L’affresco del Giudizio universale di Pietro Cavallini nella Basilica di Santa Cecilia in Trastevere

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Le vicende storiche legate all’affresco del Giudizio Universale di Pietro Cavallini sono paradigmatiche di come la sensibilità legata alla conservazione delle opere d’arte sia mutata negli anni.

Questo splendido affresco della fine del XIII secolo era stato dipinto sulla parete di controfacciata, all’ingresso della Basilica di Santa Cecilia in Trastevere, ma nel XVI secolo, dopo il Concilio di Trento, a motivo delle restrizioni della clausura, venne costruito il coro delle monache che lo ha mutilato e danneggiato irrimediabilmente, oltre ad averlo celato dietro una volta lignea fino alla metà del XX secolo, quando, in occasione della costruzione di un nuovo coro, venne riscoperto, e in seguito, negli anni 80 del XX secolo, restaurato.

Per poterlo vedere oggi si deve accedere, in orari stabiliti, al coro del convento delle suore, attiguo alla chiesa.

Al cospetto di questo capolavoro, che possiamo ammirare all’interno di uno spazio piuttosto ridotto, a meno di un metro di distanza, rimaniamo interdetti al pensiero che sia stato possibile occultare e rovinare un’opera che non solo è di una Bellezza assoluta e senza tempo, ma che segna con straordinaria evidenza un momento fondamentale per l’arte italiana: quello del passaggio dagli stilemi dell’arte bizantina alla nascita di un linguaggio artistico tutto nuovo, che getterà le basi dell’arte occidentale.

Alla fine del 1200 Pietro Cavallini era un pittore conosciuto e apprezzatissimo, autore di opere d’arte incommensurabili, ma nei secoli a venire la sua opera è caduta nell’oblio ed egli da caposcuola è, nel nostri giorni, quasi sconosciuto ai più.

Eppure pochi artisti hanno la sua eleganza, apprezzabile appieno in questa opera.

Ci sono purtroppo piccole e grandi lacune, il registro inferiore è tronco e quello superiore addirittura mancante, si intravedono solo le tracce delle sinopie, ma, nonostante questo, l’affresco ci trasporta nel mondo raffinatissimo del Maestro: le grandi ali degli angeli ci avvolgono di grazia e la tridimensionalità ed espressività dei corpi, così lontani dallo stile ieratico bizantino, ci conducono verso un linguaggio a noi più consono, più familiare.  C’è il rammarico per la meraviglia che abbiamo perso, ma la parte che ci è giunta è fortunatamente quella centrale e più significativa: Gesù Pantocratore seduto su un trono gemmato circondato dalle schiere angeliche, ai lati Maria e San Giovanni Battista, e (sei a destra e sei a sinistra) i dodici apostoli.

Si osserva questo capolavoro in un contesto diverso da quello per cui è stato pensato, e  ci si sente quasi irrispettosi nel poterlo vedere tanto da vicino da cogliere e svelare i tratti di pennello e gli espedienti della pittura monumentale  che Cavallini aveva pensato per essere vista da lontano: per esempio, il contorno marcato degli occhi per accentuare l’espressività del volto, o le piume di diversi colori in gradazione che a distanza sarebbero state in  sfumatura, o i punti bianchi degli abiti degli angeli che dovevano essere letti come perle preziose.

Ci troviamo sull’impalcatura insieme al maestro, che privilegio! Ma non scenderemo mai per vedere da dentro la chiesa l’effetto finale, e non lo sentiremo mai parte della liturgia.

A questa opera manca il suo contesto e alla Chiesa manca l’atmosfera e il messaggio che gli avrebbe donato.

 

 

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