Luci e ombre sulla conquista cattolica in America

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Quando si discute della conquista spagnola e portoghese dell’America, in genere due sono gli avvenimenti che tutti ricordano: Cristoforo Colombo e il massacro dei popoli indigeni. E, almeno in epoca recente, il secondo sta prevalendo sul primo facendo leva sull’ideologia anticristiana imperante e sulla sostanziale ignoranza dei più. In questo contributo non analizzerò la vicenda, notissima, della conquista del Nuovo Mondo – bastino gli studi dei tanti che si sono cimentati in questa ardimentosa avventura a narrare l’evento nella sua complessità – ma cercherò di condurre un’analisi più critica e trasversale, perché il racconto degli episodi singoli non offuschi il quadro nel suo insieme.

In primis, dobbiamo ammettere che la conquista non fu pacifica; questa è una ovvietà. Le stragi, le violenze, le ruberie sono avvenute sempre nella storia, e l’avventura americana di Spagna e Portogallo si è inevitabilmente tramutata in una ruberia generalizzata di ori e monili: cosa poteva avvenire di diverso, in una condizione di vacatio legis diffusa, lasciando l’azione delle conquiste alle bramosie dei singoli conquistadores? La stessa geografia sconfinata dell’America permise inizialmente la perpetrazione delle violenze nella sicurezza che i controlli sarebbero stati impossibili. Sì, perché la Spagna – a differenza dell’Inghilterra anglicana… – si mosse in fretta per arginare lo stato di anarchia che si era venuto a creare nei suoi domini oltreoceano, emanando le severissime Leggi di Burgos (e successivamente le Leggi Nuove) con le quali tutelava gli indigeni e prometteva pene severe per coloro che si fossero macchiati di violenze e che li avessero ridotti in schiavitù. Certo, la Spagna esportò in America l’istituto medievale dell’encomienda, che forse non fu la soluzione migliore possibile (vista con i nostri occhi di uomini del Duemila) ma che all’epoca fu una benedizione: nuovamente, il confronto con l’Inghilterra risulta impietoso, poiché le colonie di Sua Maestà Britannica furono sottoposte ad un regime ben più duro di quello iberico, viziate da un razzismo di fondo che portò ad una netta segregazione degli indigeni. Si pensi alle riserve degli indiani d’America, naturale conseguenza del trapasso del colonialismo inglese nel sistema politico e sociale degli Stati Uniti.

Noi (Beati monoculi in terra caecorum!) abbiamo abbastanza raziocinio per vedere ed affermare che gli spagnoli e i portoghesi non furono razzisti, a differenza delle potenze protestanti, che crearono una società divisa su basi razziali e che si prodigarono per importare schiavi dall’Africa quale manodopera gratuita. Nell’impero spagnolo (cattolico) la schiavitù non esisteva. Gli indios erano liberi sudditi della Corona di Spagna. Ripetiamolo ancora una volta: liberi sudditi della Corona di Spagna. Come ha evidenziato il filosofo argentino Alberto Caturelli, l’avventura di spagnoli e portoghesi non fu soltanto conquista, ma soprattutto fondazione. Una fondazione «progressiva di un mondo nuovo». E, continua Caturelli: «Per la coscienza primitiva, l’America come tale non esisteva, in quanto […] era un’atomizzazione che si ignorava in virtù della sua immersione nel tutto mitico-magico precedente la conoscenza critica della continentalità e della nazionalità»[1]. Ad inventare l’America, a cominciare dal nome stesso del continente e proseguendo attraverso le sue peculiarità geografiche, sono dunque stati gli europei, che hanno promosso un processo di auto-coscienza dei popoli indigeni, processo maieutico alla luce della Verità di Cristo.

 

Francisco Pizarro e gli Incas, fonte: Getty-Images

 

Per questo motivo, gli indigeni non furono mai inferiori agli spagnoli. Anzi: in quella che fu la Nuova Spagna, il governo perseguì con interesse e dedizione una politica volta alla commistione degli indios con gli europei. Di nuovo Caturelli: «La coscienza spagnola non solo non escluse mai il meticciato ma lo incluse anche nelle sue disposizioni formulate dalla corona, e venne fondendo l’indigeno e lo spagnolo in una sorta di scoperta progressiva – al tempo stesso emersione dell’originario – che conferì all’America un senso e un’unità che prima mancava»[2].

Dopo la conquista, avvenne dunque l’unione dei due popoli; unione per nulla osteggiata dal governo di Madrid ma, anzi, voluta e ricercata proprio per creare una Nueva España, una Spagna oltre l’Europa.

A dare l’esempio furono i primi, grandi conquistadores. Cortés ebbe per amante l’india Marina Malinche; Pizarro ebbe figli con Iñes Huayllas Yupanqui, sorella di Atahualpa e dalla principessa Añas Yupanqui. Diego de Almagro si unì ad una donna panamense, Ana Martínez, dalla quale ebbe il figlio omonimo, Diego de Almagro detto El Mozo. Il nipote di Pizarro, Martin, studiò la lingua incaica e la padroneggiò con tale maestria da suscitare la sorpresa degli inca stessi. Non solo: la figlia di Montezuma, doña Isabel, riconosciuta quale legittima erede dell’imperatore azteco, ottenne – caso raro tra gli indigeni – la direzione di una encomienda. Ma prima ancora di ciò, doña Isabel de Montezuma si sposò con un membro della spedizione di Cortés, Alonso del Grado, quindi con Pedro Gallego ed infine con Juan Cano de Saavedra (ma ebbe anche una relazione con lo stesso Cortés, dal quale ebbe una figlia, Leonor). Tra i figli avuti con Cano de Saavedra uno, Juan, si sposò con doña Elvira de Toledo, appartenente ad una famiglia di antica nobiltà spagnola (con la quale, il lettore forse ricorderà, si era imparentato anche il figlio di Colombo, don Diego). In tal modo, il sangue di Montezuma II, imperatore azteco, si imparentò con quello della più blasonata aristocrazia spagnola, generando la dinastia dei nobili Moctezuma, i cui discendenti esistono ancora oggi.

 

Cortés e la sua amante e traduttrice Malintzin incontrano il tlatoani Montechuzoma II, XVI secolo

 

Al quadro precedentemente tratteggiato, andrebbe aggiunta la presenza cospicua dei missionari, in particolar modo dei frati e dei gesuiti, che in America fondarono chiese, conventi e missioni di straordinaria bellezza, fondamentali per l’educazione cristiana degli indios. Non soltanto: come nel più “cupo” Medioevo europeo, quello dell’anarchia successiva alle invasioni barbariche, i monasteri furono essenziali per la tutela degli indigeni dagli abusi dei conquistadores più riottosi all’osservanza delle leggi spagnole. Leggi che, alla fine, costrinsero molti dei soggetti più recalcitranti a lasciare l’America e a far ritorno in Europa: per loro, il sogno di diventare ricchi signori in barba alla legge spagnola era impresa troppo difficile. Non è un caso che a sollevare il caso degli indigeni maltrattati e violentati dai primi conquistadores fu proprio un religioso, fra Bartolomé de Las Casas, autore di una celeberrima Brevissima relazione alla corte di Carlo V che viene ancora oggi citata per dimostrare i crimini presunti degli spagnoli. In realtà, Las Casas esagerò, e lo fece volutamente, per accelerare il processo legislativo in favore degli indios. Per Américo Castro e Jean Dumont, le cifre di Las Casas sono «incredibili, false sotto ogni riguardo»[3]. Las Casas fu un anti-imperialista, tenacemente oppositore della necessità della colonizzazione – o forse, di quella colonizzazione. Ancora Dumont evidenzia un sostanziale – e grave – errore di Las Casas: «L’errore di Las Casas è grave, cristianamente. Egli ha rifiutato di dare a Cesare – un Cesare attentamente cristiano – quello che è di Cesare in nome di quello che è di Dio»[4]. Nondimeno, Carlo V accolse Las Casas, la corte studiò le sue proposte, ed anche se le cifre e le narrazioni del domenicano erano campate per aria, riconobbe la necessità di una legislazione più attenta nei confronti degli indios. Sorprende, dunque, che la “buona” isteria di Las Casas non sia stata presa in considerazione, e che oggi si citi la Brevissima Relazione unicamente per condannare la Spagna, pur sapendo come andarono davvero le cose.

E la prova è sotto gli occhi di tutti. È l’America latina, che a distanza di cinque secoli esiste ancora ed ha conservato molte delle sue peculiarità. I discendenti di maya, aztechi ed incas esistono ancora, e in alcuni casi sono una componente molto alta della popolazione. In altri, il “meticciato” ha generato una società positivamente mescolata, sempre però retta da basi cattoliche (in epoche recenti alquanto malandate, ma pur sempre evidenti). Negli Stati Uniti protestanti il processo è stato diverso: il “meticciato” esiste ma è il frutto di un processo più lento e travagliato, che ha portato alla segregazione dei negri ed una accesa acredine razziale ed etnica. E gli eredi dei pellirossa, confinati a riserve patetiche, sono vittime di alcolismo e droghe.

Lungi dall’essere stato il “migliore dei mondi possibili”, l’America latina è stata un esperimento con molte luci e molte ombre. Ma la luce è stata quella della fede cattolica: e questo innegabile dato di fatto deve essere testimoniato e ricordato ancora oggi. Anzi, soprattutto oggi, in un’epoca nella quale la cancel culture tenta – ma non riuscirà! – di fare spazzatura del nostro glorioso passato.

 

[1] A. Caturelli, Il Nuovo Mondo riscoperto, Ares 1992, p. 143.

[2] Ivi.

[3] J. Dumont, Il Vangelo nelle Americhe, Effedieffe, 2019, p. 49.

[4] Ivi, p. 61-62.

 

 

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