“Kill Benito”. Pian piano la pista inglese diventa storia

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Con un’intervista a Luciano Garibaldi

 

“Il Giornale” ha rieditato, e pone in vendita a partire da sabato 14 luglio, assieme al quotidiano, il romanzo storico del regista Renzo Martinelli intitolato «Kill Benito», dedicato, tra intrighi, misteri, amori e lotte partigiane, alla controversa storia delle ultime ore di Mussolini. Si tratta del primo romanzo scritto dal regista, il cui pregio, nello stile dei suoi film, è quello di far nascere delle domande, senza paura di urtare dogmi ideologici o verità acquisite: una vera e propria indagine che sfida la versione ufficiale. Il che rientra perfettamente nello stile di Martinelli, autore di celebri film-denuncia come “Ustica”, “Vajont”, “Porzus” e “Piazza delle Cinque Lune”. Il saggio storico ispiratore dell’opera letteraria di Martinelli è «La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci?», di Luciano Garibaldi, il libro-inchiesta uscito nella sua prima edizione nel 2002, che ha demolito la “vulgata” sulla morte di Benito Mussolini e della sua amante, ha fatto molto discutere, ed è continuamente al centro di polemiche, di attenzioni e di tesi di laurea. Luciano Garibaldi è stato uno dei principali collaboratori di «Storia Illustrata» ed è, fin dalla fondazione, il titolare della rubrica di corrispondenza con i lettori di «Storia in Rete». Ha scritto oltre trenta volumi di storia tradotti in tutto il mondo («Un secolo di guerre» fu pubblicato anche in cinese, a Pechino).

«La pista inglese» ricostruisce l’uccisione di Mussolini e di Claretta Petacci ad opera di un commando di partigiani agli ordini del SOE (Special Operations Executive) britannico. Churchill non poteva permettere che Mussolini – come volevano gli americani – fosse catturato e sottoposto ad un processo dal quale avrebbe potuto anche uscire assolto. Avrebbe sicuramente rivelato gli accordi segreti intercorsi tra lui e il premier britannico, e aventi lo scopo di indurre Hitler a cessare la resistenza in Occidente per rivolgersi, tutti assieme (italiani, tedeschi e Alleati), contro l’Armata Rossa che avanzava verso l’Europa.
Analoga fine toccava a Claretta Petacci, l’unica persona al corrente dei più riservati segreti del Duce. Al tempo stesso, la documentazione scritta dei rapporti tra Mussolini e Churchill (il mitico “carteggio”) fu recuperata dal premier inglese per volontà del capo del PCI Palmiro Togliatti. La vicenda è raccontata nella postfazione al libro di Luciano Garibaldi, scritta dall’ex segretario di Togliatti, Massimo Caprara (1922 – 2009).

Tre anni fa moriva a Brescia, all’età di 94 anni, Bruno Giovanni Lonati, l’ex comandante partigiano che rivelò di essere stato lui, accompagnato da un ufficiale dei servizi segreti inglesi, il “capitano John”, a giustiziare Mussolini, mentre l’inglese sopprimeva la Petacci. Quando Lonati, nel 1994, rivelò il suo segreto pubblicando, con Mursia, il libro «Mussolini e Claretta: la verità», nessuno volle credergli. Neppure lo stesso Luciano Garibaldi, che pure aveva avuto la possibilità di leggere in anteprima il libro-rivelazione di Lonati. Mancavano infatti riscontri al racconto dell’ex comandante partigiano.

Ma – come lui stesso racconta nel suo «La pista inglese» – qualche tempo dopo l’uscita del libro-confessione di Lonati, continuando ad indagare sul lago di Como, Luciano Garibaldi ebbe modo di trovare importanti prove che resero sicuramente attendibile la ricostruzione della morte di Mussolini e Claretta fatta da Lonati: uccisi la mattina del 28 aprile a Bonzanigo dal “commando” italo-britannico e i loro cadaveri  sottoposti alla finta fucilazione pomeridiana dinnanzi al cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra ad opera dei partigiani al comando del “colonnello Valerio”. Il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) si assunse il poco onorifico merito di avere assassinato Claretta Petacci in cambio del tesoro di Dongo sottratto alle autorità di Salò e che avrebbe dovuto essere consegnato allo Stato italiano. Il libro di Luciano Garibaldi è stato pubblicato anche negli Stati Uniti, dalla Casa editrice Enigma Books di New York, con il titolo: «Mussolini: the secrets of his death».

 

A Luciano Garibaldi, collaboratore di “Europa Cristiana” fin dalla sua fondazione, abbiamo posto alcune domande.

Il tuo libro, pubblicato la prima volta nel 2002, capovolse la ricostruzione della fine di Mussolini che da oltre mezzo secolo aveva tenuto banco su tutti i libri di testo e che il grande storico Renzo De Felice definirà la “vulgata”. Come arrivasti a quelle conclusioni?

«Le mie ricerche durarono otto anni. L’indagine aveva preso l’avvio da un famoso documento: il fonogramma inviato il 27 aprile 1945 dal CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) al comando del Gruppo d’Armate alleato che, alla notizia dell’avvenuto arresto, aveva richiesto la immediata consegna di Mussolini, in  attuazione delle clausole dell’armistizio. La risposta fu una menzogna: “Non possiamo consegnarvi Mussolini perché è stato fucilato in piazzale Loreto, nello stesso punto dove erano stati assassinati i nostri compagni”. Non era vero. Mussolini, in quel momento, era ancora prigioniero a Dongo. Ma il fonogramma dimostrava che i capi della Resistenza avevano deciso di portare Mussolini a Milano e fucilarlo in piazzale Loreto, dinnanzi al popolo, con una solenne esecuzione capitale sul tipo della decapitazione di Luigi XVI. Assieme a Mussolini, avrebbero dovuto essere “giustiziati” altri quindici esponenti fascisti: tanti quanti erano stati i partigiani fucilati per una rappresaglia a  piazzale Loreto nell’agosto precedente».

Perché quel proposito non fu realizzato? Che cosa intervenne a mandarlo a monte?

«Intervenne la inattesa scoperta, fatta dal «colonnello Valerio» inviato da Milano a Dongo, che qualcuno lo aveva preceduto e aveva ucciso, nella mattinata del 28 aprile, Mussolini e Claretta Petacci. A questo punto, occorreva modificare il programma e portare a piazzale Loreto non i 15 «fucilandi» più il loro capo, ma sedici cadaveri. Modifica che fu realizzata con le fucilazioni del pomeriggio del 28 aprile sul lungolago a Dongo».

Ma come si inquadra, in questa vicenda di sangue, l’uccisione di Claretta Petacci?

«L’uccisione della Petacci non era stata programmata da nessuno. Non era prevista, né voluta. Addirittura il suo nome non era compreso nella lista dei prigionieri consegnata dal comandante partigiano «Pedro» al «colonnello Valerio». Ma il «colonnello Valerio», nello spuntare i nomi della lista, disse, anzi esclamò, come testimoniato da tutti i presenti: “Mussolini: a morte! Clara Petacci: a morte!”».

– Perché?

«Perché, al pari del Duce, l’aveva trovata cadavere quella mattina, ma soprattutto perché “doveva” assumersi l’onere di una uccisione del cui carico i suoi veri artefici – i servizi britannici – preferivano liberarsi»«.

– Quale fu il movente che spinse gli uomini di Churchill ad annientare Mussolini e la sua amante?

«Il timore che i due, interrogati dai giornalisti americani, rivelassero i contatti esistiti fino all’ultimo tra Mussolini e Churchill (dei quali Claretta conosceva fino ai minimi dettagli) e aventi lo scopo di spingere Hitler a cessare la resistenza in Occidente per volgersi unicamente contro l’Armata Rossa. Su questo tema specifico, il mio libro raggruppa per la prima volta le moltissime testimonianze, per decenni in pratica ignorate, sui contatti segreti tra Mussolini e gli inglesi. Fondamentali le testimonianze di personaggi come Quinto Navarra, commesso di Mussolini, Raffaele La Greca, cassiere capo della polizia di Salò, Pietro Carradori, attendente del Duce, e Urbano Lazzaro, il partigiano «Bill» che catturò Mussolini travestito da tedesco, concordi nell’affermare che il cosiddetto «oro di Dongo», rinvenuto dai partigiani nella «colonna Mussolini» e incamerato dal PCI, non era il «tesoro di Stato» della RSI, ma era composto dai valori confiscati alle famiglie degli ebrei arrestati e rinchiusi nei Lager in seguito alle leggi razziali. Valori che Mussolini intendeva consegnare agli americani, dopo la resa in Valtellina, affinché fossero restituiti ai superstiti e a dimostrazione del fatto che quelle confische non erano state fatte per arricchire la RSI a danno dei perseguitati, ma erano state un pesante obbligo derivante dall’alleanza con il Terzo Reich. Come tutti sanno, invece, quelle ricchezze finirono nelle casse del PCI».

– Consapevole della loro provenienza?

«Se esistesse ancora, il PCI lo negherebbe con sdegno, ovviamente».

 

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