Il vescovo Grigorij Lakota morì martire in Siberia

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Il Martirologio Romano così recita al 5 novembre: «Nel campo di prigionia della città di Abez nella Siberia in Russia, beato Gregorio Lakota, vescovo di Przemysl e martire, che, durante l’oppressione della patria da parte dei persecutori della fede, vinse le perdite del corpo con una intrepida morte in nome di Cristo».

Il vescovo Grigorij nasce il 31 gennaio 1883 nel villaggio Golodivka, provincia di Leopoli in Ucraina. Frequenta la scuola elementare nella città di Komarno, prosegue gli studi al seminario di Leopoli e nel 1909 viene ordinato sacerdote nella città di Peremyšl’, dove riveste l’incarico di segretario del vescovo locale Konstantin Čechovič. Dal 1910 al 1913 studia a Vienna, dove ottenere il titolo di dottore in teologia. Dal 1914 insegna storia della Chiesa e diritto canonico nel seminario diocesano di Peremyšl’, dove il 16 gennaio 1918 sarà nominato rettore. Nel 1924 è nominato vicario generale della diocesi e il 16 maggio viene consacrato vescovo e nominato ausiliare della diocesi di Peremyšl’; contemporaneamente conserva l’incarico di vicario generale e presidente del tribunale diocesano.

Nel 1939 il vescovo Grigorij viene mandato dal vescovo ordinario nella città di Jaroslav, allora occupata dall’esercito tedesco; così tutta la parte occidentale della diocesi, fino a Cracovia, viene a trovarsi sotto la sua direzione. Nel 194 ritorna1 il vescovo Grigorij a Peremyšl’. In quel periodo si acuisce la pressione sulla popolazione ucraina delle terre di confini per indurla ad espatriare verso Est. Le autorità polacche il 21 settembre 1945 arrestano il vescovo ordinario I. Kocilovskij, il vescovo ausiliare Grigorij Lakota e lettore il Vasilij Grinik. Vengono «convinti» a trasferirsi in URSS. Dopo due mesi di prigionia i tre sono consegnati nelle mani dell’NKVD, che il 16 gennaio 1946 fa passare loro il confine. Il 24 dello stesso mese i due vescovi vengono liberati e si permette loro di tornare nella propria diocesi. Il secondo arresto del vescovo Grigorii avviene il 26 giugno 1946, dopo la celebrazione della Liturgia nella chiesa cattedrale: le truppe polacche, coadiuvate da ufficiali sovietici, circondano la cattedrale e il capo dell’amministrazione cittadina propone a tutti i rappresentanti del clero ucraino di trasferirsi liberamente in Unione Sovietica. Il clero unanime si rifiuta. Si concede un giorno di ripensamento e il secondo giorno tutto il clero viene condotto alla stazione ferroviaria e deportato.
Giunto in territorio sovietico, il vescovo Grigorij viene condannato senza processo a 10 anni di lager da scontarsi nei famigerati capi di Vorkuta, nel Nord della Russia (Repubblica dei Komi). Nel lager vescovo il si distingue per una grande umanità e umiltà. Cerca di assumere i lavori più pesanti per alleggerire gli altri rilasciati. Padre Pietro Leoni, gesuita italiano che trascorre 10 anni nei lager della Siberia, scrive nelle sue memorie: «Nel lager ho incontrato degli autentici angeli dal volto umano che nella loro vita rappresentavano i Cherubini in terra, glorificando Cristo. Fra questi c’è da annoverare il vescovo confessore della fede Grigorij Lakota, che dal 1948 al 1950 ha illuminato noi, prigionieri infiacchiti, con l’esempio delle virtù cristiane. Nel lager Vorkuta il vescovo Grigorij è un esempio straordinario di vita vissuta nella verità. Fra i lui cresce, con la sua straordinaria santità, si guadagna il nome di «angelo in corpo umano». Tutti i sacerdoti che si trovano in quel lager al mattino presto celebrano segretamente la Messa su un comodino. Ogni giorno il clero detenuto nel lager si attorno al vescovo Lakota per conversare su temi religiosi.

Nel 1950 la salute del vescovo peggiora gravemente. Viene trasportato nel lager-ospedale di Abez’ sul lago Usa. Gli minuti della vita del vescovo Grigorij sono testimoniati dal detenuto Kaetanovič, Amministratore apostolico per gli ultimi armeni cattolici in Ucraina. Il vescovo Grigorij, ormai grave, disteso a letto non fa che pregare, ma a tutti coloro che vengono a visitarlo dà la sua benedizione.

Il vescovo Grigorij Lakota muore in lager il 12 novembre 1950 e viene beatificato il 27 giugno 2001 in occasione della visita di papa Giovanni Paolo II in Ucraina.

Memorabili le parole del Papa polacco in tale occasione:

«“Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).

Questa solenne affermazione di Cristo risuona fra noi, oggi, con particolare eloquenza, mentre proclamiamo Beati alcuni figli di questa gloriosa Chiesa di Leopoli degli Ucraini. La maggior parte di essi fu uccisa in odio alla fede cristiana. Alcuni subirono il martirio in tempi a noi vicini e, tra i presenti alla Divina Liturgia odierna, non pochi sono coloro che li conobbero personalmente. Questa terra di Halytchyna, che lungo la storia ha visto lo sviluppo della Chiesa ucraina greco-cattolica, è stata coperta, come diceva l’indimenticabile Metropolita Yosyf Slipyi, “da montagne di cadaveri e fiumi di sangue.

È, la vostra, una comunità viva e feconda che si ricollega alla predicazione dei santi Fratelli Cirillo e Metodio, a san Vladimiro e a santa Olga. L’esempio dei martiri appartenenti a diversi periodi della storia, ma soprattutto al secolo passato, testimonia che il martirio è la misura più alta del servizio di Dio e della Chiesa. Con la presente celebrazione vogliamo rendere loro omaggio e ringraziare il Signore per la loro fedeltà.

Con questo suggestivo rito di beatificazione, è mio desiderio altresì esprimere la riconoscenza di tutta la Chiesa al popolo di Dio in Ucraina per Mykola Carneckyj e i suoi 24 Compagni martiri, come pure per i martiri Teodor Romóa e Omeljan Kovc e per la Serva di Dio Josaphata Michaëlina Hordashevska. Come il chicco di frumento caduto in terra muore per dar vita alla spiga (cfr Gv 12,24), così essi hanno offerto la loro esistenza, affinché il campo di Dio fosse fecondo di nuova e più abbondante messe.

[…]

I servi di Dio, oggi iscritti nell’Albo dei Beati, rappresentano tutte le componenti della Comunità ecclesiale: ci sono tra loro Vescovi e sacerdoti, monaci, monache e laici. Essi furono provati in molti modi da parte dei seguaci delle ideologie nefaste del nazismo e del comunismo. Conscio delle sofferenze a cui erano sottoposti questi fedeli discepoli di Cristo, il mio Predecessore Pio XII, con accorata partecipazione, manifestava la propria solidarietà con coloro “che perseverano nella fede e resistono ai nemici del cristianesimo con la stessa invitta fortezza con cui resistettero un tempo i loro antenati” e ne lodava il coraggio nell’essere restati “fedelmente congiunti col Romano Pontefice e coi loro pastori” (Lett. ap. Orientales Ecclesias, 15 dicembre 1952: AAS 45 [1953], 8).

Sostenuti dalla grazia divina, essi hanno percorso sino in fondo la strada della vittoria. È strada che passa attraverso il perdono e la riconciliazione; strada che conduce alla luce folgorante della Pasqua, dopo il sacrificio del Calvario. Questi nostri fratelli e sorelle sono i rappresentanti conosciuti di una moltitudine di eroi anonimi – uomini e donne, mariti e mogli, sacerdoti e consacrati, giovani e anziani – che lungo il ventesimo secolo, il “secolo del martirio”, hanno affrontato la persecuzione, la violenza, la morte pur di non rinunciare alla loro fede».

 

 

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