Le lingue tecniche del latino

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Volgiamo ora la nostra attenzione a quelle che vengono normalmente definite, non solo per il latino ma per qualunque lingua, le «lingue tecniche»[1] o «linguaggi settoriali», cioè quegli usi della lingua, specie per quanto riguarda il lessico, ma talora anche per la sintassi, specifici di ambiti ben definiti, dai linguaggi dei mestieri a quelli di ambienti specifici della società a, ultimi ma non ultimi (extremi sed non postremi), i gerghi di settori isolati (per loro scelta) nella società, costituenti – questi ultimi – quelle forme di linguaggi “esclusivi” elaborati, e poi usati, per assicurare la non comprensibilità all’esterno della cerchia dei membri o degli adepti[2].

In questo primo momento ci occupiamo di due linguaggi settoriali tra loro strettamente collegati e di interesse collettivo quanto mai fondamentali nella società e nello stato romano (e di conseguenza poi nella civiltà ad esso successiva): la lingua della Religione e quella del Diritto, entrambe classificabili sotto la definizione di «lingue di patto», tra uomo e divinità, nel primo caso, e tra uomo e uomo, nel secondo.

 

Religione

 

I Romani avevano quella che si definisce una visione «contrattualistica» della religione (elemento comune col diritto): vale a dire che, se l’uomo prega la divinità usando determinate formule, costituite da parole ben nette e precise e sempre uguali, il dio è in qualche modo “obbligato” ad esaudire le sue richieste in nome appunto di un accordo fondato essenzialmente sulla ritualità. Ciò spiega anche il fatto che anche in età tardo repubblicana (I a. C.) e poi imperiale (dal I d. C. in poi) si siano continuate ad usare formule di invocazione, di augurio e di scongiuro, e di preghiera sempre uguali a se stesse, fissate in perpetuum nella lingua formulare arcaica, di cui quasi più nessuno capiva con precisione il senso nella sua completezza, così come ci dice Cicerone nella sua operetta di argomento religioso De divinatione.

Si trattava dunque di formalismo religioso, agli antipodi del misticismo di tipo greco-orientale, fondato sui concetti di fides (lealtà) e di pietas (rispetto) e che non poteva permettere eventuali omissioni, dovendo escludere la possibilità di errori di qualsivoglia sorta durante il rito[3].

L’idea stessa di divinità era fondata sul concetto di numen, termine (corrispondente all’incirca all’ebraico shekinah) che, non immediatamente traducibile in italiano se non con il letteralissimo «nume», indica la «presenza, insieme terribile e amichevole, della divinità», o anche «l’essenza intima del dio», vale a dire ciò che consente al dio di essere tale. Un aspetto concreto di tale concetto (che i Romani condividevano con i Greci) può essere visto nel passo dell’Odissea in cui l’eroe, giunto alla terra dei Feaci, “sente” in modo misteriosamente mistico la “presenza” di Athena intorno a sé, oppure – in un contesto assolutamente diverso ma in certo qual modo assimilabile – nei vv. 197-201[4] e 258-263 dei Sepolcri foscoliani[5].

La “casta” sacerdotale romana comprendeva: sacerdoti e pontefici, addetti alle divinità maggiori, i flamina (sing. flamen), addetti ciascuno ad una sola e singola divinità, mentre il pater familias (il capo cioè della casa[6]) era addetto al culto delle divinità minori ed in particolare a quello dei Lares (dall’etrusco lar, “padre”, gli antenati che, divinizzati, proteggevano la casa e la famiglia) e dei Penates (divinità protettrici della casa).

Le preghiere erano innanzitutto i carmina (sing. carmen), cioè formule quasi magiche il cui nome (che più tardi passerà ad indicare genericamente la “poesia”) era inizialmente usato a significare formule di incantamento[7] in versi, che potevano produrre il fascinus e la fascinatio (cioè l’«influsso maligno»; da mettere in relazione con greco βάσκανος [bàskanos], «ammaliatore»); poi gli incantamenta (formule magiche, con potere costrittivo sulla divinità); le precationes (dal verbo precor), cioè preghiere, sì, ma con richiesta (come già detto) di esaudimento contrattuale, ed il loro contrario le imprecationes, vocabolo che nell’italiano di oggi mantiene ancora il suo valore negativo. Non stupisce poi che parecchie di queste formule, specie di carmina, costituiscano i primissimi esempi fino a noi conservati della lingua latina: queste formule – come si è visto – dovevano mantenere rigorosamente il loro andamento lessicale e metrico, pena il non esaudimento da parte della divinità, e pertanto era giocoforza che venissero messe per iscritto, fin dal principio della storia della civiltà latina, anteponendole anche ad altri testi pur importanti[8], proprio per non rischiare che esse venissero recitate in modo distorto o scorretto, se non addirittura dimenticate.

Va da sé che la religione romana, coi suoi caratteri statalistici e collettivi, ha immediatamente forgiato un gran numero di termini che, da specifici, sono poi anche entrati nell’uso comune, variando talora (ancorché di poco) il loro valore. Vediamone alcuni esempi: contemplor (< templum; greco τέμενος [témenos]) valeva inizialmente «considerare il templum», cioè lo spazio sacro adibito al culto (il tempio); considero (e desidero, che in latino però valeva «provare malinconia, sentire la mancanza»), da sidera (sing. sidus, cioè le stelle), indicava l’osservare le stelle, intese come segni celesti e quindi degli dèi; devotio (< de-voveo, «offrire in voto agli dèi infernali»: de-) era la formula di maledizione, usata in genere in ambito militare.

Altri termini di origine religiosa, molto antichi e con legami con il lessico giuridico, sono: rex (lett. «colui che guida» < regere) nasce in ambiente religioso con il rex sacrificulus (il capo del sacrificio); flamen (sacerdote di un’unica divinità) è da mettere in relazione col sanscrito brahman (sacerdote; cioè il brahmano dell’India attuale); ius, che poi avrà esclusivamente valore giuridico («diritto»), era inizialmente una formula religiosa di salvezza, da cui si sviluppa il senso più generale di “formula giuridica” (e di qui iudex < ius dicere, «esercitare il diritto con la parola, giudicare»); lex inizialmente era solamente la legge religiosa, in cui si stabilisce un patto tra due parti (il dio e l’uomo), da cui si svilupperà il valore di legge nel senso di rapporto tra due parti di uguale peso; ritus è il mos comprobatus nei sacrifici, cioè l’abitudine divenuta rigida (cfr. sanscr. rtam, «ordine secondo la religione»); i termini credere e fides ad un certo momento perdono il loro originale valore religioso, per poi riacquisirlo grazie al cristianesimo (come calchi dal greco πιστεύω [pistéuo], «credo» e πίσστις [pìstis], «fede»); fas, che più avanti si opporrà a ius («diritto profano»), è il «diritto sacro».

Abbiamo poi una serie di termini squisitamente arcaici, alcuni dei quali restano fissi solamente nelle formule sacro-rituali, mentre altri continuano la loro storia nella lingua latina adattandosi a contesti leggermente diversi dall’originale. Al primo gruppo appartengono parole come Triumpe, che si legge in un antichissimo carmen, quello Arvale (o fratrum Arvalium)[9], come esclamazione di gioia. Al secondo possiamo ascrivere forme come il tripudium (una saltatio, cioè un passo di danza) dei sacerdoti Salii[10] (presente nel carmen Saliare), a definire appunto una danza a ritmo ternario (< tres pedes), passato poi ad indicare (anche in italiano) una gioia incontenibile; praesul, colui che guidava la processione dei già citati Salii, poi passato nel lessico cristiano ad indicare il capo di una comunità (in genere il vescovo). Infine un termine del lessico paesaggistico vegetale: lucus, cioè il bosco sacro (di cui Servio Mario Onorato, nato al termine del IV secolo d.C., nel suo commento ad Aeneidem I, 314 dice da collegare «cum religione»), a cui si giustappongono nemus, che è il bosco di alberi disposti in ordine, e silva, cioè il bosco selvatico, disordinato, ma nessuno dei due con legami con la religione.

Tra gli aspetti stilistici tipici delle formule e del linguaggio religioso-sacrale possiamo accennare alla tendenza all’accumulazione sinonimica (cioè riferire molti aggettivi, pur senza grosse differenze di significato tra loro, allo stesso sostantivo), l’allitterazione, usata in genere per facilitare la memorizzazione, l’uso di asindeti, cioè la mancanza di congiunzioni ad unire le parti di una frase formulare, in genere bimembri (ad es. optimus maximus, felix faustus) o più raramente trimembri (do dico dedico), le figure etimologiche e, quindi, allitteranti o paronomastiche, come preces precari, vota vovere, voce vocare, sacrum sanctum, che è lo stato di sacralità (opposto a profanum) che porta, come conclusione della procedura rituale religiosa, alla sanctitas, che è la situazione che “rende” sacro qualcosa che prima era profano[11].

Infine rimarchiamo una forte aggettivazione celebrativa, l’uso di epiteti, in genere eziologici (dal greco αἰτία [aitía], «causa»), cioè legati all’antica origine del culto o della cerimonia o connessi con l’aspetto fenomenico-religioso della divinità; così per esempio a Iuppiter (< Dies Pater, «giorno luminoso padre»; in italiano Giove) si potevano aggiungere Elicius («che esce dalla folgore»), Pluvius («che fa piovere»), Lucetius («che porta la luce»), Dictaeus («allevato sul monte Ditte», nell’isola di Creta), Aegiochus («che combatte armato di egida», cioè il suo scudo), Fulgur («che è la folgore»), Tonans («che produce il tuono»). Di questa abitudine epitetica una testimonianza esemplare è la lingua poetica, in particolare Lucrezio (98/94-55/50 a.C.), Virgilio (70-19 a.C.), Orazio (65-8 a.C.), Tibullo (54-19 a.C.) ed Ovidio (43 a.C.-17/18 d.C.).

 

Diritto

 

Quella del diritto è, insieme con quella della religione, la più antica lingua “tecnica”, con differenze, rispetto a quella comune, non solo lessicali ma anche sintattiche e morfologiche, presentando inoltre arcaismi, poiché era lingua molto conservativa (così come quella religioso-sacrale)[12].

Essa è ovviamente caratterizzata da molti termini fortemente tecnico-settoriali, che presentano un significato assolutamente non ambiguo, e da una sintassi semplice e lineare, poiché la Legge deve essere chiara, perspicua e non ambigua, sempre e per tutti. In essa troviamo anche formule apparentemente sinonimiche (es.: habere, possidere, uti, frui sono tutti verbi che indicano possessio, seppur con sfumature differenti).

Al suo interno notiamo tuttavia una differenza tra stile «legislativo», di taglio precettivo-normativo e quindi più secco e razionalmente netto, e stile «giurisprudenziale», di forma invece pedagogico-esplicativa e quindi più discorsivo ed esemplificativo.

Come già per la religione, anche il diritto si presenta inizialmente come “oralità”, mentre la fase scritta è più tarda[13]. La sua iniziale oralità, oltre che da fonti di tipo storico, è testimoniata anche da vocaboli e formule che rimandano appunto alla consuetudine orale: innanzitutto il verbo dicere, da cui abbiamo iudex (< ius dicere), iurisdictio, condicio, edictum; poi confessio (< confiteor, «ammettere, dichiarare»), denuntiare e orare (che sono termini inizialmente di ambito religioso), nuncupare (< nomen capere); testis, e tutta la sua famiglia lessicale (testatio, testamentum, testor), dall’osco trstus, forma plurale che significa “terzi” in senso giuridico (cioè «parti terze», e quindi assolutamente imparziali, così come anche nel nostro lessico) e poi testimoni.

Poiché il diritto nasce dalla parola, ciò determina un’importanza assoluta dei vocaboli, portando tuttavia a soluzioni anche opposte. Talora si tende alla precisione enumerativa portata fino ad una pignola esaustività, per evitare che la mancanza anche di una sola parola possa inficiare la validità, per es., di una legge o di un contratto, o, al contrario, si giunge ad una generalizzazione onnicomprensiva, al fine di poter – in corso d’opera – inserire altre ipotesi giuridiche[14].

Un esempio clamoroso di pignoleria legislativo-giurisprudenziale è costituto dal caso della Lex Rubria de Gallia Cisalpina (ca. 49 a.C.), nella quale, dopo che si è fornito il testo utilizzando, per esemplificazione, come attore e convenuto i due nomi propri fittizi di L. Seio e Q. Licinio (ed il loro essere fittizi viene apertamente dichiarato), si precisa che questi due nomi devono essere cambiati sostituendoli con i nomi dei due veri attore e convenuto, salvo poi ricordare (e qui si sfiora il ridicolo…) che questi due nomi vanno mantenuti qualora eventualmente l’attore ed il convenuto si chiamino davvero così nel caso reale e concreto.

Altre caratteristiche del vocabolario giuridico, condivise peraltro con quello sacrale, sono il suo realismo e la sua visività. Alcuni esempi: mancipium (< manu capere; «prigioniero», cioè «preso con la mano»), actiones (< agere, «condurre, agire»); la quaestio lance licioque era la perquisizione fatta, letteralmente, «col piatto e la fascia», la quale cioè veniva compiuta dal derubato, in casa del presunto ladro, tenendo in mano un piatto (lanx) e senza vestiti, tranne una fascia a cingere i fianchi (licium), al fine di evitare che si sottraessero beni dalla casa o si fingesse di ritrovare un proprio oggetto artificialmente nascosto tra gli abiti; manumissio (< manu mittere, «mandare con la mano», cioè «liberare», perché un tempo gli schiavi venivano liberati con uno schiaffo simbolico da parte del padrone), stipulatio, da stipula, diminutivo di stipes (tronco)[15], cioè «stelo di cereale, paglia», dall’antico uso di spezzare una pagliuzza in segno di promessa al momento di concludere un contratto; emancipatio (< e manibus capere, cioè «prendere dalle mani» e quindi lasciar uscire). Precisa era anche la distinzione e la differenza tra i vari tipi di norme, quali leges, senatusconsulta, edicta[16]. Le leggi (< legere, cioè «scegliere, stabilire») erano emanate dallo Stato attraverso le sue varie articolazioni (Senato, magistrati, comizi della plebe); i senatoconsulti (< senatus consultum, cioè «decisione dal senato») erano appunto deliberazioni prese dal Senato in situazioni di emergenza, le più gravi delle quali richiedevano un senatusconsultum ultimum (cioè «estremo»), in pratica lo stato d’assedio; gli editti (< edicere, «dichiarare, annunziare») erano norme promulgate dai magistrati o, più tardi, dall’imperatore, equiparabili alle odierne ordinanze.

Le fonti della lingua giuridica, infine, non sono solamente i testi normativi o giurisprudenziali, come le raccolte di leggi o di editti imperiali o i loro commenti, né soltanto gli scritti di uomini di legge (per es.: le orazioni di Cicerone), ma anche testi di poeti che nelle loro opere hanno inserito momenti della vita quotidiana relativi a processi o ad atti legislativi. Citiamo a mo’ d’esempio il commediografo Plauto (255/250-184 a.C.), che si rifà al Senatusconsultum de Bacchanalibus del 186 a.C. (nelle Bacchides) o che rimanda implicitamente alla lex Oppia de sumptu (promulgata nel 215 ed abrogata nel 195, sulla limitazione del lusso e delle spese voluttuarie) nell’Aulularia; o ancora Orazio che, nei versi 74-78 della Satira 9 del libro I, descrive, brevemente ed ironicamente, la seduta di un processo in cui egli è testimone.

 

 

[1] Cfr. C. De Meo, Lingue tecniche del latino, Pàtron Editore, Bologna 20053.

[2] A questo proposito la mente corre subito ad associazioni e gruppi in qualche modo “segreti”, spesso ai margini se non al di fuori della legge (si pensi alle cosiddette lingue “furbesche”, come l’argot parigino o il lunfardo bonaerense o ancora la lingera milanese e torinese). In realtà tuttavia, oltre a questi esempi “estremi” di gergalità, linguaggi “esclusivi” erano anche quelli di svariate categorie di lavoratori, quali commessi di negozio (a Torino), selciatori (a Graglia, Biella), ombrellai (a Massino Visconti nella zona del Vergante, lago Maggiore), pastori (biellese e Valsesia) e via discorrendo, il cui scopo era principalmente quello di non permettere che si divulgassero “segreti” del mestiere, oltre alla necessità di escludere dalla comprensione non solamente i non addetti, ma soprattutto i datori di lavoro.

[3] A questo proposito bene ha scritto I. Mariotti (Storia e testi della letteratura latina, vol. I; Bologna 1976): «Il rito – con la sua apparente fissità – è una sfida al trascorrere del tempo, è una sfida alla morte».

[4] «Fremono amor di patria. Ah sì! da quella / Religïosa pace un Nume parla: / E nutrìa contro a’ Persi in Maratona / Ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi, / La virtù greca e l’ira. Il navigante / […]»

[5] «Ivi Cassandra, allor che il Nume in petto / Le fea parlar di Troja il dì mortale, / Venne; e all’ombre cantò carme amoroso, / E guidava i nepoti, e l’amoroso / Apprendeva lamento a’ giovinetti. / E dicea sospirando: Oh se mai d’Argo, / […]»

[6] Ricordiamo che a Roma il termine familia aveva un valore più ampio del nostro, comprendendo anche i servi che si trovavano in casa e su cui il pater poteva esercitare (come d’altronde anche sui familiari stretti) il potere di vita e di morte.

[7] Possiamo ricordare che il termine francese charme («fascino, malia, incantamento») deriva proprio dal latino carmen nel suo significato più proprio ed antico.

[8] Non dimentichiamo il fatto che nell’antichità romana (e specialmente nei secoli della prima repubblica: dal V al II a. C.) i vari materiali scrittori (papiro, pergamena, tavolette, marmo, bronzo…) erano molto rari, e quindi cari, oltre che spesso faticosi per chi dovesse inciderli: occorreva quindi una oculata selezione dei testi da trascrivere, onde non sprecare fatica e denaro.

[9] I fratres Arvales erano una confraternita religiosa, con particolare riguardo ai campi coltivati (arva), che gestiva delle feste campestri (le lustrationes, cioè le visite alle coltivazioni) molto simili alle rogazioni cristiane.

[10] Di essi ci parla Virgilio nel canto VIII dell’Eneide e ci restano anche alcuni frammenti del carmen Saliare. Il loro nome deriva dal verbo salire («saltare, danzare»), in quanto le loro processioni avvenivano a ritmo di danza.

[11] Dal verbo sanciscor (dalla radice indoeuropea *sak- «inviolabile, sacro»), che assumerà poi valore giuridico (it. sancire).

[12] Alcuni interpreti, tuttavia, distinguono tra «conservatorismo» della lingua giuridica e «immobilismo» di quella sacrale, in quanto la prima necessitava di essere compresa, mentre la seconda di tale necessità poteva anche fare a meno.

[13] Le prime leggi scritte romane furono quelle dette «delle XII Tavole», redatte nel 451/450 a.ϪC. ed esposte nel foro (incise appunto su 12 tavole, forse di bronzo) alla lettura pubblica.

[14] Mi si consenta – a questo punto – un esempio ricavato dall’esperienza personale. Agli inizi della mia carriera, un preside, vero rappresentante delle tradizioni giuridiche italiche, nella redazione dei verbali consigliava, a seconda delle circostanze e dei soggetti in causa, talora di elencare tutte le varie possibilità, ripetendo a volte fino allo sfinimento intellettuale e linguistico, fatti, nomi e circostanze, talaltra invece di lasciare la delibera la più generale possibile, così da poter giostrare al suo interno utilizzando le più svariate possibilità.

[15] Diverso è invece l’etimo di stipendium < stips, «piccola moneta».

[16] Qualcosa di questa precisione lessicale è rimasto – fortunatamente – anche nel diritto italiano, in cui la differenza, per es., tra «legge», «editto», «ordinanza», «circolare», «decreto» esiste ed è sostanziale proprio in quanto lessicalmente formale.

 

 

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