia sozura.

La terza pos le trenta: no brancorar[59] co le man,

tanfin tu mangi al desco, ni gatorin ni can:

no lese[60] a l’homo cortese a brancorar li bruti

136 co le man co le que el toca i apparegiai condugi.

L’oltra è: tanfin ke tu mangi con homini cognoscenti,

no mete le die in boca per descolzar li dengi.

Ki se caza le die in boca anze k’el habia mangiao,

140 sor lo talier comego no mangia per meo grao.

La quinta pos le trenta: tu no te di’ lenze le die;

le die, ki le caza in boca, èn[61] brutamente furbie.

Quel hom ke se caza in boca le die impastruliae[62],

144 le die non èn plu nete, anze èn plu brutezae.

La sexta cortesia sì è pos la trentena:

se te fa mester parlar, no parla a boca plena.

Ki parla e ki responde inanze k’el voie la boca,

148 apena k’el poesse aleïnar negota[63].

Pos questa ven questa oltra: tanfin ke’l companion

havrà lo napo a la boca, no ghe fa’ demandason;

se ben tu lo vo’ appellar, de zo te fazo avezudho,

152 no l’imbregar[64], da’ ghe logo tanto k’el havrà bevudho.

La trentaogena è questa: no recuitar ree nove,

azò ke quilli k’èn tegono mangian con reo core.

Tanfin ke i oltri mangiano, no di’ nove angoxose,

156 ma tax, on di’ parolle ke sïan confortose.

L’oltra ke segue è questa: se tu mangi con persone,

no fa’ rumor ni pleo[65], se ben g’avisse rason.

S’alcun dri toi vargasse, passa oltra fin a tempo,

160 azò ke quilli k’èn tego no habian turbamento.

L’oltra è: se doia te prende de qualche infirmitae,

al plu tu poi, compriva la toa necessitae.

Se mal te senti al desco, no dexmostrar la pena,

164 no fa’ reo core a quilli ke mangian tego insema.

Pos quella ven questa oltra: s’entro mangial vedhissi

qualke sgivïosa cosa, ai oltri no’l disissi.

On mosca on qualke sozura entro mangiar vezando,

168 taxe, ke non habian sgivio quilli k’èn al desco mangiando.

[…]

La cortesia seguente è: quando tu he mangiao,

fa’ sì ke Iesù Criste ne sia glorificao.

Quel ke receve servisio d’alcun so benvoliente,

200 sed el non lo regratia, ben è descognoscente.

La cinquantena apresso si è, per la dedrera[66],

lavar le man, po’ bever del bon vin dra carrera[67].

Le man pos lo convivio per poco pòn fì lavae;

204 da grassa e da sozura elle èn po’ netezae.

 

Fra Bonvesin de la Riva, che sta nel borgo di Legnano, delle cortesie della tavola qui vi parla immediatamente; delle cinquanta cortesie che si devono osservare a tavola fra Bonvesin de la Riva ve ne parla ora senz’altro.// La prima è questa, che, quando tu vai a tavola, prima di tutto pensa al povero bisognoso: perché, quando tu nutri un povero, tu nutri il tuo pastore, che ti nutre dopo la morte nella gioia eterna. […] La cortesia ottava è, che Dio ci aiuti, non riempire troppo la bocca né mangiare troppo in fretta; l’ingordo che mangia in fretta, che mangia a bocca piena, quando fosse interpellato, riuscirebbe con difficoltà a rispondere. […] L’altra che segue è questa: quando tu sei ad un banchetto, anche se ci sia del buon vino in tavola, guarda di non ubriacarti. Chi si ubriaca scioccamente, offende in tre modi: Nuoce al corpo ed all’anima, e spreca il vino che consuma. […] La sedicesima poi è davvero: non succhiare con la bocca quando mangi con un cucchiaio. Quell’uomo e quella donna che rumoreggia dentro il cucchiaio, fa come il maiale che mangia il pastone.// La diciassettesima poi è: quando tu starnutisci o quando ti prende la tosse, guarda come tu ti comporti. Girati dall’altra parte, ispirati a cortesia, affinché la saliva non cada sulla tavola. […] Dopo la ventesima c’è questa: non rivoltare tutto insieme come per esempio carne o uova o cibi simili. Chi gira e chi rivolta sul tagliere cercando il meglio, è maleducato e dà fastidio al vicino mentre mangia. […] L’altra è: non mettere accanto al vicino né piatto né scodella, se non c’è una ragione importante. O piatto o scodella se tu li vuoi spostare, lo devi fare solo dalla tua parte. […] La trentunesima è questa: ciascun giovane cortese che si voglia soffiare il naso a tavola, si pulisca coi fazzoletti. Chi mangia o chi serve a tavola, non si deve soffiare con le dita; coi fazzoletti si pulisca, ed usi cortesia.// L’altra che segue è questa: le tue mani sïano pulite, e non mettere le dita nelle orecchie né le mani sulla testa. Non conviene all’uomo che mangia, se è ben educato, frugare con le dita in parti che siano sporche.// La terza dopo la trentesima: non accarezzare con le mani, finché mangi a tavola, né gattini né cani: non è lecito all’uomo cortese accarezzare le bestie con le mani con le quali tocca i cibi apparecchiati.// L’altra è: finché tu mangi con persone educate, non mettere le dita in bocca per pulire dal cibo i denti. Chi si mette le dita in bocca prima che abbia finito di mangiare, sul tagliere con me non mangia per quanto mi riguarda.// La trentacinquesima: tu non ti devi leccare le dita; le dita, chi le mette in bocca, le pulisce malamente. Quell’uomo che si mette in bocca le dita impiastricciate, le dita non sono più pulite, anzi sono più sporche.// La trentaseiesima cortesia: se hai bisogno di parlare, non parlare a bocca piena. Chi parla e chi risponde prima di vuotare la bocca, non potrebbe pronunciare nulla.// Dopo questa viene quest’altra: finché il vicino avrà la coppa alla bocca, non fargli domande; se proprio lo vuoi interrogare, ti avverto di questo, non lo disturbare, dagli tempo almeno di aver bevuto.// La trentottesima è questa: non raccontare tristi notizie, affinché quelli che sono con te non mangino di malavoglia. Finché gli altri mangiano, non dire notizie angosciose, ma taci, o di’ parole che sïano di conforto.// L’altra che segue è questa: se tu mangi con persone, non fare chiasso né litigi, anche se avessi ragione. Se qualcuno ti offendesse, passa oltre fino al momento buono, affinché quelli che sono con te non abbiano turbamento.// L’altra è: se ti prende un dolore per qualche malattia, più che puoi, nascondi il tuo malessere. Se ti senti male a tavola, non mostrare il dolore, non fare star male quelli che mangiano insieme con te.// Dopo quella viene quest’altra: se dentro al cibo vedessi qualche cosa di schifoso, non dirlo agli altri. Vedendo una mosca o qualche porcheria nel cibo, taci, che non provino schifo quelli che stanno mangiando a tavola. […] La cortesia seguente è: quando tu hai mangiato, fa’ sì che Gesù Cristo sia glorificato. Colui che riceve un piacere da qualcun che gli vuol bene, se non lo ringrazia, è davvero irriconoscente.// La cinquantesima poi è, per ultima cosa, lavare le mani, poi bere del buon vino dalla botte. Le mani dopo il banchetto poco possono essere lavate; dal grasso e dallo sporco sono un po’ pulite.

[1] Mi sembra opportuno, a questo punto, definire molto sinteticamente una sorta di “scaletta” cronologica di affermazione di un volgare locale (il toscano) a volgare nazionale, almeno in campo letterario. 1) Dalle prime testimonianze fino a Dante: sono diversi i volgari (chiamiamoli, per comodità, regionali) in grado di esprimere opere letterarie di buona qualità; 2) Dal Trecento (Dante) a Pietro Bembo (prima metà sec. XVI): il volgare toscano si impone (grazie alle personalità di Dante, Petrarca, Boccaccio, e di altri autori minori) come volgare letterario d’Italia, così come lo presenta il Bembo nella sua opera Prose della volgar lingua (1525), a tal punto che ad esso si adeguano anche grandi scrittori non toscani come l’Ariosto; ciò determina la nascita e poi lo sviluppo di letterature “dialettali”, collocate su scalini inferiori rispetto a quella “nazionale”; 3) Dal Rinascimento (Bembo) fino alla metà circa dell’Ottocento: il toscano, definito ormai anche “italiano” tout court, è la lingua degli scrittori e delle conversazioni tra persone colte di origini geografiche diverse; 4) Dall’Unità in poi: l’italiano diventa, poco alla volta, lingua “nazionale” e quindi anche lingua d’uso comune del popolo, oltre che dei dotti.

[2] Ricordiamo che la “questione” del titolo di un componimento poetico di genere lirico è problema tipicamente moderno. Gli autori classici non si preoccupavano infatti di “intitolare” le loro composizioni liriche (altro discorso vale invece per il poema epico), se non col titolo generale della raccolta, relativo al loro argomento o alla loro forma metrica, ma i singoli componimenti si limitavano a portare un numero progressivo, aggiungendovi (ma raramente) il nome del destinatario. Per esempio: Orazio, Odi (titolo generale classificatorio), libro I, componimento 1 (e così via). Similmente accade per la poesia medievale: abbiamo la Commedia (poema epico), ma (poesia lirica) le Rime, al cui interno i testi poetici sono riconoscibili, ed indicati, dal loro 1° verso.

[3] Tale codice raccoglie tutte le liriche della cosiddetta “scuola siciliana” tra(dotte)scritte in siculo-toscano, forma in cui le conobbe anche Dante, citandole nel suo De vulgari eloquentia, opera in cui egli cita pure il v. 3 del componimento di Cielo, che gli doveva dunque essere noto. Per quanto riguarda la lingua, l’unico componimento scampato alla trascrizione siculo-toscana è la canzone Pir meu cori alligrari di Stefano Protonotaro.

[4] Dal verbo greco amóibo (αμοίβω): “scambio, contraccambio”.

[5] Un esempio per tutti: la canzone popolare piemontese raccolta da Costantino Nigra (Canti popolari del Piemonte; Torino 1888; rist. 2009) al nr. 90 col titolo di La pastora fedele.

[6] Nel testo le lettere scritte tra parentesi quadre rappresentano segni non presenti nel ms. ma necessari nella grafia delle parole. L’edizione di riferimento è quella di G. F. Contini, Poeti del Duecento; Milano-Napoli 1960.

[7] Forma arcaica, dal latino voluntatem, che, oltre a non presentarsi in forma tronca (volontà, come anche libertade/libertà, necessitade/necessità, cittade/città…), riproduce la pronuncia fricativa (v-) della labio-velare (b-), così come anche boglio per voglio (v. 16), non ti bale per non ti vale (v. 71), e ancora cabalieri (v. 86). La trasformazione b > v si presenta anche nella pronuncia bizantina (moderna) del greco rispetto a quella classica: bállo/βάλλω (classico)-vállo (moderno); báino/βαίνω (class.)-véno (mod.), tanto che per rappresentare il suono b (beta) il greco moderno ricorre al grafema μπ/mp (es. boukali, “bottiglia”, μπουκαλι).

[8] Dal lat. adventum (arrivo), col valore di “riposo, quiete”.

[9] Come anche frequentemente nella Commedia dantesca, qui “pur” ha valore di “solamente” o “continuamente”.

[10] Epiteto consueto di rispetto verso la donna (< mia donna < lat. mea domina, “mia signora”) in ambiente cortese. È una prima testimonianza nel contrasto di lessico aristocratico-cortese.

[11] Pronome personale monosillabo che, come comunemente nei dialetti centrali (ma anche in alcuni meridionali), aggiunge la sillaba (detta “paragogica”) -ve/-ne (cfr. tune, sine, none, giune ecc.). Cfr. anche infra v. 47 “teve”.

[12] Come già notato (supra) nell’introduzione, ci troviamo di fronte alla figura retorica dell’adýnaton.

[13] Dal latino retondeo (taglio), da cui anche “tonsore, tonsura”, con la prostesi della vocale a-.

[14] Dal lat. solacium (conforto, sollievo). Troviamo questo latinismo anche in francese (soulagement) e, di qui, in inglese (solace).

[15] Latinismo, < hortus, “giardino”.

[16] Col valore etimologico del latino adjungere (mettere insieme, unire) più che non quello acquisito poi dall’italiano “aggiungere”, cioè “mettere insieme, sommare”.

[17] Caso di sostantivo con aggettivo possessivo enclitico (cioè atono, aggiunto direttamente in coda al sostantivo), tipico dei dialetti meridionali (soreta, madrema, padremo), ma che troviamo anche in Boccaccio e in Machiavelli (mogliema, “mia moglie”). Cfr. anche infra a v. 23 (padreto). Tale caratteristica non è propria del siciliano, così che Gianfranco Contini (1912-1990) ipotizza l’uso di termini di altri volgari meridionali nel contrasto.

[18] Verso che costituisce (come visto supra) il terminus post quem per la datazione del contrasto (1231, Costituzioni di Melfi).

[19] Verso che costituisce (come visto supra) il terminus ante quem per la datazione del contrasto (1250, morte di Federico II).

[20] Dal lat. medievale hypérperum (a sua volta dal greco bizantino hyperpyrón, cioè “infuocato”, e quindi “coniato sul fuoco”), nome di una moneta dell’impero d’oriente.

[21] Massamotino (o massamutino), < arabo masmūdī (moneta araba coniata in Spagna), era la parola usata per indicare la moneta del bisante d’oro.

[22] Dal lat. medievale parabulam (a sua volta dal greco παραβολή/parabolé, lett. “paragone, similitudine”) abbiamo la forma parabola (paravola) > paraola (cfr. infra a v. 40) > parola. Lo stesso vocabolo latino (nel senso di “discorso esemplificativo”) ha dato quindi in italiano due esiti: uno, dotto, “parabola” (nel lessico cristiano-scritturale cui si è poi aggiunto anche il valore geometrico di “traiettoria che passa vicino”), e l’altro, popolare, “parola”.

[23] Forma siciliana per “autore di canzoni”, cioè “poeta”. È l’autore stesso del contrasto.

[24] “Di giorno” < lat. dies, “giorno”.

[25] Forma siciliana per “chiaro” (< lat. clarum). Il colorito chiaro (pallido), i capelli biondi e gli occhi azzurri, erano tre caratteristiche tipiche delle donne della poesia trobadorica. Altro esempio dell’imitazione di modelli dotti da parte dell’autore del contrasto.

[26] Forma detta “ipercaratterizzata”, in cui cioè è presente due volte il segno del complemento di compagnia: con + teco. Troviamo una costruzione simile ancora in Dante (con meco; in Inf. XXXIII, v. 39) e in Petrarca (con meco; in Canz. XXXV, v. 14).

[27] Forma etimologica dal lat. est, con vocale paragogica.

[28] Altra figura retorica della poesia dotta: il cumulo o enumeratio. Da notare che per Lombardia si intendeva nel medioevo tutta l’Italia settentrionale. Cfr. Dante, Paradiso XVII, v. 71: in cui con “gran Lombardo” si intende Cangrande della Scala, signore di Verona.

[29] Altro segnale dei modelli dotti del poeta: “cortese”, specialmente se detto di donna, ha valore specifico di “persona degna di rispetto e di amore in quanto esercita la cortesia tipica dell’ambiente aristocratico in cui vive”.

[30] “Vita mia”, con aggettivo possessivo enclitico (cfr. supra).

[31] Altro esempio della figura retorica dell’adýnaton.

[32] Altro termine caratteristico della poesia trobadorica: fin amor, “amore raffinato”.

[33] Forma arcaica, molto simile all’etimo latino habet.

[34] “Disprezzato”, dal latino minus pretiare, lett. “stimare un prezzo inferiore”.

[35] Francesismo: bonheur, “fortuna, buona sorte”.

[36] Si tratta della Ripa di Porta Ticinese, a Milano, dove Bonvesin abitava almeno dal 1290, dopo essersi trasferito in città da Legnano.

[37] Ovviamente usiamo, scusandocene, questo termine in modo “anti-storico”, ma lo facciamo per chiarezza e semplicità, utilizzando un vocabolo di significato condiviso. Infatti, a rigore non potremmo utilizzare il sostantivo “galateo” per opere precedenti il 1558, anno di edizione, postuma, dell’omonimo trattato di mons. Giovanni Della Casa (1503-1556), che diede il nome (fu quindi “eponimo”) al genere letterario ed alla materia da esso trattata.

[38] Questo genere letterario del trattato di “buone maniere” è tutt’altro che sconosciuto nel Medioevo: ne abbiamo esempi un po’ in tutte le letterature europee dell’epoca (cfr. Bonvesin de la Riva, Cinquanta cortesie da tavola, introduzione a cura di M. Noja; Milano 2015, pp. 13-16).

[39] Anche per Bonvesin l’edizione di riferimento è quella di G. F. Contini, Poeti del Duecento; Milano-Napoli 1960. Il codice principale è il ms. Berlinese Ital. qu. 26 (quondam Milanese di S. Maria dell’Incoronata), ma di aiuto nello stabilire il testo è anche il ms. Ambrosiano 95 sup. (risalente però al sec. XV). L’ultima edizione divulgativa, con traduzione italiana moderna, è quella, cfr. supra, a cura di M. Noja (Milano 2015).

[40] Dal latino modo (ora) è forma avverbiale usata ancora oggi in vari dialetti centro-meridionali.

[41] Varia lectio del ms. Ambrosiano è: e’ (tu sei) < lat. es.

[42] Figura retorica etimologica: in latino pastor deriva infatti dal verbo pascor (“pascere, allevare, nutrire”).

[43] Dal latino post, “dopo”. In italiano moderno abbiamo “poi”, che però ha perso il valore di preposizione, mantenendo solamente quello di avverbio (< lat. postea).

[44] Provenzalismo della poesia trobadorica (dolzor), nel senso di “gioia, piacere”.

[45] “Fretta”, cfr. anche piemontese pressa, deverbale dal lat. volg. pressare (intensivo di premere), “comprimere”. Come già ricordato altra volta, le etimologie piemontesi sono ricavate da Aa. Vv., Repertorio Etimologico Piemontese (REP), direzione scientifica di A. Cornagliotti; Torino 2015.

[46] Ubriacarsi < lat. volg. inebriare, “ubriacare” (< ebrius, “ubriaco”), col consueto passaggio b > v (cfr. supra).

[47] Dal lat. ex-pendo, col valore di “consumare qualcosa”; la forma passa poi all’italiano col significato di “spendere denaro”.

[48] Cfr. piemontese cuciar, < lat. cochlearium (lett. “attrezzo per mangiare le lumache” < cochleam, “lumaca”). È presente in tutte le parlate romanze (it. “cucchiaio”), anche se con gli esiti caratteristici di ciascuna lingua.

[49] Come in altri dialetti, “bestia” o “animale” indicano per metonimia il maiale.

[50] Letteralmente “sciacquatura di piatti”; cfr. piemontese colòbia (beverone per i suini ottenuto risciacquando i recipienti usati per i latticini), < lat. colluviem, “sudiciume, risciacquatura”, presente in parecchie parlate dell’Italia settentrionale.

[51] Cfr. piemontese stranuvé, < lat. starnutare, intensivo di sternuere (produrre starnuti), con metatesi (in piemontese e lombardo) di star- in stra- e trasformazione (solamente in piemontese) della dentale (lat. –t-, lomb. –d-) in velare (-v-), così come avviene per rotam > rova o caudam > cova. Il termine è diffuso in tutto il dominio romanzo.

[52] Altra interpretazione possibile è làvori (con pronuncia sdrucciola), cioè “labbra” (cfr. piem. làver), < lat. volg. labĕrum (lat. class. labrum).

[53] Dal lat. volgare manus trudere, “mettere mano, voltare e rivoltare, mettere sottosopra”; cfr. piem. mastrojé e lig. mastrugà, “stropicciare”. Altra ipotesi (REP) è dal lat. volg. masticare, attraverso il prov. mastrouia (cfr. catalano mastrullar), col significato iniziale di “masticare con difficoltà, sbocconcellare”, da cui poi deriva quello di “manipolare, sgualcire”.

[54] Due tipi di stoviglie: gr(a)ellin è il piatto fondo, cfr. piem. e lig. grilèt, “zuppiera”, < lat. volg. cratalem, “paniere di vimini” (attraverso il prov. greilet), mentre squella è la scodella (cfr. piem. scuela < lat. volg. scutellam, “tazza, coppa”), la cui diffusione occupa ampiamente le parlate alpine e padane.

[55] Dal lat. volg. muccare “smoccolare, pulirsi il naso”; cfr. ital. moccio > moccioso e moccichino (fazzoletto), e francese mouchoir, “fazzoletto”.

[56] Dal latino caput (testa); cfr. piem. (capo, principio), usato nell’espressione an cò, “in cima”.

[57] “Bisogna, è lecito” < lat. decet.

[58] “Frugare, rimestare”, cfr. mil. mod. bordegà (insudiciare), cfr. F. Cherubini, Vocabolario milanese-italiano; Milano 1814 (tomo I), p. 45.

[59] “Toccare, accarezzare” cfr. it. pop. brancicare < brancare (con suffisso contemporaneamente diminutivo e iterativo).

[60] “Non è lecito” < lat. non licet.

[61] Cfr. mil. e lomb. occ. mod. hin, “essi sono” (tosc. arcaico “ènno”; cfr. Dante, Inf. V, v. 38 e passim).

[62] Cfr. il mil. mod. (im)pastrugnà, “impiastricciare” (cfr. F. Cherubini, op. cit., p. 232).

[63] Pronome indefinito negativo neutro ancora usato in milanese (nagot, nagota) < lat. volg. ne guttam, “neanche una goccia”, e quindi “nulla, niente”.

[64] “Dare fastidio”< lat. volg. *imbracare (?).

[65] “Lite, lamentela”, cfr. piem. plenta (lamento) < lat. volg. plangere (letteralmente “battersi il petto”), attraverso il francese plainte. Da notare che invece l’esito piemontese per “piangere” (pioré) è dal lat. volg. plorare.

[66] Cfr. piem. darera, “dietro, ultimo” < lat. de+ab+retro. Notiamo, per inciso, che le parlate gallo-italiche tendono a continuare esiti latini formati con due preposizioni innanzi al vocabolo, di contro all’unica preposizione dell’esito italico; es. darera (cfr. supra) vs. dietro (< de + retro) o anche il napoletano arreto (ab + retro); dësloé (< de+ex+locare) vs. slogare (< ex+locare). È appena il caso di rimarcare come l’uso delle preposizioni sia un segno chiarissimo della diversa natura, non solo formale, ma profonda di una lingua rispetto ad altre. Le lingue romanze tendono a formare termini composti anteponendo una/due preposizioni per indicare significati anche molto diversi rispetto alla forma semplice, mentre quelle germaniche – per esempio – tendono a collocare le preposizioni dopo il termine (in genere il verbo) sia con valore preposizionale che avverbiale (to take something off ha un significato differente da to take off: “togliere qualcosa” vs “decollare”). Altra lingua “generosa” con l’uso delle preposizioni nelle forme composte è il greco classico, che arriva anche a premettere fino a tre preposizioni davanti ad un verbo, formando così un vocabolo non traducibile in italiano se non con una perifrasi che costituisce talora un’intera frase. È il caso di Od. VI, v. 87, in cui Omero usa il verbo υπεκπρορέω/upekproréo, in cui distinguiamo le preposizioni υπό, εκ, πρό davanti al verbo ρέω, per significare che l’acqua della sorgente di cui si sta parlando “scorre (ρέω) uscendo dal basso (υπό), staccandosi dalla roccia (εκ), spandendosi poi intorno (πρό)”.

[67] Cfr. piemontese carera “botte grande, botte da carro”, < lat. volg. carrariam (< carrum), lett. “relativa al carro”, poi sottintendendo (buttem) carrariam, “botte da carro”. Voce diffusa in tutta l’area romanza, pur con diversità di sostantivi sottintesi; es. viam carrariam, “strada per i carri”, > ital. carriera.

 

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