Le corporazioni d’arti e mestieri tra formazione professionale e morale: i «bottonai» torinesi

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I bottoni iniziarono a diffondersi nel XIII secolo. Produttori e commercianti diedero presto vita alle prime corporazioni dei bottonai, attestate in Francia già durante il regno di San Luigi (1226 – 1270). L’arte bottoniera ebbe, tuttavia, la propria maggiore affermazione in Inghilterra, della quale la Francia stessa fu, in questo campo, a lungo tributaria. Anche in Piemonte si ha notizia di antiche corporazioni che annoveravano tra i loro membri i «botonè».

A Torino l’Università (vale a dire la corporazione di mestiere) locale dei bottonai – posta sotto la protezione di San Massimo – fu eretta solo nel 1737, in apparenza riservata soltanto ai «mastri fabbricatori di bottoni d’oro, d’argento e seta», anche se è probabile che questi non disdegnassero di realizzare pure bottoni di materiale più economico, di derivazione vegetale, animale o minerale, utilizzati sia come “anima” dei metalli nobili sia da soli. Chiunque volesse divenire «mastro approvato» e aprire una propria bottega in città, doveva fare tre anni di apprendistato presso un «mastro», quattro di «compagnonaggio» e, per entrare a far parte dell’Università, sottoporre all’esame dei suoi sindaci un «capo d’opera» che ne dimostrasse la perizia (quest’ultimo requisito fu abolito nel 1838, perché giudicato d’ostacolo alla libera concorrenza, un principio che venne affermandosi specialmente a partire da quegli anni). Al momento della fondazione, la corporazione dei bottonai propose, col consueto «memoriale a capi», norme tendenti a creare un rigido monopolio, alcune subito limitate dal Sovrano, altre mitigate successivamente, con singole deroghe. La denominazione di «memoriale a capi» traeva origine, non è fuori luogo ricordarlo, dalla lista di proposte e richieste che ciascuna corporazione o altri soggetti rivolgevano al sovrano, lista che ritornava ai richiedenti con indicazione, punto per punto, delle determinazioni regie, che potevano accogliere, modificare o respingere ciascuna sollecitazione.

Nel ‘700 lo Stato sabaudo consumava assai più bottoni di quanti ne producesse. Le importazioni, dall’Inghilterra e dalla Francia, costituenti una voce di spesa rilevante e onerosa per la bilancia commerciale, spinsero il Governo a interventi protezionistici e a promuovere nuovi insediamenti produttivi, chiamando a Torino esperti imprenditori e favorendo la loro attività.

Attorno al 1770 furono concessi privilegi a Lorenzo Chabaut, di Lione (città che, insieme con Parigi, Chantilly e Meru costituiva uno dei principali centri della produzione bottoniera francese) per impiantare una fabbrica di «bottoni ed altre chincaglie all’inglese» a Caselle e per fare una società con alcuni negozianti torinesi per il commercio dei suoi prodotti. Nel 1782 alla fabbrica, tanto bene avviata da poter dare «beneficio non solo ai soci ma allo Stato stesso», furono fatte nuove agevolazioni: esenzione da tutti i dazi per le materie prime provenienti dall’estero, nonché concessione di usare lo «strettoio» per ridurre in lastre i metalli e di servirsi del «montone» (maglio) per stampare i bottoni, purché solo di giorno e con ogni cautela, onde evitare qualunque pericolo per i lavoranti. Tra i privilegi concessi ad altri imprenditori vi fu anche la garanzia di forniture di lungo termine all’esercito, che dei bottoni era un grande consumatore. L’insieme dei provvedimenti ebbe discreti effetti, seppur in un settore a prima vista molto marginale, sulla bilancia dei pagamenti del Regno.

Anche numerose donne furono impegnate, da “imprenditrici”, nell’arte bottoniera e la loro affermazione non mancò di suscitare tra i “mastri” qualche blando malumore. Nel 1740 Carlo Emanuele III respinse la pretesa sottopostagli affinché le donne che esercitavano l’arte fossero assoggettate a limitazioni che tendevano a favorire i soli uomini. Il Re stabilì, in primo luogo, che fosse consentito di continuare nella loro attività di produzione di bottoni a tutte le donne che la svolgevano anteriormente alla nascita dell’Università dei bottonai. Inoltre, concesse alle bottonaie che non avessero presentato entro i termini prescritti dalle norme fondative della corporazione, la facoltà di presentare comunque il proprio «capo d’opera». I tentativi per frenare la concorrenza femminile continuarono negli anni seguenti: nel 1766, ad esempio, i mastri pretendevano che le donne non potessero tenere nelle loro botteghe apprendisti o apprendiste: il sovrano, invece, lo concesse, seppur limitatamente a queste ultime e ai figli maschi delle bottonaie.

Gli obblighi dei datori di lavoro nei confronti dei propri dipendenti e apprendisti erano, in sostanza, quelli del “buon padre di famiglia”. Il capo mastro doveva, annota Angelo Melano di Portula nel suo Dizionario di diritto e di economia industriale e commerciale pubblicato nel 1843 a Torino presso Giuseppe Pomba, «[…] non solo ammaestrare l’apprendizzo nell’arte, ma eziandio ne’ buoni costumi e nell’esercizio delle pratiche di religione».

Anche nel Regno di Sardegna le corporazioni avevano l’obbligo di soccorrere i compagni indigenti o malati, come pure di dare «tutori o curatori ai figli dei loro membri rimasti orfani in pupillare età e di provvedere alla loro educazione». Anticipavano, in sostanza, pur su differenti basi e con diversi principi, gli scopi e il raggio d’azione delle Società di mutuo soccorso che si diffusero specialmente a partire dalla metà dell’Ottocento, senza rappresentare, nei fatti, un peculiare “progresso sociale”, come qualcuno pretese.

 

 

I bottoni, applicati in abbondanza su giacca e gilet maschili, nel XVIII secolo erano gli accessori che maggiormente attiravano l’attenzione: potevano essere rivestititi in stoffa e dipinti, in madreperla e osso, in fine porcellana, addirittura ornati di diamanti e pietre preziose, costituendo dei veri e propri gioielli dal ricercato design. Questi elementi erano così presi in considerazione che gli aristocratici, durante le loro amichevoli conversazioni, usavano toccarli per osservarli meglio; tale uso produceva sovente l’ “incidente”, ovvero i bottoni, la cui cucitura era magari allentata, rimanevano fra le mani dell’interlocutore. Fu così che da questi fatti si prese ad utilizzare, nel gergo linguistico, l’espressione «attaccare bottone» quando la conversazione si dilunga e che ancora oggi usiamo.

 

 

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