La Basilica Celeste dell’Arcangelo Michele sul Monte foggiano e gli eccezionali pellegrinaggi di un tempo

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Il pellegrino lascia sulla sua strada una traccia, segno del cammino religioso che sta compiendo.

Già dalla tarda antichità e alto medioevo, il flusso di tanti pellegrini è contrassegnato da graffiti e incisioni, per ricordare e testimoniare il viaggio lungo e faticoso affrontato per arrivare sul sepolcro di un martire o in luogo sacro significativo. Queste molteplici tracce hanno finito per essere tasselli di storia della fede scolpiti sulle pareti di roccia degli antichi luoghi di culto.

Il Santuario di San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo, è uno dei luoghi più importanti di pellegrinaggio, si trova sulla cosiddetta linea Sacra di San Michele lunga circa 2.000 km che passa anche per altri famosi luoghi santi legati all’Arcangelo, come Mont Saint Michel in Normandia (Francia) e la Sacra di San Michele in Val di Susa (TO). La via micaelica era un percorso fondamentale già da tempi remoti, segno di una devozione radicata e diffusa in tutta Europa verso Colui che combatte contro le forze del male.

L’origine del culto micaelico nasce proprio in questo magnifico lembo di Puglia, oggi parco nazionale del Gargano in provincia di Foggia, alla fine del V secolo.

La «Celeste Basilica» come viene chiamata, è legata alla memoria di tre apparizioni, a partire dal 490 e seguite da una quarta, a distanza di secoli. Non vi si conserva quindi né un corpo, né una reliquia, ma l’orma del piede dell’Arcangelo protetta da lastre di marmo sopra l’altare dell’impronta, nella immensa grotta calcarea, la sacra grotta, a cui si accede entrando nella Basilica e scendendo una lunga scalinata.

È soprattutto sulle pareti della scala che si ha l’impressione di trovarsi in un luogo fuori dell’ordinario. Per quanto questi ambienti abbiano subito grandi modifiche lungo i secoli, le mura conservano intatta la memoria della moltitudine di fedeli che hanno percorso le scale per accedere alla grotta dell’apparizione e che hanno inciso un incredibile libro di storia in quelle pietre, in cui le pagine, antiche di quasi 15 secoli, sovraccariche di segni sovrapposti in un incastro, raccontano la vita di fede di migliaia e migliaia di pellegrini.

Ovunque ci sono nomi, saluti, invocazioni, e forme varie: impronte di mani e di piedi (chiamati «segni di presenza»), l’una che si accavalla all’altra a formare un immenso geroglifico, che non ha risparmiato nemmeno i resti di affreschi che decoravano il corridoio che porta all’ingresso della chiesa rupestre.

Questo groviglio è un’opera imponente, un’immensa testimonianza che non ha molto a che vedere con le tante e varie motivazione con cui oggi si affronta un cammino di pellegrinaggio, parla solo di fede certa e potente. Una volta arrivati alla meta, il graffito non era una parte secondaria dell’esperienza vissuta e testimoniava il rapporto intimo e di vicinanza con il divino.

Il linguaggio di questi graffiti è fortemente simbolico ancora più che descrittivo: gran parte dei pellegrini medievali erano certamente illetterati, ma occorre sottolineare che il loro linguaggio fatto di simboli ha lasciato testimonianze di fede convinta, fortissima e perenne che non rimandano a semplici suggestioni, ma ad un Credo pregnante e fiero. D’altra parte, il Cristianesimo stesso è la religione concreta che meglio si associa alle immagini e ai segni, il suo fondatore è Cristo, non un’entità astratta, ma è il Verbo incarnato, che ha dato infinite possibilità agli artisti più o meno valenti di essere sacralmente rappresentato.

Questi segni riconoscibili e riconosciuti da tutti lungo i secoli (persino da noi che abbiamo smarrito molto la valenza del simbolico) erano e sono un linguaggio universale e condiviso, di riconoscimento, che proprio per il suo valore di universalità non ammette distinzioni e distanze.

La fede, patrimonio di tutti e da tutti condiviso, tra queste mura incise parlano a noi pellegrini tra i pellegrini.

 

 

 

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