L’effigie di Nostra Signora di Lampedusa che il «Il Gagliardo» portò nella sua Liguria, dopo 40 anni di schiavitù

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Confesso che la prima volta in cui mi imbattei, quasi per caso, nelle indicazioni stradali che segnalavano il Santuario di Nostra signora di Lampedusa, pensai ad un toponimo locale che nulla avesse a che vedere con la lontanissima isola posta nell’arcipelago delle Pelagie. Mi trovavo infatti a percorrere la via Aurelia, lungo la fiorita riviera ligure di ponente, in provincia di Imperia e nei pressi di Taggia. Il mare azzurro che affiancava la strada era certo il medesimo, il Mediterraneo, ma l’ambiente, la posizione geografica e la storia dei due luoghi mi apparivano francamente ben poco coniugabili nel caratterizzare univocamente il medesimo riferimento.

Ben presto mi accorsi però che sbagliavo. Il Cielo, del resto, ci ha mostrato anche in altre Sue grandiose manifestazioni di saper congiungere, con estrema naturalezza, terre lontane e genti assai diverse. Pensiamo anche soltanto, tanto per fare due semplici esempi, alla Traslazione miracolosa della S. Casa a Loreto o al rinvenimento a Santiago di Compostela delle Reliquie dell’apostolo San Giacomo il Maggiore. La tela tessuta dalla Divina Provvidenza, di cui possiamo seguire solo molto parzialmente i disegni, non ha infatti confini temporali o spaziali.

Veniamo dunque a narrare, sia pur sinteticamente, la bellissima storia del nostro santuario che si trova, come già accennato, a Castellaro, nell’immediato entroterra di Taggia e sul territorio dell’attuale Diocesi di Ventimiglia-Sanremo.

 

Andrea Anfossi

Il protagonista della vicenda si chiama Andrea Anfossi, o, secondo alcune fonti, Anfosso (a sinistra, la sua casa natale). Egli era un giovane contadino, esperto però anche in marineria, come quasi tutti gli abitanti della riviera ligure. I suoi amici lo avevano soprannominato «Il Gagliardo», per l’alta statura ed il grande coraggio che dimostrava in ogni circostanza.

Eravamo oltre la metà del XVI secolo e le coste europee del Mar Mediterraneo dovevano ancora subire, come da quasi mille anni, periodiche e sanguinose scorrerie di pirati mussulmani. La storica battaglia di Lepanto, che avrebbe infatti lentamente posto rimedio a tale piaga, si combatté circa un decennio dopo il rapimento dell’Anfossi.

Così, secondo la tradizione ed alcuni documenti notarili, durante la notte del 25 giugno 1561, il giovane si trovava a bordo di una piccola imbarcazione incaricata di sorvegliare il litorale taggiasco. Si trattava di un servizio volontario, organizzato dai cittadini della zona, allo scopo di contrastare eventuali aggressori provenienti dal mare.

All’improvviso però, approfittando dell’oscurità, alcune navi pirata si materializzarono nelle tenebre e, dopo un breve ma violento scontro, riuscirono a prendere prigioniero il nostro giovane «Gagliardo».

La sua cattività, secondo le cronache del tempo, durò più di quarant’anni: un tempo davvero molto lungo nel quale tuttavia il buon marinaio ligure non perse, nonostante le lusinghe dei saraceni, la Fede cristiana. Fu pertanto costretto a lavorare duramente come rematore sulle navi musulmane: una vita senz’altro assai dura sulla quale purtroppo non ci sono stati tramandati particolari significativi. Arriviamo così, con un balzo di quattro decenni, al 1602. Andrea non era ovviamente più giovane ma le forze, che erano state all’origine del soprannome attribuitogli dai paesani, non lo avevano ancora abbandonato.

Un giorno la nave su cui prestava servizio come rematore fece scalo sulle coste dell’isola di Lampedusa e il comandante gli ordinò di scendere a terra per approvvigionare il bastimento di legname.

 

Lampedusa 

Prima di continuare comunque il racconto dei fatti, mi sembra giusto fornire ai nostri lettori qualche succinta notizia storica sul luogo. L’isola apparteneva formalmente, in quell’epoca, al Regno di Napoli ma, di fatto, appariva disabitata e poco considerata dagli eserciti cristiani.

In pratica, sul suo territorio, approdavano spesso navigli delle più svariate nazionalità con lo scopo di far rifornimento di viveri od acqua.

Esisteva, ad ogni modo, in una valletta interna, una piccola grotta dove, pare dall’epoca della IV Crociata (1202 – 1204), si venerava un’immagine della Beata Vergine Maria. Alcune fonti ci narrano che il luogo era presidiato da un eremita che, antesignano forse dell’ecumenismo modernista, o, più probabilmente, temendo di essere ucciso, accoglieva indifferentemente pellegrini devoti sia islamici che cristiani. Quando arrivavano i primi innalzava una bandiera con la mezza luna, allorché invece giungevano i secondi, provvedeva immediatamente a munirsi di una grande croce. Sappiamo infatti che la Madonna, seppur non certo considerata Madre di Dio, viene comunque onorata anche da alcuni seguaci di Maometto.

Non sappiamo francamente se il nostro «Gagliardo» fosse giunto nei pressi di questo piccolo sacello, che esiste ancor oggi con il nome di santuario della Vergine di Porto Salvo.

Sta di fatto che, d’un tratto, mentre stava abbattendo con la scure alcuni alberi, gli apparve, in mezzo ad una grande luce, il quadro che viene tuttora conservato nella chiesa di Castellaro.

Si tratta di una tela, piuttosto ampia, che rappresenta la Madonna con accanto, inginocchiata, la figura di santa Caterina di Alessandria.

Lo schiavo, colpito dal ritrovamento, fu quindi preso da profonda commozione. Egli infatti aveva sempre conservato, accanto alla vera Fede, il grande desiderio di poter prima o poi ritornare nella sua terra ligure. Espresse così, con il cuore, un voto alla Santa Vergine che gli si era manifestata attraverso quel simulacro: se fosse stato liberato avrebbe donato l’appezzamento di terreno di sua proprietà, denominato «Costa ventosa», affinché vi fosse costruita una cappella.

Subito dopo, come ispirato dal Cielo, si mise di buona lena ad abbattere un grande albero. Ne svuotò il tronco, realizzando una sorta di canoa, e, senza perdere ulteriore tempo, portò quell’improvvisata imbarcazione sulla spiaggia più vicina.

Prese quindi il largo, portando con sé la tela rinvenuta sull’isola. Non sapendo però la direzione da seguire, egli si affidò totalmente  alla Madonna, la «Stella Maris», la «Stella Mattutina» che incessantemente guida i suoi fedeli al porto sicuro della salvezza.

E Maria Santissima non abbandonò il suo figlio che, innalzando, a guisa di vela, il quadro miracoloso, giunse, sano e salvo, sulla costa taggiasca in un giorno imprecisato dell’anno 1602.

Non sappiamo quanto durò la lunga traversata ma, né i turchi, né i venti impetuosi, né le onde poterono fermare quella piccola barca condotta da un così potente nocchiere.

I paesani, quando videro ricomparire colui che probabilmente avevano dato per morto, rimasero assai stupiti. Ascoltarono il suo racconto e, commossi da un fatto così straordinario, si misero subito a disposizione per la costruzione della chiesa.

 

Il Santuario

La costruzione del tempio iniziò, con il consenso dell’Autorità Ecclesiastica, subito dopo il ritorno di Andrea Anfossi e mentre costui era ancora vivo. Anche questo elemento, dunque, unito alle numerose relazioni esistenti, fra cui un atto notarile, rogato nel 1714 e particolarmente dettagliato, conferma l’autenticità dell’evento.

Si narra altresì che il «Gagliardo» insistesse molto affinché il santuario fosse edificato, come egli aveva promesso, sul suo terreno di Costaventosa. I costruttori però, dato che il luogo appariva assai scosceso, consigliarono di spostare il cantiere di circa 500 metri, sul sito dove già esisteva un’antica cappella votiva. Si procedette dunque, nonostante le proteste del miracolato, a rifare, ampliandola, tale cappella e, al termine dei lavori, il quadro proveniente da Lampedusa fu collocato all’interno della chiesetta.

Dopo qualche giorno, tuttavia, l’immagine sparì e venne ritrovata nel mezzo del podere di Costaventosa. Naturalmente i maligni accusarono subito l’Anfossi di averlo trafugato ma la sparizione si ripeté anche una seconda volta, nonostante che la cappella fosse stata strettamente sorvegliata da alcune guardie.

Non restò dunque ai castellaresi che rispettare il patto, stretto fra lo schiavo liberato e la sua celeste Patrona. Il terreno di Costaventosa venne, per quanto possibile, spianato ed il nuovo santuario sorse là dove la Madonna desiderava essere collocata.

I lavori terminarono così nel 1619, solo diciassette anni dopo il ritorno del «Gagliardo».

Da allora Nostra Signora di Lampedusa non cessò mai di proteggere e concedere grazie ai suoi figli residenti in quell’angolo incantevole di riviera ligure. Alla sua intercessione sono attribuiti infatti l’allontanamento di lupi famelici, la protezione in occasione di guerre e pestilenze, molte guarigioni straordinarie di fedeli che l’avevano invocata con Fede.

Oggi il santuario, che sorge in posizione molto panoramica a m. 370 di altezza sul mare, si presenta a pianta circolare e preceduto da un piccolo portico.

Nell’interno, sopra l’altar maggiore, è custodita la tela originale circondata da un’ancona marmorea. Ogni anno, nella domenica successiva all’otto settembre, festa della Natività di Maria, viene ancor oggi portata in processione lungo le vie del paese.

Sopra la porta d’ingresso, invece, è conservato un antico affresco che raffigura Andrea Anfossi durante la navigazione, mentre tiene sollevato, come una vela, il quadro da lui rinvenuto.

 

La statua che viene portata in processione la seconda domenica di settembre, Santuario di Nostra Signora di Lampedusa, Castellaro (Imperia)

 

Al termine di questa trattazione non possiamo però esimerci dal raccontare anche un avvenimento molto doloroso che, ai miscredenti, spesso fa storcere il naso perché evidentemente non riescono a ragionare in una prospettiva soprannaturale.

Era il 23 febbraio 1887, mercoledì delle Ceneri. Il tempio era gremito di poveri contadini che, in spirito di penitenza, si erano recati in chiesa per ricevere quel sacramentale così importante.

Non sappiamo se il sacerdote avesse già pronunciato le parole previste dal rito: «Ricordati che sei polvere e polvere ritornerai…». Vogliamo pensare che molti di quei poveri devoti, conoscendo certamente il significato di quel segno, stessero meditando sulla fragilità della vita umana e sulla necessità di chiedere perdono a Dio per i peccati commessi.

All’improvviso, comunque, una forte scossa di terremoto colpì tutta la zona: quel sisma oggi è ricordato come il terremoto di Diano Marina che provocò complessivamente oltre quattrocento vittime. Il tetto del santuario precipitò sui fedeli e ne uccise ben quarantasette.

Certo i disegni del Cielo ci sono imperscrutabili. È obiettivamente difficile tentare un’interpretazione dell’evento, dalla nostra limitatezza umana, perché siamo piccoli e incapaci di comprendere pienamente la grandezza di Dio.

La sana dottrina però ci fornisce le categorie teologiche anche per affrontare situazioni come queste. Esistono i castighi divini, esiste un mistero del male che, come una comunione dei santi al contrario, fa ricadere le conseguenze dei peccati anche sugli innocenti, esiste comunque anche sempre l’amore di Dio che sa scrivere dritto anche sulle righe più storte.

Mi piace immaginare dunque, in questo caso, pur non avendone ovviamente alcun elemento decisivo, che questi quarantasette cristiani, recatisi evidentemente in chiesa con il desiderio di fare penitenza e chiedere perdono, abbiano potuto giungere presto in Paradiso condotti, come il loro antenato «Gagliardo» dalla Beata Vergine di Lampedusa. Magari, se fossero vissuti di più, forse avrebbero avuto maggiori occasioni di perdersi. Questa è, in verità, la prospettiva più autentica della vita cristiana: poter giungere ad una santa morte, indipendentemente dalla lunghezza di questa nostra esistenza terrena. Ciò che il mondo giudica quindi come una disgrazia, può essere invece una grande grazia.

 

Il borgo ligure di Castellaro

 

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