Luigi Fransoni, un Arcivescovo morto in esilio per non essersi piegato ai liberali

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Giuseppe Odoardo Corazzini scrive nelle Memorie storiche della famiglia Fransoni (Firenze, 1873) che Luigi, grande rappresentante della casata genovese, morì «[…] per crudele malattia cagionatagli dai patimenti morali».

Luigi fu sepolto nella cattedrale di Lione, dove ne conservò il ricordo una lapide con incisa una frase latina, che può essere tradotta «qui giace Luigi Fransoni, arcivescovo di Torino, il quale, virilmente combattendo per i diritti della Chiesa, fu cacciato in esilio e morì a Lione il 26 marzo del 1862».

Luigi nacque a Genova nel 1789 da Domenico (uomo di Stato e studioso, noto sia per i propri lavori su Cristoforo Colombo sia quale precursore nel campo degli studi meteorologici) e da Battina Carrega. Aveva otto anni quando il padre, un conservatore che non voleva subire il regime esportato a mano armata dai rivoluzionari francesi, lasciò Genova con i figli e si stabilì a Firenze, poi a Jesi e Roma, non rientrando in patria neppure sotto la pressione dei ricatti che prescrivevano sequestri e sanzioni pecuniarie contro i cittadini emigrati, in seguito ai quali sborsò, per non venire meno ai “princìpi” – come si legge nel suo testamento – e nella speranza di poter sfuggire alla completa confisca del proprio patrimonio, grosse somme.

Luigi decise di farsi prete, verso il 1813 (dopo avere rifiutato un brevetto di nomina da parte di Napoleone a sottotenente nelle truppe imperiali) con decisione accolta dal padre con preoccupazione, «come non di sollievo alla casa», ma non ostacolata. L’11 dicembre 1814 fu ordinato sacerdote e, divenuto catechista della congregazione dei Missionari urbani, percorse senza risparmiarsi l’entroterra montano della diocesi di Genova, predicando il Vangelo.

Nel 1821, appena trentunenne, fu creato Vescovo di Fossano. La profonda stima nei suoi confronti da parte prima di Carlo Felice (che lo chiamò a far parte di una commissione che aveva il compito estremamente delicato di deliberare in ordine alla restituzione alla Chiesa dei beni che le erano stati sottratti durante il periodo rivoluzionario e imperiale) e poi di Carlo Alberto, fu all’origine della nomina ad amministratore apostolico della diocesi torinese dopo la morte di Colombano Chiaverotti e, poco dopo, ad arcivescovo di Torino.

Sostenendo le spese personali ed altre necessarie per il funzionamento e il servizio della casa arcivescovile col proprio patrimonio privato rese disponibili sui redditi della Mensa notevoli somme a beneficio della Chiesa e dei poveri, che si vuole abbia pure aiutato in modo silenzioso, ma costante e massiccio.

Per parecchi anni rimase in eccellenti rapporti coi sovrani sabaudi che lo vollero quale consigliere di Stato e che gli attribuirono, con la nomina a cavaliere della Ss. Annunziata, nel 1840, il massimo segno della loro amicizia e considerazione. Fu lui a celebrare il matrimonio di Vittorio Emanuele II e a tenere a battesimo, in nome del Pontefice, il principe Umberto. I tempi nuovi tuttavia incalzavano, preparando, sullo sfondo dell’antagonismo tra l’autorità civile e quella della Chiesa, una frattura insanabile. Quando nel governo torinese iniziarono a preponderare le correnti liberali, spesso antireligiose, avverse alla Santa Sede sempre, Fransoni condusse una lotta senza quartiere a favore del vecchio ordine. Combatté contro la nuova politica scolastica del governo piemontese e osteggiò i corsi di metodo tenuti da Ferrante Aporti nell’Università torinese; difese con intransigenza l’autonomia della Chiesa. Nel 1848 i rivoluzionari più accaniti manifestarono in piazza contro di lui, ottenendone di fatto il momentaneo allontanamento da Torino. Dopo una breve residenza a Ginevra, nonostante vi fosse chi ne chiedeva l’allontanamento definitivo, rientrò nella sua diocesi, anche in seguito ad una petizione firmata da diecimila torinesi. I suoi nemici non lesinavano malignità e maldicenze nei suoi confronti per mettergli contro a un tempo il popolo e il sovrano, giungendo ad insinuare, per screditarlo, che fosse pazzo. I contrasti tra lo Stato e la Chiesa non erano certo una novità nei domini sabaudi: per decenni le controversie giurisdizionali erano state ininterrotte anche se in genere, dipendendo la loro soluzione dai rapporti diretti tra la Corona e la Corte pontificia, una mediazione accettabile per entrambe le parti si riusciva sempre a trovare.

Forse non cessò mai e passò da Vittorio Amedeo II di successore in successore, almeno il malumore per le interferenze romane durante il breve regno sabaudo di Sicilia, che si consideravano tra le concause che condussero – contribuendo ad animare l’azione delle potenze antagoniste che volevano recuperare il possesso dell’isola o conquistarlo –  allo scambio forzato tra Regno di Sicilia e Regno di Sardegna (che pure a Vittorio Amedeo poi non dispiacque troppo, dato che presto apprezzò molto la forte e combattiva gente sarda). A metà Ottocento la situazione era però completamente cambiata e rivoluzionata e gli stessi sovrani dovevano fare i conti con le istituzioni, pur ancora acerbe, “democratiche” e con le forze e sette che vedevano nella laicità e nella completa indipendenza degli Stati dall’autorità della Chiesa (quando non in un antagonismo senza quartiere) un obiettivo chiave.

Le posizioni assunte da Fransoni in seguito all’approvazione delle leggi Siccardi per l’abolizione delle immunità giurisdizionali ecclesiastiche (tra l’altro rifiutò a uno dei firmatari di queste leggi, Pietro di Santarosa la somministrazione dei sacramenti sul letto di morte, cosa a cui fu dato ampio risalto a livello giornalistico e poi storico) ne provocarono l’arresto, l’incarcerazione a Fenestrelle, sotto l’accusa di complotto contro il Parlamento e il governo, cui seguì l’esilio a Lione.

Nessuno però riuscì a fargli accettare compromessi, né ad estorcergli la rinuncia all’arcivescovado. Il suo atteggiamento rimase, anzi, inalterato, sintetizzato in una frase scritta in una lettera da Lione nel 1854: «Facciamo tutte le opposizioni possibili affinché il Governo sia obbligato a smascherarsi nella sua persecuzione contro la Chiesa. Si cada, se così sta scritto, ma si cada combattendo».

 

Lo stemma sull’antico palazzo dell’Arcivescovado di Torino

 

 

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