Abbiamo intervistato Dario Pasero, filologo e linguista, scrittore e poeta in lingua piemontese, che nasce a Torino nel 1952, ha compiuto gli studi al liceo classico «Alfieri» e ha conseguito la laurea in Lettere Classiche all’Universitas Taurinensis, con una tesi sulla metrica delle commedie di Terenzio. È stato per circa 40 anni docente di ruolo nelle scuole superiori, di cui 30 di Italiano e Latino al liceo classico di Ivrea, città dove tuttora risiede. Dai primi anni Ottanta ha iniziato la sua attività di scrittore in lingua piemontese: sue composizioni sono state pubblicate su varie riviste specializzate in Piemonte e altrove. In lingua italiana, oltre che con varie riviste e siti culturali, collabora con l’annuario eno-gastronomico «l’Apollo buongustaio» di Roma. Al suo attivo sono anche alcuni volumi di poesie piemontesi. Come filologo piemontese ha curato l’edizione critica delle poesie di Alfredo Nicola e del teatro di Armando Mottura, nonché l’edizione critica delle canzoni di Padre Ignazio Isler (1699-1778); ha collaborato inoltre al primo e al secondo volume di La letteratura in piemontese (insieme con Gianrenzo Clivio e Giuliano Gasca Queirazza), edita dalla Regione Piemonte. Nel campo della letteratura italiana si è occupato di Carlo Botta e di Edoardo Calandra, oltre che del poeta chivassese (in italiano ed in latino) Giuseppe Giacoletti. È direttore della rivista trimestrale «La Slòira», che si occupa di cultura e letteratura piemontese, sia antica che moderna e contemporanea.
Lei è – per formazione universitaria – un filologo classico. Quando e, soprattutto, perché il suo interesse per le lingue “minori” e, specialmente, per il piemontese?
È stato un percorso piuttosto lungo, anche se molto gratificante. Già ai tempi degli studi universitari mi ero interessato alla civiltà medievale, specialmente in riferimento alla trasmissione dei testi degli autori classici (in particolare quelli latini) soprattutto – come si sa – grazie agli scriptoria dei principali monasteri (benedettini, in primis) sia in Italia che nel resto dell’Europa.
Di qui l’interesse per la cultura medievale più in generale, e quindi anche per la nascita delle lingue moderne (in particolare quelle romanze) e per i più antichi testi delle origini dei volgari in Italia. Cominciai allora a capire che il ruolo egemone del toscano all’interno della cultura e della letteratura in Italia, anche se non poteva certo più essere revocato in dubbio, doveva comunque essere almeno in parte “ridimensionato” nei confronti di letterature che si erano espresse in altri volgari, cioè quelli che noi ora chiamiamo “dialetti”. Ecco un altro passo fondamentale: partendo dai siciliani e da Bonvesin avvicinarmi ad alcuni grandi scrittori “dialettali”, in particolare G. G. Belli. In questo momento della mia vita, intorno cioè alla metà degli anni Ottanta, si colloca il mio incontro con Gianrenzo Clivio, torinese ma docente di linguistica romanza alla Toronto University: è stato lui – purtroppo prematuramente scomparso nel 2006 – che non solo mi ha consentito ed invogliato a praticare, in modo sempre più approfondito, la filologia romanza, ma anche (e direi soprattutto) mi ha fatto scoprire la linguistica e la letteratura piemontese (allora parlavo piemontese in famiglia e con gli amici, ma difficilmente mi sarei avvicinato, per ignoranza mia, alla storia della lingua ed alla letteratura piemontese). È stato Gianrenzo Clivio che mi ha parlato della koinè letteraria piemontese e del suo ruolo coesivamente unificatore all’interno degli stati sabaudi e, quindi, anche del suo valore etico, civile, sociale. Koiné che non annulla, anzi in qualche modo ha sempre vivificato, le varianti locali piemontesi (astigiano, monferrino, biellese ecc.). Conoscere il piemontese nei suoi aspetti più profondi mi ha permesso di parlare di qualcosa che già conoscevo abbastanza bene (il Piemonte nei suoi valori e tradizioni), ma che cominciavo allora a conoscere sempre meglio grazie agli approfondimenti linguistici.
È stato ancora Clivio, negli anni Novanta, a propormi di approntare l’edizione critica delle poesie dell’Isler, uscita poi nel 2013 e che quindi egli, purtroppo, non poté vedere realizzata (ho ritenuto moralmente doveroso dedicarla alla Sua memoria). Concludo con un aneddoto: Clivio mi invitò a seguirlo alla Toronto University, ma io rifiutai (e non me ne pento) perché non potevo pensare di lasciare per lunghi periodi di tempo la mia famiglia, che per motivi logistici sarebbe dovuta rimanere in Piemonte.
Come suo “maestro” Lei ha fatto menzione di Gianrenzo Clivio; non si fa cenno invece ad alcuni “mostri sacri” della ricerca dialettologica in Piemonte (l’ambiente universitario torinese che si riconosce nell’Istituto dell’Atlante Linguistico, e quindi i professori Grassi, Genre, Massobrio, Telmon ecc.): c’è un motivo particolare?
Innanzitutto, avendo conosciuto ed apprezzato Clivio, ho voluto (e ciò comunque non è mai stato in contraddizione con la mia formazione che, essendo fondamentalmente filologica, è in ultima analisi profondamente “storica”) seguire le sue tracce sulla strada di quella che possiamo definire linguistica “storica”, quella cioè fondata sempre ed esclusivamente sui testi, più o meno antichi a seconda dei casi. Le persone citate rappresentano una sorta di linguistica, diciamo così, fondata sulla ricerca “sul campo”, sincronica e non diacronica, più descrittiva che non comparativa, che limita la sua ricerca, in chiave oltretutto estremamente “sociologistica”, a periodi cronologici molto brevi e ad aree geografiche molto limitate, al massimo una valle, ma talora un solo comune o addirittura una sola frazione di comune. Questo tipo di ricerca, che si basa sull’intervista a testimoni, non potrà mai dar conto né di una evoluzione diacronica, se non lungo lo spazio – al massimo – di due/tre generazioni, mentre con l’analisi testuale arriviamo (almeno per ciò che concerne i miei studi) ad inizio Settecento, né di una visione più allargata geograficamente, che possa (in un secondo tempo, certo) mettere in correlazione testi in koinè con testi coevi nelle parlate locali. La ricerca “sul campo” porta poi anche al rischio di errori: la memoria dei testimoni può fallire, la pronuncia di un vocabolo può trarre in inganno; oltre al fatto che la non esistenza attuale “sul campo” di vocaboli di uso arcaico ormai scomparsi può portare fuori del seminato, assegnando per esempio (è un caso che ho letto in un fascicolo divulgativo, ma fondato su interviste a testimoni) vocaboli piemontesi (testimoniati da scrittori del Settecento) ad un ambito esclusivamente “provenzale” solo perché tali vocaboli sono ancora vivi nell’area occitanofona e invece, purtroppo, sono scomparsi in quella piemontofona. Inoltre la ricerca sul campo nega ogni valore alla koinè piemontese, anzi ne nega persino l’esistenza, riducendola in qualche modo al “torinese”, che mette poi in contrapposizione con le parlate provinciali. Si disconosce, quindi, ogni tensione morale ad una lingua “comune” che, in realtà, faceva sì che un popolo riconoscesse se stesso ed i suoi valori, anche quelli civili, in essa. E poi, ancora una volta, la mia formazione filologica mi porta a dare sempre la massima importanza ai testi scritti più che non a testimonianze orali: i testi non mentono, ciò che essi dicono in ambito linguistico/lessicale è davanti a tutti, al di fuori e al di sopra di ogni interpretazione arbitrariamente soggettiva.
Ultima osservazione: essendo la ricerca descrittiva sul campo in auge in particolare in area marxista, non può ammettere che siano esistiti testi poetici di valore in un “dialetto”. Il “dialetto” è esclusivamente la lingua della realtà quotidiana ed espressione di un popolo ignorante, che potrà svolgere un ruolo egemone solamente quando, conquistata l’istruzione, parlerà finalmente italiano. Da ciò discende ancora un corollario: i ricercatori sul campo usano, per i loro lavori, l’alfabeto fonetico (e ciò è comprensibile in ambito scientifico), ma affermano “forte e chiaro” che ogni problema di grafia nello scrivere un “dialetto” è un falso problema, dato che il popolo usava il dialetto solo per parlare, disinteressandosi dello scriverlo, operazione per lui non necessaria.
Visti i suoi interessi linguistici ma anche filologici: quali, e perché, i suoi scrittori piemontesi preferiti?
Ovviamente, e parlo in conseguenza di un lungo “amore” filologico-linguistico, l’autore piemontese che prediligo è Padre Ignazio Isler (Torino, 1699-1778) e questo non solo in virtù della sua lingua arcaicamente ricca e variegata, capace di esprimere cose e situazioni diverse e di attraversare diastraticamente varie classi sociali torinesi del tempo, ma anche perché nei suoi testi troviamo uno splendido affresco della vita delle classi medio basse (ma non solo) della Torino della metà del secolo XVIII. È dunque un interesse (ed un amore), quello per l’Isler, soprattutto “documentario” più che non poetico-estetico (i suoi testi, se letti solamente come modelli poetici, sono troppo lontani dal nostro gusto moderno) e, direi, quasi “nostalgico”, poiché ci riporta ad un tempo in cui alcuni valori, gusti, tradizioni – che la nostra società ahinoi ha perso – avevano ancora un posto, ed un posto d’onore. Si parva magnis componere licet, è un po’ come l’interesse che provo per la lettura di Dante, nel quale troviamo un modello di lingua cui ispirarci, almeno in parte, e la possibilità di trasportarci – grazie alla sua poesia – in un’epoca in cui alcuni valori erano ben chiari e saldi nella mente e nel cuore delle persone.
Per lo stesso motivo apprezzo pressoché tutti (quale più, quale un po’ meno) gli autori del secolo XVIII: persino il Calvo, giacobino ed anti-religioso, ha saputo, però, usare ancora una lingua eccezionale; purtroppo i suoi contenuti sono improponibili a chi abbia una visione della storia e della realtà come la nostra, della tradizione intendo. Apprezzo quasi nulla gli scrittori dell’Ottocento, per la ragione opposta, cioè l’uso di una lingua “patriotticamente” italianizzata. Sono modelli da conoscere, ma per evitarne la contaminazione, per quanto almeno Brofferio, ogni tanto, abbia dei “rigurgiti” di buona lingua.
Spesso si pensa a discipline quali la glottologia e la filologia come a scienze molto “tecniche” e definite in se stesse, con pochi legami con la realtà “effettuale”, col proprio tempo. È vero? o Lei pensa che si possano trovare dei legami, magari profondi, tra queste materie e la realtà culturale e civile che ci circonda?
In parte, credo di aver già risposto poco fa. La lettura filologica dei testi ci permette di avvicinarci alla realtà concreta, sia quella storica che quella contemporanea. Non per nulla la mia rubrica quindicinale su «Europa Cristiana» si intitola «Lingue, culture, valori», proprio a significare come una civiltà (nel caso di specie quella europea e cristiana, pur nelle varie sue sfaccettature: e a noi interessano quella italiana e quella piemontese) sia tale in primis per la specificità della lingua in cui esprime i suoi valori e in cui costruisce la sua cultura. L’Europa cristiana sarebbe la stessa senza il latino?
Anche la linguistica marxista e più genericamente liberal (pensiamo a Chomsky), cui si potrà addossare ogni sorta di nefandezze ma non la mancanza di una chiara e consapevole visione strategica, non esita ad affermare la doverosa “ricaduta” degli studi linguistici sulla realtà politico-civile e sociale che ci circonda.
Lei è anche poeta “in proprio”: cosa pensa della poesia cosiddetta “dialettale” in genere, e piemontese in particolare, del suo valore nel mondo contemporaneo, dell’uso linguistico più o meno squisito?
Ringrazio per questa domanda che mi permette di aggiungere, a ciò che già ho detto, qualcosa sulla poesia piemontese moderna e contemporanea. Innanzitutto devo dire che la figura del poeta è – come nel mondo classico – una figura, se non sacra, quanto meno ieratica; il suo ruolo è quello di cercare di interpretare la realtà dandone una sua visione attraverso non un metodo argomentativo, ma servendosi di illuminazioni ed intuizioni sostenute da un procedere analogico: sarà poi compito del lettore, che nel momento della “fruizione” diventa in qualche modo comproprietario dell’opera, a svolgere in forma logico-argomentativa ciò che il poeta gli suggerisce. Una poesia dunque “suggestiva” (in senso etimologico) più che non descrittiva o narrativa. Su questa distinzione si gioca la diversificazione, evidente in ogni lingua ma ancora più eclatante nei “dialetti”, tra quei poeti “della domenica”, che credono che far poesia voglia dire affastellare immagini e descrizioni, e i veri poeti, che sentono su di sé il peso della analisi della realtà. Tanto più evidente, dicevo, nella poesia c.d. “dialettale” perché non solo molti autori, ma anche la maggioranza dei lettori è in genere schierata sulle posizioni di una poesia superficiale e – direi – abbastanza vuota (basta leggere i testi premiati in molti concorsi poetici), convinta che la poesia c.d. “dialettale” sia fatta di immagini, descrizioni e narrazioni pateticamente edulcorate, tese alla ricomposizione di un mondo, che non c’è più, da ricostruire nei propri versi con quel tanto di malinconia che «fa fine e non impegna», toccando in genere una serie di temi stereotipati quali le montagne, la mamma, l’infanzia perduta, senza – oltretutto – quel minimo di ironia che permetteva, per esempio, a Gozzano di parlare della «piccole cose» senza scadere nel ridicolo. E questa mia convinzione relativa alla poesia non contraddice ciò che ho detto poco fa: altro è cercare di ridare dignità al passato, alle sue tradizioni e valori attraverso l’uso consapevole di una lingua, altro è fantasticare poeticamente sulle belle cose d’antan. Allo stesso modo non sono d’accordo con chi sostiene che la poesia abbia, magari non principalmente, il ruolo di “denuncia” dei mali del mondo: le denunce si fanno, quando è necessario, all’autorità di P.S. non nelle raccolte di poesie.
Quanto alla poesia piemontese – e mia in particolare – riaffermo quanto detto, almeno per l’aspetto lessicale, relativamente ai modelli antichi. L’Isler deve essere anche modello di lingua: le vecchie parole, ormai in disuso, che egli utilizza possono tranquillamente essere riprese ed usate (salvo i casi di termini relativi ad attrezzi o ad abitudini ormai scomparsi) anche nel nostro mondo: sarebbe un arricchimento ed un miglioramento del nostro vocabolario in termini di precisione e di proprietà lessicale. Pertanto nei miei versi non rifuggo (anzi…) dall’usare termini arcaici, anche se poco comprensibili ai più (tanto, la traduzione italiana ed un minimo di commento ci vogliono sempre per la comprensione delle poesie attuali), così come sono convinto che compito dello scrittore (nella fattispecie del poeta) sia anche quello di cercare di rivitalizzare la lingua creando dei neologismi, purché questi obbediscano alle regole fondamentali della logopoietica (cioè correttezza etimologica, evitare italianisti inutili…). Una poesia quindi, certamente, «squisita», nel senso etimologico dell’aggettivo: una poesia cioè ricercata e su cui è importantissimo esercitare incessantemente il labor limae.
Oltre alla poesia, l’altro ambito in cui le lingue minori trovano ancora uno spazio – più o meno letterario – in cui esprimersi è il teatro. Cosa pensa del teatro piemontese, professionale ed amatoriale, del giorno d’oggi?
Direi che il teatro piemontese non esiste più. Non parlo solo di quello professionale (l’ultimo attore professionista che ho sentito – seguo le orme di mia madre, di cui ricordo che non diceva «andiamo a teatro a vedere…» ma «a sentire Casaleggio» – recitare in piemontese è stato, circa 20 anni fa, Mario Brusa nel berseziano Travèt), ma anche quello amatoriale. Sembra un paradosso, visto che basta aprire un qualunque giornale locale o il sito di una Pro loco di provincia per trovarvi notizie riguardanti legioni di compagnie e di spettacoli teatrali in piemontese, ma vado a spiegarmi. Innanzitutto la lingua: quasi più nessuna compagnia recita esclusivamente in piemontese (due/tre parti, o talora di più, sono in italiano); basterebbe ciò per contraddire il motivo storico e civile per cui nacque (nel 1859, con Toselli) il teatro piemontese: creare cioè un teatro “nazionale” piemontese. Secondariamente gli intrecci proposti: solamente “commedie comiche” o addirittura “comicissime”. Compito del teatro è, tuttavia, anche quello di far pensare il pubblico, non solo di farlo ridere. Io posso ridere anche guardando una comica muta di Buster Keaton; invece, purtroppo, il teatro piemontese “deve” ormai quasi esclusivamente (e dico «quasi» per carità di patria) non solo “far ridere”, ma, spesso, far ridere proprio con l’uso della lingua, un uso tuttavia sgangherato, ridicolo (in senso morale), becero, forsennato. La lingua da strumento è diventata il fine stesso della comicità. Quando si usa una lingua (o un suo triste surrogato) per ridere di questa stessa vuol dire che siamo al capolinea.
Passando dal campo squisitamente linguistico ad uno più ampiamente “letterario”, cosa pensa degli scrittori piemontesi (ma italografi) più noti anche al grande pubblico?
Prima di rispondere a questa domanda è necessaria una premessa. La scuola pubblica dalla fine della seconda guerra mondiale è vissuta sotto una sorta di diktat cultural-ideologico della sinistra, sia quella marxista, sia quella liberale, cioè “azionista”. Conseguenza di ciò l’indottrinamento, subìto dagli studenti, nella scelta dei “modelli”, letterari ma anche esistenziali, da tenere come riferimento: in primis alcuni solenni bluff, sostenuti nel loro “successo” presso il “colto pubblico e l’inclita guarnigione” da una poco probabile eletta schiera di “critici” in servizio ideologico permanente effettivo e nei confronti dei quali (sia gli autori che i critici) era praticamente impossibile elevare alcun tipo di dubbio o, peggio, di critica. Cesare Pavese e Primo Levi, entrambi piemontesi, ed entrambi (per loro ammissione) “piemontofoni” almeno in famiglia, ma autori di una scelta uni-linguistica diversa che io, per carità, non contesto (ma critico sì): ciascuno, nella propria libertà, sceglie il proprio codice linguistico di riferimento. Ciò che non tollero in entrambi (e lo voglio affermare aperte et clare) è come hanno trattato la loro lingua materna (tale era indubbiamente il piemontese) in quelle pur minime parti delle loro opere in cui essa fa capolino. In primis nessun rispetto per una grafia, se non corretta, quanto meno “logica” (ma già abbiamo visto in quale conto gli intellettuali liberal, e specie i marxisti più o meno ortodossi, tengano la grafia delle lingue minori), in secundis le poche frasi piemontesi che Pavese usa (specie nei racconti postumi di Ciau Masino, in cui l’operaio Masino frequenta la scuola serale ed è preso in giro, in primis dallo scrittore, per il suo italiano pieno di strafalcioni, ma soprattutto di piemontesismi) sono sempre riferite (è ancora il marxista in quota Einaudi che pensa e scrive) a personaggi del “popolino” (quelli che a Torino venivano chiamati, a fine Ottocento, la «bassa Russia» e poi, con l’industrializzazione, i «barachin»): sboccati, bestemmiatori, ignoranti, ma gramscianamente e “veristicamente” (altro grande bluff letterario, il Verismo) vivi e vitalistici. I borghesi parlano italiano, i proletari piemontese, ma – ci fa capire Pavese – in preparazione alla rivoluzione essi studieranno e impareranno l’italiano, staccandosi definitivamente da un demi-monde fatto di tradizioni, di valori cristiani e civili: Gramsci contro Don Bosco, l’italiano degli intellettuali contro il piemontese dei Santi. Levi, più raffinato, più liberal, più azionista, ci parla del piemontese (anzi del giargon ebreo-piemontese) in Argon, il primo racconto di Il sistema periodico: anche qui un “piccolo mondo”, quello dei suoi avi ebrei della provincia saluzzese e monferrina (Verzuolo e Casale) segnati dal loro piemontese incrociato con l’ebraico (una sorta di yiddisch subalpino) come emblema di staticità e di inerzia (il gas inerte del titolo: argon appunto); anche qui, dunque, un mondo passato fatto (comunque) di valori e di religiosità che deve cedere il passo alla modernità, al nuovo. Un disprezzo, tanto più squallido perché mascherato sotto un velo ipocrita di malinconia famigliare, che ha la sua radice – direi – non solo nel pensiero marxista, ma anche in “maggiori” quali Augusto Monti e Norberto Bobbio, entrambi piemontofoni, ma entrambi mossi da quel supercilioso snobismo verso il mondo (e la lingua) dei propri avi. Per rendersene conto basta leggere Ij sansossì di Monti e alcuni capitoli del De senectute di Bobbio.