Lasciando da parte molto di ciò che si è detto e scritto sul p. Ignazio Isler, spesso a sproposito e senza appoggiarsi alla dovuta documentazione[1], ci limiteremo in questa sede a riassumere quanto di lui sappiamo con certezza, ricavandolo principalmente da ciò che ci viene detto dalle notizie premesse ad alcuni manoscritti ed edizioni, rimandando comunque, per l’analisi dei particolari biografici, a due ottimi lavori che proprio di questo argomento si occupano specificamente[2].
Federico Patetta, Cairo Montenotte (Savona) 16/02/1867 – Alessandria 28/10/1945
Le notizie biografiche più vicine al nostro poeta ci vengono dunque da una breve nota sull’Autore, compresa nella premessa Al Lettore, presente (identica) nei manoscritti Patetta 496 e 497[3] (pp. I-VII; la biografia è a pp. I-III), e dalla Breve notizia del p. Ignazio Isler premessa alle edizioni, a partire da quella del 1799[4]. L’estensore della biografia Patetta doveva essere un conoscente del poeta, come leggiamo a p. III[5].
Dalla notizia di cui s’è detto poc’anzi sappiamo che il poeta nacque a Torino (non se ne dice la data, ma ora sappiamo che è il 1699, e precisamente il 3 di settembre[6]), da parenti svizzeri: il padre Baldassarre Hisler (o Hysler, o forse anche Hüsler), guardia svizzera del Duca., e la madre Maria Barbara[7]. Visse come religioso nell’ordine dei Trinitari Calzati della Redenzione degli Schiavi[8] nel convento torinese di Santa Maria delle Grazie della Crocetta, località allora alla porte di Torino e non ancora all’interno della città[9], dove si adoperò con zelo ed “applauso” nelle «cose concernenti la gloria di Dio» (p. II), fu cioè un ottimo religioso, divenendo poi, all’interno del suo ordine, Procuratore, Ministro del Convento, Provinciale[10], Primo Definitore e Visitatore. Tornato al Convento della Crocetta dopo un viaggio, intrapreso all’età di 78 anni alla volta di Roma, Napoli e Sicilia, ivi si ammalò e morì il 7 agosto del 1778.
La biografia premessa all’edizione 1799, anonima, conferma nella sostanza la biografia Patetta. Si dichiara che sbagliano coloro che credono svizzero l’Isler: svizzero era, come d’altra parte abbiamo già visto, il padre, ma il poeta nacque a Torino, dove studiò le lettere e la musica. Si aggiunge poi che fu ammesso tra i Chierici della Santissima Sindone[11]; fu coadiutore dei curati della Crocetta Pietro Fr. Vachino e Francesco M. Verra; si aggiunge inoltre che suonava il cembalo e l’organo e che fosse malato di podagra, malattia per la quale morì, in età detta genericamente “settuagenaria”; fisicamente viene descritto come «piccolo di statura e paffuto» (p. VI)[12], e infine si accenna al fatto che fosse stato sepolto «nel tumulo dietro l’Altar maggiore» (ibidem).
Per quanto riguarda le sue opere, il padre Ignazio Isler non ha pubblicato nulla mentre era ancora in vita, accontentandosi del fatto che le sue canzoni circolassero, evidentemente manoscritte, tra i suoi parrocchiani della Crocetta, affinché esse potessero costituire un corpus di testi utili per il canto in compagnia da parte di questi stessi parrocchiani, così come sembra ricavarsi da un passo della Canzone 36[13]. Il biografo del ms. Patetta ci dice che egli, portato naturalmente alla musica ed alla poesia, interpretava in prima persona le sue canzoni durante la villeggiatura[14]. Inoltre, a conferma di quanto detto poc’anzi, lo stesso biografo ci dice che il suo scopo principale era appunto quello di creare una sorta di patrimonio di canzoni che sostituissero quelle, per lui troppo volgari, in uso ai suoi tempi tra il popolo[15].
Pertanto le sue poesie vennero pubblicate solamente dopo la sua morte, e precisamente nel 1783 (in numero però di sole 26 e con testi spesso rimaneggiati ed espurgati ad usum Delphini, anzi Delphinae), nell’antologia di poeti piemontesi che, predisposta dal medico di corte Maurizio Pipino, insieme con la Grammatica ed il Vocabolario, doveva costituire un dono di nozze per la principessa Maria Adelaide Clotilde di Francia, sposa dal 1775 del principe di Piemonte Carlo Emanuele di Savoia, poi re col nome di Carlo Emanuele IV[16]. Successivamente, la prima edizione completa (editio princeps) dei testi isleriani è del 1799, presso l’editore torinese Denasio, cui poi seguiranno altre 9 fino al 1968[17].
Il totale delle poesie isleriane assomma a 53 canzoni (o tòni)[18], ma ad esse alcuni mss. aggiungono ancora un testo intitolato Sesso feminino-Canzone detta volgarmente Tòni[19], mentre le edizioni includono tre componimenti sicuramente spuri, cioè il Frammento inedito sui pregi del Piemonte, la canzone intitolata Relazione dell’assedio della città di Alessandria e la Canzonetta sullo stesso argomento[20].
Le poesie dell’Isler, almeno quelle datate, vanno dal 1730 al 1766, ma c’è da aggiungere che alcuni componimenti non sono datati neppure in quei manoscritti che pure riportano la data di composizione degli altri testi. Alcuni manoscritti riportano anche le musiche delle canzoni, musiche che, come abbiamo visto poco sopra, furono composte dall’Isler stesso.
Se escludiamo veramente pochissimi componimenti isleriani poco riusciti sia sotto l’aspetto estetico che per il valore di documento storico-sociale, possiamo affermare che la stragrande maggioranza dei testi dell’Isler, oltre a costituire una testimonianza preziosissima di come parlassero a Torino il popolo e la piccola borghesia nella prima metà del secolo XVIII, sono anche un eccezionale documento dello stile di vita, delle abitudini, delle tradizioni, dei valori di quella stessa gente torinese che doveva rappresentare anche i parrocchiani del nostro Autore[21].
Ciò detto, va da sé che possiamo analizzare pressoché qualunque canzone isleriana per ricavarne insegnamenti sia linguistici che di cultura “popolare” lato sensu. Abbiamo scelto, per questo primo intervento, una canzone del 1742 (Testamento di Gelofrada), in cui, seguendo uno schema abbastanza comune nella canzone popolare[22], cioè l’elenco delle ultime volontà di una persona (in questo caso una madre di famiglia), si approfitta per satireggiare su alcune caratteristiche umane (la stupidità, la tirchieria, l’avidità ecc). Per noi questo testo costituisce anche un bel repertorio di oggetti e strumenti che ormai sono usciti dall’uso (sia concreto che linguistico), tali da permetterci però di ricostruire, almeno in parte, anche il “piccolo mondo” della casa e della famiglia del tempo[23].
Canzone 14
Testamento di Gelofrada[24]
Che bela trastulada,
Sentila atentament;
Lucressia Gelofrada[25]
L’ha fàit sò testament;
Durvì pur bin j’orije,
Scoté ste drolarìe[26],
Son còse tant da rije
8 Da feve tombé[27] ij dent.
A l’ha lassà tre fije
Con un codògn[28] d’un fieul:
Lor àitre a son mufìe,
E chial[29] é un bel faseul.
Un-a l’ha nòm Ciaflassa,
E l’àutra Patoflassa,
La tersa Gianaflassa[30],
16 E ’l fieul ha nòm Griseul[31].
A-j ha dispòst a pr’un-a
La dòta fosonant,
Për tant ch’a treuvo dun-a
Quàich bon partì friant.
J’ha pa lassà ’d paròle,
J’ha pa lassaje ’d fròle;
A son tre parpajòle[32]
24 Tut an quatrin contant.
J’ha faje buté an lista
Un bel e bon fardel[33];
Una camisa ’d rista,
E n’àutra ansem ’d barbel[34],
Una scufiassa olian-a[35],
Un fassolat ’d lan-a
Con un faudal[36] ’d frustan-a,
32 Ch’é bon a fé un crivel.
Në strass d’una brassiera[37],
Ch’a l’é tra grisa e bleu,
Un bel cotin ’d bandera[38],
Ch’or or va tut an breu,
Con doi caussät[39] ’d flanela
Grossé com ’d rasparela[40],
Un dël color ’d canela,
40 E l’àutr color dël feu.
Dontrè fassin-e ’d rame
Con mesa min-a[41] ’d sèil,
E tre manisse[42] grame,
Ch’a perdo tut ’l pèil,
Con tre plissasse armise[43],
Ch’a son giumai an frise,
Për mincioné le bise[44],
48 Ch’a ven-o al temp dël gèil.
’D mobilia a-j ha lassaje
N’archëtta[45] dësfondà,
Da buté le ghingaje[46]
Dla gran eredità,
Una pajassa mòla,
Com una ciapa ’d sòla,
Con doi linseuj ’d rairòla[47],
56 E un trogio[48] s-cianchërlà.
A l’han avù fortun-a[49]
(Sentì lò ch’ven apress)
D’un urinari pr’un-a
Forà ant ’l bel e mes,
Un ciap d’una sebrëtta[50],
Un quart d’una palëtta[51],
Në scagn e na banchëtta[52],
64 Ch’a stanto a tnisse an res.
Una crëdensa marsa,
Ficà là ant un canton,
Ch’a fà na tal comparsa,
Ch’a par un such d’arbron[53],
Una cavagna rota,
Un doj[54] con una bota,
Ch’a cola tut për sota,
72 Quambin a-i sia un tacon.
Un piat e na scudela,
Un tond dësvernisà,
L’é tuta la vassela[55],
Ch’la mare a-j ha lassà[56]:
Un tòch d’una stagera[57],
Cassul e cassulera[58],
E mesa formagera,
80 Ma tuta camolà[59].
Un’ola[60] già scrussìa
Ansem a un tupinat,
Ch’a l’é sensa manìa
Con dontrè[61] përtusät,
Un ass da capulòira[62],
Ch’a stà ant na ratòira[63],
Un ters d’una scumòira
88 Bon-a a scumé ij sampät[64].
An quant a la framenta
A-i é un bon ciapulor,
Ch’antorn a la polenta
A taja ch’a fà por;
Dontrè cujé e forcclin-e[65],
Tute posade fin-e
Dël bòsch ch’a fan le tin-e,
96 Con doi cotej saror[66].
Una baral[67] mufìa
Stromà daré dël forn,
Un sëbber e na sija[68]
Sercià con ’d còrde antorn,
Un morté ’d bòsch ch’a dagna,
Për pòch ch’a-i buto ’d bagna,
Con sò piston ’d castagna,
104 Ch’a l’ha mai vist ’l torn.
Un lum da ver brustiàire[69]
Ansem al sò vilan,
E tre galin-e màire,
Ch’ògni ses mèis a fan,
Una carea[70] cagòira,
Ch’a-j serv d’erca ampastòira[71],
Con una davanòira[72],
112 Ch’a l’é sent agn ch’a ’l l’han.
Ampò d’una fusera[73],
E na trien-a ’d fus,
Në strass d’una portera[74],
Ch’a-i é sincsent përtus,
Un tòch d’una gratusa
Forà tuta a l’arbusa[75],
Na pèila, bin ch’a-j scusa,
120 L’é un gust com a tralus.
Ma ’l fieul l’ha comodalo,
Ch’a peul pa nen sté mal.
’S antend ch’a l’ha lassalo
Erede universal,
Dasandje[76] na cabassa
Për fé figura an piassa,
Përchè a l’ha na schinassa
128 Da bon fachin ’d Varal[77].
A col ch’ha pijà la briga
D’arsèive ’l testament,
S’a l’ha bin fàit fatiga,
L’é pa stà mal content.
L’ha avù pr’autentichelo,
E për ansinuelo,
E peui për arcopielo
136 Un sòld d’emolument.
Volì-ve[78] ampò ch’iv dija,
Chi <l’>era col nodar?
A l’é Bastian Granghìa[79],
Col-là ch’a fà ij filar.
E ij testimòni l’ero
Fabian, Gervas e Pero,
Simon e Tòni ’l gnero[80],
144 Tibursi con Genar.
E chi vorrà nen crëdde
Ch’a sia ansinuà,
Ch’a vada pur a vëdde
Ant la comodità:
Ch’a deurva col armari,
Ch’a lesa coj scartari
Ch’a servo al tafanari[81];
152 L’é tut lì registrà.
Për coj ch’a sento lese
Costa disposission,
As é lassasse arese
’D lasseje soa porsion.
L’é stàita generosa,
L’ha fàita da grandiosa,
D’una cavija[82] rognosa,
160 Ch’a-j serva për stopon.
Che bella beffa! sentitela attentamente; Lucrezia Gelofrada ha fatto testamento. Aprite bene le orecchie, ascoltate queste storielle, sono cose così ridicole da farvi cadere i denti.// Ha lasciato tre figlie con un figlio scimunito: loro sono ammuffite e lui è un bel babbeo. Una si chiama Ciaflassa, l’altra Patoflassa, la terza Gianaflassa e il fratello si chiama Griseul.// Ha disposto per ciascuna la dote abbondante perché trovino subito qualche buon partito appetitoso. Non gli ha lasciato parole, non gli ha lasciato fragole; sono tre parpagliole, tutte in denaro contante.// Ha fatto mettere in elenco un corredo bello e buono; una camicia di canapa e un’altra mista di stoppa, una cuffiaccia già logora per i troppi lavaggi, un fazzoletto di lana con un grembiule di fustagno che può andar bene per fare un setaccio.// Uno straccio di corsetto da notte, che è tra grigio e blu, una bella gonna di bambagino che or ora va tutta a pezzi; con due calze di flanella ruvide come erba rasparella, una color cannella e l’altra color fuoco.// Alcune fascine di rami secchi con mezza emina[83] di segale, e tre manicotti di nessun valore che perdono tutto il pelo, con tre vecchie pellicce usate, che sono ormai a pezzi, per prendere in giro i venti che arrivano al tempo del gelo.// Di mobili gli ha lasciato una madietta sfondata, dove mettere le cianfrusaglie della grande eredità, un pagliericcio molle come un rattoppo di suola, con due lenzuola di tela rada e una coperta da letto tutta lacerata.// Hanno avuto la fortuna (sentite quello che segue) di un pitale per una, bucato nel bel mezzo; un coccio d’un mastellino, un quarto d’una paletta, uno sgabello e una panchetta che faticano a stare in piedi.// Una credenza marcia, buttata là in un angolo, che fa una figura tale da sembrare un ceppo di pioppo; una cesta rotta, un orciolo con una bottiglia che cola di sotto, per quanto ci sia un rappezzo.// Un piatto e una scodella, un tondo scrostato, è tutto il vasellame che la madre gli ha lasciato: un pezzo di uno scaffale, mestolo e schiumarola e mezza formaggera, ma tutta tarlata.// Un orcio già crepato insieme a una pignattina senza manico, con qualche bucherello, un asse da tagliere che sta in una trappola per topi, un terzo di uno schiumatoio buono giusto per schiumare le interiora.// In quanto alla ferraglia, c’è una buona mezzaluna che attorno alla polenta taglia da far paura; alcuni cucchiai e forchette, tutte posate fini, del legno con cui si fanno i tini, con due coltelli a serramanico.// Un barile ammuffito nascosto dietro il forno, una bigoncia e una secchia legata intorno con delle corde; un mortaio di legno che gocciola per poco liquido che ci si metta, col suo pestello di castagno che non ha mai visto il tornio.// Un lume da vero cardatore insieme col suo lucerniere e tre galline magre che fanno l’uovo ogni sei mesi, una sedia cagatoria che gli serve da madia per impastare, con un arcolaio che è ormai da cento anni che ce l’hanno.// Un pezzo di una fusiera e circa tre fusi, uno straccio di una cortina che ha cinquecento buchi, un pezzo di una grattugia tutta bucata a casaccio, una padella che, per quanto serva, è una bellezza come lascia passare la luce.// Ma il figlio l’ha sistemato in modo che non può stare male. Si capisce che l’ha lasciato erede universale, dandogli una gerla per far bella figura in piazza, perché ha una schienaccia da buon facchino di Varallo.// Quello che si è presa la briga di ricevere il testamento, se ha fatto certo fatica, non è stato però malcontento. Ha avuto, per autenticarlo e per registrarlo e poi per ricopiarlo, un soldo di emolumento.// Volete un po’ che vi dica chi era quel notaio? È Bastiano Granghia, quello che fa le reti da caccia. E i testimoni erano Fabiano, Gervasio e Pietro, Simone e Toni il piccolo, Tiburzio con Gennaro.// E chi non vorrà credere che sia stato registrato, vada pure a vedere nel cesso. Apra quell’armadio, legga quei fascicoli che servono al didietro; è tutto registrato lì.// Per quelli poi che sentono leggere questa disposizione si è arresa a lasciargli la loro porzione. È stata generosa, ha agito da grandiosa: un piuolo bitorzoluto che serva loro da tappo.
(1 – continua)
[1] Un esempio evidente di come il nostro Autore, e la sua opera, siano stati “maltrattati” dagli editori moderni ce lo dà l’edizione delle sue poesie (Tutte le canzoni e le poesie piemontesi; Torino 1968) curata da Luigi Olivero (1909-1996).
[2] Mi riferisco al lavoro di Giuseppe Rizzo, Il Canzoniere popolare di Padre Ignazio Isler (Tesi di Laurea dattiloscritta; Università di Torino, a. a. 1999-2000) ed all’articolo di Carlo A. M. Burdet, «Padre Ignazio Isler (1699-1778), schwytzerdütsch subalpino», in «Studi Piemontesi», giugno 2012, vol. XLI, fasc. 1, pp. 153-162.
[3] Conservati entrambi presso la biblioteca Apostolica Vaticana di Roma, nel fondo mss. Patetta. Federico Patetta (Cairo Montenotte, Savona 1867-Alessandria, 1945) fu studioso del diritto italiano e ricercatore di antichi documenti. Docente presso varie Università, tra cui Torino e Roma, donò i mss. da lui raccolti alla Biblioteca Apostolica Vaticana.
[4] La breve biografia è ripetuta, identica, in tutte le edizioni successive, tranne che in quella del 1807.
[5] «[…] egli stesso più volte candidamente mel dichiarò (il corsivo è mio) […]»; cfr. premessa Al Lettore, cit.
[6] Cfr. C. A. M. Burdet, art. cit., (passim), in cui si esclude la vecchia datazione, cioè 1702, proposta da Viglongo ed Olivero e poi passivamente da tutti accettata (cfr. A. Viglongo, «P. Ignazio Isler è nato nel 1702», in «’l caval d’ brons»; anno 45, nr. 6, giugno 1967, p. 1).
[7] Per maggiori particolari sulla famiglia, cfr. ancora Burdet, art. cit., (passim), in cui si comunica anche la notizia che il nostro poeta fu cappellano della Guardia Svizzera di S. M. nel 1735.
[8] L’ordine dei Trinitari (suddiviso poi in Calzati e Scalzi), fondato in Francia alla fine del sec. XII, si occupava in modo particolare del riscatto dei cristiani prigionieri degli infedeli, e specialmente dei pirati barbareschi; era presente a Torino (nel convento della Crocetta) fin dal 1621.
[9] Infatti, come dice la biografia dell’edizione 1799, esso si trovava «presso Torino» (p. V).
[10] Da un documento autografo (e precisamente una lettera inviata al cavalier Morozzo) conservato presso la Biblioteca Reale di Torino, datato «dal sud.° Convento della Crocetta li 21. xmbre 1772», sappiamo che in quell’anno egli era Provinciale d’Italia. Inoltre da un’altra lettera autografa anteriore, conservata presso l’Accademia delle Scienze di Torino ed indirizzata allo speziale torinese Tommaso Giuseppe Masino, sappiamo che nel 1770 egli era Ministro Provinciale del suo Ordine e Superiore del Convento della Crocetta. Il fatto poi che le canzoni datate vadano dal 1730 al 1766 (ve ne sono poi quattro non datate) ci induce a pensare che, subito o poco dopo questa data, l’Isler, avendo assunto incarichi vieppiù gravosi, abbia dovuto interrompere la composizione delle sue opere.
[11] Cfr., a questo proposito, l’accenno alla Confraternita del Santo Sudario in Canzone 39, v. 40.
[12] Un ritratto, di fantasia ovviamente, del padre Isler ce lo dà Luigi Pietracqua (Voghera, 1832-Torino, 1901) nel suo romanzo storico piemontese Lucio dla Venerìa (Torino 1877; rist. 1979), di cui il nostro poeta è un personaggio.
[13] E precisamente i vv. 43sgg., e come si ricava, altresì, da un passo delle notizie premesse ai mss. Pat. 496 e 497.
[14] Cfr. biografia, cit., p. II: «portato dal natural suo genio al suono, al canto, et alla Poesia impiegava in tempo singolarmente di sua villeggiatura l’acre, vivace e lepido suo ingegno nel comporre e mettere in Musica le sue canzoni, quindi poi dava a cortesi suoi albergatori lieto e grazioso trattenimento cantandole con tal leggiadria e grata voce et alcune accompagnandole con l’azione adattata all’argomento […] E che bastava ei solo a tener attenta e gioviale una radunanza ancorché numerosa di più e più persone».
[15] Cfr. biografia, cit., pp. IIsg.: «Ma il principal oggetto e degno di Persona Religiosa, ch’egli ebbe in mira, si fu di far cader in abbandono le sciocche, poco dicevoli e men oneste canzoni, che udiva cantarsi dal Volgo, e dalla gente specialmente di campagna altre esso surrogandone, le quali 1° si confacessero al lor genio, onde venissero con piacere accolte: 2° che innocenti fossero; onde venissero senza spiritual discapito cantate: 3° che inoltre moral istruzione contenessero, onde venissero a risultar loro di profitto. Che tale sia stato il precipuo suo fine, egli stesso più volte candidamente mel dichiarò e voi medesimo [si sta rivolgendo al lettore] lo scorgerete di mano in mano, che le andrete leggendo, soltanto che una qualche riflessione facciate sulla qualità degli argomenti, sulla maniera di trattarli, e sulla saviezza delle massime».
[16] Gramatica piemontese del medico M. P., Vocabolario piemontese del medico M. P., Poesie piemontesi raccolte dal medico M. P.; Torino (Nella Reale Stamparia), 1783.
[17] Dopo queste 10 edizioni “storiche”, quella attualmente di riferimento è I. Isler, Canzoni piemontesi, introduzione, testo critico, note e traduzione italiana a cura di D. Pasero; Ivrea 2013.
[18] Col termine tòni (o canson), di origine incerta, si definì (e si definisce tuttora) una composizione satirica e burlesca (spesso anonima e distribuita manoscritta o stampata in fogli volanti) su argomenti morali, civili, sociali o di costume; il suo schema metrico era normalmente la quartina (inizialmente l’ottava) con rima, in genere, alternata o baciata. I primi esempi sono alcuni componimenti torinesi (già noti al Biondelli, ma poi andati perduti) riscoperti da Clivio presso la biblioteca reale di Torino e databili al secolo XVII. Per il Cibrario (Saggio sul dialetto piemontese, in «Antologia di Scienze Arti e Lettere», Firenze, XXXVIII-1830, p. 74) esso è una canzone di carattere popolare e di tono satirico ed il nome deriverebbe da quello del personaggio di Tòni; mentre per l’Armando è un componimento “satirico, burlesco, o caricaturale” (Alcuni “Toni” inediti; Torino 1914). L’uso anche della definizione canson fa pensare ad un accompagnamento musicale, come ci confermerebbe anche la biografia anonima dell’Isler, mentre l’incertezza sull’origine del suo nome è comunque “bilanciata” dal fatto che in piemontese il termine Tòni (con l’iniziale maiuscola, diminutivo del nome Antonio) metaforicamente significava, e significa, “pagliaccio, persona che fa ridere gli altri con le sue idiozie” (Fé ’l Tòni = Fare lo stupido). Il Biondelli (Saggio sui dialetti gallo-italici, Milano 1853) lo avvicina alla bosinà, tipica del Piemonte orientale e di alcune parti della Lombardia e cita un personaggio (appunto di nome Tòni) della commedia secentesca La Margarita del saviglianese Marcantonio Gorena come archetipo della figura del tòni.
[19] Sulla probabile non autenticità di questi quattro testi e sulle possibili argomentazioni in tal senso cfr. l’introduzione alla mia edizione critica del corpus isleriano (cfr. supra).
[20] È evidente che, non esistendo, almeno fino al secolo XIX, né il concetto giuridico di “diritto d’autore” né, di conseguenza, alcuna sua tutela effettiva e concreta, l’azione dei plagiari, specie nei confronti di autori famosi, era libera e senza freni: chiunque poteva comporre un’opera e spacciarla per composta da un grande scrittore. Si pensi, per esempio, nell’antica Roma, al caso di Plauto e delle sue commedie, per le quali l’erudito M. Terenzio Varrone, a circa cent’anni dalla morte del commediografo, dovette compiere opera di cernita e “salvarne”, come sicuramente autentiche, soltanto una ventina su di un corpus di più di 100 testi. A ciò si aggiunga che, in casi come quello dell’Isler, la “vox populi” era veramente “vox Dei”: bastava che si spargesse la notizia che un certo testo fosse opera di un determinato autore e, pressoché automaticamente, essa era data per vera e certa. Non deve quindi stupire che alcuni mss. (ed anche le prime edizioni) isleriani riportino testi spuri, ma assegnati spesso acriticamente al Nostro. Aggiungiamo anche che le ultime tre edizioni dell’Ottocento (1871, 1890, 1894) riportano in appendice, senza aggiungere alcuna notizia su di esse e quindi intendendole come “isleriane” in modo implicito, alcune favole morali che sono opera di un certo Carlo Povigna, di Cherasco, attivo circa un secolo dopo l’Isler, il cui testo – oltretutto – è così chiaramente “risorgimentale” da non poter trarre in inganno nemmeno il lettore poco avveduto.
[21] Volendolo, si potrebbe brevemente proporre un confronto, possibile, tra l’Isler e un altro grandissimo nome della poesia dialettale in Italia, ossia il romanesco Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863). In un corpus decisamente più ampio (2279 sonetti) il Belli, come lui stesso dichiara nella sua introduzione, intende lasciarci una testimonianza (“monumento”) della plebe romana del suo tempo e del suo modo di parlare, limitandosi a riportare (potremmo dire tacitianamente sine ira et studio) esempi di tipi e di situazioni della realtà quotidiana della Roma papale della prima metà del secolo XIX; invece l’Isler ci presenta anch’egli realisticamente personaggi ed ambienti della Torino del suo tempo, certamente, ma con l’intenzione di dare anche ai suoi ascoltatori/lettori insegnamenti morali che nascano appunto dalla rappresentazione, a volte anche in modo espressionisticamente grottesco, della realtà, tanto che parecchie canzoni terminano con una sorta di “esortazione” pedagogico-morale ai destinatari a comportarsi in un modo piuttosto che in un altro, evitando i vizi e seguendo le virtù.
[22] Possiamo citare alcuni esempi: le canzoni carnevalesche piemontesi (ma non solo) che hanno come argomento il “testamento di un animale”, generalmente il “Testament dël pito” (Testamento del tacchino) o dell’asino o ancora del cane, oppure anche canzoni popolari, sempre piemontesi, quali il “Testament ëd Giaco Tross”, figura stereotipa di ubriacone inveterato, un esempio del quale testo ci propone anche l’Isler stesso (canzone 24), o ancora, in ambito serio e non ironico-faceto, il “Il Testamento del Marchese di Saluzzo” (cfr. C. Nigra, Canti popolari del Piemonte; Torino 1888; rist. 2009; nr. 136), trasformato poi, adattandone il testo in italiano durante la prima guerra mondiale, in un canto degli alpini (“Il testamento del capitano”).
[23] Chi avesse la curiosità di conoscere non solo i testi ma anche le musiche isleriane può ascoltare il CD, dal titolo Cheur giojos ël cel l’agiuta (Omaggio a Ignazio Isler), opera di Roberto Balocco, contenente 12 canzoni isleriane (ediz. Bravo Records; 2003).
[24] Canzone costituita da ottave di settenari piani e tronchi alternati (schema: ababcccb)
[25] Gelofrada (o Gilofrada o Giolifrada) è il nome del garofano silvestre (Caryophyllum silvestre), ma popolarmente vale anche “donna leggera”. Cfr V. di Sant’Albino, Gran dizionario piemontese-italiano; Torino 1859 (rist. anast. 1981), p. 630 e G. F. Gribaudo, Ël Neuv Gribàud-Dissionari piemontèis; Torino 1972; 19963, p. 410.
[26] Letteralmente “stranezze, facezie, scherzi, storie piacevoli” < agg. dròlo, “strambo, strano” (cfr. ligure drolu e prov. drole < nederlandese droll (“folletto”) attraverso comunque il francese drôle.
[27] In piemontese esistono quattro modi, di diversa intensità, per indicare il concetto espresso dal verbo “cadere”: robaté (“cadere rotolando”), casché (“cadere verticalmente”), tombé (“cascare, in avanti o indietro”), droché (“rovinare”, detto di case, monumenti ecc.).
[28] Termine usato già dal Tarizzo (1707). Letteralmente “mela cotogna”, ma metaforicamente “stupido”.
[29] In opposizione al moderno chiel (egli), è una forma arcaica, ancora in uso nel Settecento, ma in seguito percepita come “rustica”, allo stesso modo di altri termini in cui la -a- sostituisce la -e-; in alcuni casi, se in sillaba finale, si tratta di un plurale metafonetico, ancora vivo in zone come l’Alto Canavese e il Biellese, con cambio di suono (metafonesi) tra la -e- del singolare e la -a- (in realtà un suono turbato tra a/e che sarebbe opportuno indicare, come in tedesco, con ae o con ä) del plurale; cfr. G. Clivio, “Osservazioni sulla varietà rustica del piemontese settecentesco” (1970), in Storia linguistica e dialettologia piemontese; Torino 1976, pp. 79-90.
[30] Anche i nomi delle tre figlie hanno un valore simbolico: Ciaflassa (da cëffi, “fitto, spesso”) è la “guancia prosperosa”, e poi (per metonimia) la “donna prosperosa specialmente nel volto” (cfr. V. di Sant’Albino, op. cit., p. 360); Patoflassa (lo stesso che Pantoflassa) è la “pantofola scalcagnata”, mentre Gianaflassa può avere due spiegazioni: o l’antico termine gian-a (“donna di servizio”; cfr. G. F. Gribaudo, op. cit., p. 405) oppure il nome proprio Gioann (femm. Gioan-a), entrambi comunque volti al dispregiativo.
[31] Griseul è il “crogiuolo” oppure una sorta di rete da pesca, ma popolarmente vale anche “deretano” (cfr. V. di Sant’Albino, op. cit., p. 660 e G. F. Gribaudo, op. cit., p. 437).
[32] La parpajòla (< fr. parpaillole) era una antica moneta piemontese (e anche milanese; cfr. A. Manzoni, I Promessi Sposi, cap. VII: quando Agnese promette a Menico due parpagliole) del valore di venti denari, cioè di un soldo ed otto denari (cfr. V. di Sant’Albino, op. cit., p. 851).
[33] È il termine “tecnico”, usato – in forma italianizzata – anche nei contratti di matrimonio, per indicare la “dote”; dall’arabo farda (“corredo nuziale”), attraverso o il latino tardo fardellum o il francese (e provenzale) fardel.
[34] Si tratta di una stoppa di seconda scelta, tratta dalla seconda pettinatura della canapa o del lino (cfr. V. di Sant’Albino, op. cit., p. 158 e G. F. Gribaudo, op. cit., p. 84).
[35] Olian-a (o ulian-a) è, letteralmente, la tela morbida; in realtà è la tela logora, usata, in quanto passata più volte in bucato.
[36] Termine consueto per indicare il “grembiale” femminile da lavoro, < fàuda (< lat. volg. falda, “seno”), e quindi, per traslato, “veste corta” (inizialmente una sorta di piccola sottana indossata dal sacerdote sotto il camice) e poi “grembiule”.
[37] Termine presente anche nel Tarizzo (1707) col valore di “busto o camicia da notte femminile” (< fr. brassière).
[38] “Tela di filo di bambagia impiegata specie in ricami di stile barocco piemontese” (G. F. Gribaudo, op. cit., p. 78).
[39] Esempio di plurale metafonetico (cfr. supra).
[40] La “rasparella” è un’erba (ital. “equiseto”) anticamente usata in cucina per sfregare le stoviglie.
[41] Antica misura di capacità per solidi equivalente a mezzo staio, cioè un quinto di sacco (cioè ancora 24 cucchiai , 8 coppe), pari a poco meno di 25 litri (cfr. V. di Sant’Albino, op. cit., p. 773).
[42] “Manicotto” (termine presente in tutta l’area gallo-italica), di etimo abbastanza chiaro (legato a man, “mano”) dal lat. mediev. maniza, “manica dell’armatura”.
[43] “Usato, liso, consunto” < lat. mediev. remissum (“messo più volte”) con metatesi (re- > e/ar- ) della prima sillaba, fenomeno molto diffuso in area pedemontana.
[44] Termine ancora in uso per indicare la tramontana o, più genericamente, qualunque vento invernale freddo. Diffuso in tutta l’area gallo e italo-romanza, deriverebbe dalla voce prelatina *bi(s)sja, “vento”, su base onomatopeica *bis-, “soffiare, fischiare”.
[45] Forma diminutiva di “arca/erca”, cioè la “madia”, < lat. arcam, “armadio, cassa, scrigno”.
[46] “Oggetto di poco valore” < francese quincaille, cfr. ital. “chincaglieria”, nome di uno strumento da lavoro in ferro o rame e poi, per metonimia, qualunque oggetto di poco valore.
[47] Letteralmente è la “rete per le mosche”, ma come tessuto indica un “canovaccio di tela rada”, affine al ligure reirora/rairora, “tela rada per contenere il formaggio” e al prov. reirolo, “tela rada per filtrare il latte coagulato”. L’etimo è, per tutte queste forme, il latino rarius (comparativo di rarum, “rado, poco fitto”).
[48] Tela di infima qualità; cfr. G. F. Gribaudo, op. cit., pag. 909.
[49] È incerto se si tratti di italianismo o di forma derivata dal latino romanzo (il REP non registra la voce): già al tempo, comunque, in opposizione col francesismo boneur.
[50] Forma diminutiva di sëbber (“mastello, bigoncia”) < antico alto tedesco zwibar (tedesco mod. zuber); cfr. il prov. sibbro.
[51] Si tratta di un arnese usato dalle lavandaie per battere la biancheria.
[52] Scagn (“sgabello, predella”; < lat. * scamnium, “banco”), termine presente in tutta l’area romanza , oltre che gallo-italica e gallo-romanza, si differenzia dalla banca/banchëtta (< germanico *bank, attraverso il latino volgare *bancum), che è una “cassapanca” su cui è possibile sedersi.
[53] La forma arbra/albra (< lat. tardo albarum < lat. class. alba popolus, “pioppo bianco”) è il pioppo genericamente inteso, mentre il suo derivato albron/arbron è nello specifico il pioppo bianco. da questo termine derivano anche vari toponimi, sia in Piemonte che in altre regioni, quali Albaretto della Torre (Cuneo), Albaredo Arnaboldi (Pavia), Albera Ligure (Alessandria), Alberoni (strada collinare di Torino).
[54] Doj, dal lat. dolium, “botte, giara” (cfr. anche doja, “brocca”) è un vaso di terracotta per liquori; da non confondere con l’omofono ma non omografo doi, il numerale due.
[55] “Vasellame”, antico neutro plurale latino, lat. mediev. < vascella, lett. “i piccoli vasi”.
[56] A-j ha lassà, costruzione arcaica con pronome personale anticipato, di contro alla forma moderna, enclitica, a l’ha lassaje.
[57] “Scaffale, scansia”: prestito dal prov. estagiera (cfr. franc. étagère), con epitesi di e-, < lat. volg. *staticum, “cosa che sta ferma, che è fissa”.
[58] Famiglia lessicale che, nelle sue alterazioni, indica variazioni di significato anche significative: cassa (< lat. mediev. cattiam, “tazza, mestolo, cucchiaio”, a sua volta dal greco cyathion/κυάθιον, “vasetto per attingere il vino dal cratere”), cioè “ramaiolo, mestolo di forma quadrata”, poi cassul (mestolo o cucchiaione di legno per scremare il latte), cassulera (schiumarola), cassaròla (casseruola).
[59] “Tarlata”, da càmola, “tarlo”, di etimo discusso: secondo alcuni dal lat. volg. *camulam (larva), secondo altri invece dall’arabo qamlah (piccolo insetto, pidocchio), secondo altri ancora da cama (residuo, polvere residua), diminutivo del lat. squamam (scaglia). Da rilevare che in piemontese il termine si applica anche alla pelle (“butterata”), alla frutta (“bacata”) e ai denti (“cariati”), oltre ad avere un valore metaforico mutuato dall’uso italiano (càmola dla gelosìa, “tarlo della gelosia”).
[60] Latinismo schietto: dal lat. volg. ollam (grande vaso, pignatta), a sua volta dal lat. classico aulam (pentola senza manici); si distingue (cfr. infra) dal tupin e dal suo diminutivo tupinat (cfr. supra per la forma arcaica in –at)/tupinèt (forse dal germ. *toppin, “pentola” o dal lat. tofinum, “fatto di terracotta”), che ha un manico solo, e dalla tofeja tipica canavesana (< lat. volg. extufatam, “bruciata”), che di manici ne ha due o quattro e che può essere messa sul fuoco.
[61] Forma di indefinito con valore generico: “alcuni”.
[62] Forma cittadina e del Piemonte nord-occidentale di contro alla forma del Piemonte sud-occidentale: capulòira vs ciapulòira, dal verbo capulé/ciapulé, in cui la pronuncia palatale della c- (cia-), di contro a quella velare (ca-), subisce l’influsso provenzale (cfr. anche ciat vs gat). Il verbo capulé (tritare, sbriciolare) è dal lat. volg. *clappulare, a sua volta da una base prelatina *kapp-, “tagliare, inciampare”. L’ass da capulòira è quindi il tagliere, mentre, infra, ciapulor (palatale) è la “mezzaluna”.. Notiamo che G. Clivio (1942-2006), in un suo intervento relativo alla sua esperienza di glottodidattica del piemontese coi propri figli, a proposito di neologismi ad indicare oggetti della realtà attuale, propone l’uso di ciapulòira elètrica per “frullatore”; cfr. G. Clivio, Doe speranse cite, in “Atti del Convegno Internazionale di Studi su Lingua e Letteratura Piemontese”; 1991; Alba 1994, pp. 347-374.
[63] Forma arcaica per ratera (“trappola per topi”), formata da rat, francesismo che in quegli anni stava sostituendo la forma originaria giari, che troviamo comunque ancora nel Tarizzo (1707) e che troveremo poi, ma come forma locale, nel poeta saluzzese Silvio Balbis (1737-1796). È tuttora in uso, anche se sempre più raro, nel Piemonte sud-occidentale.
[64] Plurale metafonetico per indicare “budella, interiora”, di etimo incerto (cfr. REP, s. v., col. 1235).
[65] Due forme non più in uso per cuciar (cucchiaio) e forciolin-a (forchetta), < forsëlla (forcella), < lat. furcillam (diminutivo di furcam, nel senso di “forcone”). Mentre però cuciar è un esito tardo latino (< cochlearium), cujé è dall’ant. fr. cuiller.
[66] Letteralmente “coltelli che si chiudono” (saror < saré, “chiudere”, < lat. volg. * serrare), cioè “a serramanico”.
[67] Da una base prelatina *barr-/ber- (“recipiente”) col suffisso latino –alem, presente nelle parlate gallo-italiche occidentali (piemontese, ligure. ticinese e lombardo occ.) e col suffisso -ilem presente invece, per es., in italiano.
[68] Dal latino situlam > sitlam > siclam (“secchia”), da cui anche l’italiano “secchia”.
[69] È il “cardatore, pettinatore di lana” < brus-cia, “pettine per scardassare lana, lino o canapa” o “spazzola per gli animali” < base prelatina *brusk- (“radice nocchiuta”) attraverso il latino *brusculam, “spazzola” (cfr. ital. arcaico “brusca”, cioè spazzola per pulire i cavalli).
[70] Forma arcaica, dal lat. mediev. cadredam (< lat. class. cathedram), in forma moderna cadrega (cfr. lig. carrega). Si tratta della “seggetta”, cioè una latrina, antenato del moderno water-closet.
[71] La madia su cui si impastava il pane.
[72] Si tratta dell’aspo o arcolaio, < depanatoriam, che, come il verbo < davané (“dipanare”, ma con valore metaforico “delirare, farneticare” oppure “gozzovigliare”), è dal lat. volg. *depanare, “dividere” (ital. dipanare) a sua volta < panum (“filo aggomitolato”).
[73] Era un arnese triangolare per infilare i fusi oppure un candeliere per le quindici candele dell’Officium Tenebrarum della Settimana Santa.
[74] Era una cortina che si teneva alle porte per proteggere dal vento.
[75] Letteralmente “a capriccio, a casaccio”: c’è però da notare che il termine è citato solamente dal Ponza, nel suo Dizionario piemontese-italiano (ediz. 1830), nella forma però arbus, lemmata come “malefatta”, mentre la formula a l’arbus è riferita come “a suo capriccio”. Necessità di rima, comunque, impongono la forma a l’arbusa.
[76] Forma arcaica, poi sentita come rustica, con sostituzione di -a- ad -e- (cfr. chial/chiel, dasand/dasend, fasand/fasend…), ancora viva in alcune parti del Piemonte sud-occidentale.
[77] Località della Valsesia donde tradizionalmente proveniva la maggior parte dei brentatori e dei facchini che lavoravano in città (cfr. anche il modo di dire Bambin ëd Varal, “persona tarchiata e grossolana”). Come abbiamo visto, nell’Arpa Discordata del Tarizzo (1707?) il territorio di provenienza dei facchini era, per tradizione, la val di Lanzo. C’è da osservare che la Valsesia entrò nel Ducato (poi Regno) sabaudo proprio nel 1707, dopo la liberazione di Torino dall’assedio franco-ispano: può quindi essere probabile che al tempo del Tarizzo i facchini valsesiani non fossero ancora noti a Torino.
[78] La forma enclitica –ve era (ed è) usata con valore interrogativo, in genere aggiunta al verbo, per la 2a persona plurale. In seguito, a partire all’incirca dalla prima metà dell’Ottocento, essa ha subito un processo di agglutinazione facendo così sorgere le forme di 2a plurale, attualmente in uso, con –ve. Per esemplificare: la forma arcaica (voi siete) era voi i sé (cfr. Pipino, Gramatica, cit., passim), che, acquisendo l’enclitico interrogativo (i sé-ve voi?) si trasforma nel moderno voi i seve (e così per ogni altro verbo).
[79] Granghìa (termine peraltro molto usato dall’Isler) indica il filo attorcigliato, e quindi metaforicamente “groviglio, intralcio” (cfr. V. di Sant’Albino, op. cit., p. 655 e G. F. Gribaudo, op. cit., p. 431). L’etimo è il latino cancrum (granchio), che ricorda il filo attorcigliato per la sua forma contorta, con suffisso collettivizzante –ilia.
[80] “Bambinetto, omiciattolo” < lat. volg. *nidarium/nidiarium (“che fa parte del nido”).
[81] “Deretano”, di etimo discusso. Alcuni propongono il latino tabanum/taphanum (“tafano”) con l’aggiunta di –arium giunto al piemontese attraverso il provenzale tafanari, con l’allusione al posarsi di mosche e tafani sul deretano dei bovini; altri invece pensano all’arabo tafar (“finimento, groppiera”), forma presente in tutta l’area gallo-romanza e italica (meridionale), oppure ancora all’arabo al tafr (“vagina/posteriore di animale”).
[82] Omografo ed omofono con cavija (caviglia), ma qui nel senso di “cavicchio, piuolo” o, meglio, di “foraterra, bastone corto ed arcuato”, < lat. volg. caviclam (chiodo) < claviculam, “piccola chiave” (da cui anche l’italiano clavicola, “osso della spalla”).