Il massacro di Torino del 22 e 23 settembre del 1864

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Tra i diversi momenti di discussione sul movimento unitario nazionale, condannati quantomeno al semi-oblio da parte della Storia ufficiale, ci sono i fatti di Torino del 1864, imbarazzanti per la retorica unitaria.

La città di Torino, destinata nelle premesse a svilupparsi come capitale del nuovo regno d’Italia, essendo stata il motore del processo unitario, aveva richiamato un gran numero di artigiani, dal Piemonte, dalla Svizzera, da Roma, dal Meridione, in cerca di una vita migliore nella capitale. Ma il governo del bolognese Marco Minghetti (1818-1886, a sinistra nella foto) si era trovato a lavorare ad una Convenzione “segreta” (che sarà poi detta “di settembre”) con Napoleone III per il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, firmata il 15 di settembre del 1864, senza interrogarsi sulle aspirazioni di chi pensava a Roma coma l’unica capitale possibile del regno. E così, questa convenzione comportava il ritiro delle truppe francesi da Roma, ma anche l’impegno dell’Italia a rispettare la sovranità del Papa sulle sue terre. Alla parte pubblica del trattato si aggiungeva una clausola che faceva dipendere l’esecuzione del trattato stesso dal trasferimento della capitale ad un’altra città che il Re d’Italia avesse scelto, e tutto ciò entro sei mesi dalla data della convenzione. Era, questo, un modo, da una parte, per allontanare la capitale italiana dal territorio francese e, dall’altra, per soddisfare gli obiettivi degli antipiemontesisti, che Minghetti e vari altri condividevano. Non si considerò assolutamente quindi l’effetto sconvolgente che ciò avrebbe avuto tra i torinesi, e soprattutto tra coloro che da poco lo erano diventati, trasferendosi in una città di cui era prevedibile un grande sviluppo e che invece si sarebbe trovata isolata, ai confini occidentali del nuovo stato, troppo vicina alla Francia ed all’Europa.

L’opinione pubblica della città era contraria ad una scelta di tal genere: la Convenzione Minghetti-Napoleone III si rivelò un trabocchetto per far sì che l’Italia rinunciasse a Roma per sempre, così come si doveva rinunciare a Venezia in favore di Vienna. La sera del 20 settembre (data fatidica, massonicamente significativa),  dopo il lavoro, anche in conseguenza della denuncia da parte della stampa locale, le strade si riempirono di gente: un oratore parlava in Piazza d’Armi sulla nobiltà della nazione e sul bisogno di concordia; in via Dora Grossa (oggi Garibaldi) un altro oratore parlava dell’importanza di Roma capitale e della necessità di liberare Venezia. Gli slogan erano: “La capitale a Roma” ed anche altri contro il governo Minghetti. In maniera civile tutta la gente si stava ritirando, quando in via san Filippo Neri un drappello di Carabinieri disperse in modo violento un piccolo gruppo di cittadini arrestandone qualcuno. Un articolo pubblicato sulla «Gazzetta di Torino» contribuì a rattristare gli animi, poiché il Re aveva dichiarato che da Firenze sarebbe tornato, solo di tanto in tanto, a visitare Torino. Nel pomeriggio del 21 un gran numero di cittadini si recò a protestare davanti alla sede della «Gazzetta di Torino», ma sempre senza violenze. All’improvviso dalla Questura (allora in piazza San Carlo) una compagnia di Guardie di Pubblica Sicurezza assalì a colpi di sciabola la gente: era presente anche il ministro di Francia, il barone Josephe de Malaret (1820-1886), che per poco non fu aggredito anch’egli. L’assalto improvviso causò tra i manifestanti una diecina di feriti per i colpi di arma da taglio; furono arrestati una trentina di manifestanti, rinchiusi in Questura. Anche un deputato del Parlamento, fermatosi ad aiutare un manifestante, fu quasi attaccato da una guardia, e non fu colpito solamente alla vista della medaglia di Parlamentare.

Il sindaco di Torino, il marchese Emanuele Luserna di Rorà (1815-1873, sindaco dal 1862 al 1865), mandò immediatamente una delegazione con l’intimazione di liberare i prigionieri, e così venne fatto. Già prima però la gente si era radunata davanti alla Questura, iniziando a tirare pietre raccolte dal selciato, che colpirono rovinandola ed abbatterono l’insegna reale al di sopra del portone della Questura stessa. I Consiglieri municipali, riuniti ad oltranza (unico precedente in Europa era stato quello della Comune di Parigi nel 1830), dichiararono che Torino era pronta al sacrificio solamente per Roma. Altre capitali potevano solo insultare ed offendere Torino. Con i voti contrari di Menabrea e di Balbo il Consiglio chiese di avere spiegazioni chiare dal Governo e di presentare le proteste della Città. Frattanto tuttavia il ministro Peruzzi[1] proibì la mobilitazione della Guardia Nazionale, mobilitando invece i Carabinieri, la Pubblica Sicurezza e l’esercito. In piazza Castello ed in piazza San Carlo gli allievi carabinieri erano sistemati in linea di tiro come per un addestramento. I cittadini gridavano per le strade del centro: «La Capitale a Roma! Abbasso il ministero! Viva Garibaldi» , ed anche: «Morte a Napoleone!». Un gruppo di ragazzi, preso un tamburo dal Teatro Balbo (che poi sarà abbattuto dalla R.A.F. in un bombardamento durante la II Guerra mondiale), marciava con un tricolore. In piazza Castello intanto una linea di carabinieri si allungava di traverso tra Palazzo Madama e via della Zecca (oggi Verdi) per far sì che questi ragazzi non arrivassero ai portoni di Palazzo Madama, sede del Governo.

Senza i regolamentari squilli di tromba o il rullare dei tamburi, i carabinieri imbracciarono le armi, mirando con calma ed esplodendo una scarica di fucileria di linea che lasciò immediatamente 12 morti a terra e tra i 30 ed i 40 feriti anche tra chi era seduto tranquillamente ad un tavolino del caffè Dilei (all’angolo tra via Po e piazza Castello) intento a leggere il giornale. A quel punto la gente, invece di scappare, si ritrovò disordinatamente in piazza Castello, i ragazzi senza riguardi offrivano il petto ai giovani carabinieri gridando: «Tira carogna, tira cappellone» (a causa della “lucerna”, l’ampio cappello nero che li distingueva). I carabinieri per nulla turbati stavano per ripetere il tiro, quando un personaggio distinto, ritenuto essere Lord Granville (George Leveson-Gower, 1815-1891, secondo conte di Granville, Ministro degli Esteri britannico), comandò con autorità di non sparare ancora su gente disarmata.

Intervenne a questo punto la Guardia Nazionale, un piccolo drappello per far tornare nelle caserme i carabinieri e così, solo per un nonnulla, non iniziò il primo scontro di una nuova guerra civile. Nel tornare in caserma i carabinieri si fecero strada con altre scariche di fucileria che  provocarono altri morti. Dal campo militare di San Maurizio Canavese giunsero, la mattina del 22 settembre, 20.000 uomini, ed altri 10.000 il giorno successivo. Vennero piazzate delle batterie d’artiglieria in piazza Milano ed in piazza d’Armi, con munizioni costituite da cartucce a mitraglia. Tutte le piazze erano occupate da soldati accampati. Batterie di mortai da assedio vennero collocate sul Monte dei Cappuccini per bombardare la città. Addirittura 150.000 cartucce furono prelevate dall’Arsenale e consegnate ai soldati. Il ministero degli Interni bloccò ogni comunicazione telegrafica con l’esterno, non prima però d’aver mandato in Lombardia la notizia che la rivolta di Torino avveniva per cause municipali e non nazionali.

La «Gazzetta del Popolo» e «L’Italia» pubblicavano ora inviti alla calma ed alla legalità, allo stesso modo dei proclami del Municipio. «Il Diritto» invocava la calma per evitare ritorsioni da parte delle autorità, la cattolica «Armonia» (finanziata dalla nobile famiglia Birago di Vische) chiedeva di ritrovare la tranquillità per il trionfo delle giuste aspirazioni.

La sera del 22, dopo il lavoro, i torinesi si radunarono in piazza San Carlo e i soldati di linea vennero sistemati lungo e sotto i portici, così che si sarebbero anche potuti colpire l’un con l’altro. Sul terzo lato, dove si trovava la Questura, altri soldati di linea, carabinieri all’interno della Questura e Guardie di Pubblica Sicurezza (appena sciolte dal Governo) mescolate tra la gente. Qualcuno tra i manifestanti era armato, ma davvero un’esigua minoranza.

La gente allora si incamminò verso la Questura, ma da una finestra di essa partì un colpo di pistola e si sentì il suono di una tromba. A quel punto un drappello di carabinieri uscì dalla Questura, si schierò in linea e aprì il fuoco sui civili, colpendo però anche la fanteria di linea sistemata tra i carabinieri e la gente; e così venne ferito il colonnello Colombino del 17° Fanteria di linea. Gli altri ufficiali, non capendo che il tiro arrivava dalle loro spalle, ordinarono la posizione di tiro contro le persone, facendo poi aprire il fuoco. Diversi colpi, oltre a colpire i civili, ferirono i soldati collocati sull’altro lato della piazza. Per 5 o 6 minuti ci fu una vera battaglia con circa un centinaio tra morti e feriti, anche tra i soldati stessi colpiti dal fuoco amico.

Il generale Brignone, col deputato Lanza, accorreva tra la gente ed i soldati chiedendo di cessare il massacro. Un capitano dei bersaglieri, pur colpito alla testa da una pietra, ordinò di non sparare; un altro capitano di fanteria si mise davanti ai fucili puntati della sua compagnia ostacolando così il fuoco sia contro i civili che contro gli altri soldati. La cavalleria si rifiutò di caricare la gente, ma diversi feriti vennero finiti a colpi di baionetta da alcuni agenti infiltrati. A mezzanotte la situazione precipitò nuovamente e la truppa aprì il fuoco contro alcune persone. A questo punto il sindaco fece chiudere i cancelli dell’armeria per evitare che la Guardia Nazionale vi prelevasse dei moschetti per lanciarsi contro l’esercito.

La mattina del 23 le officine produssero una gran quantità di armi bianche trasformando le lime in coltelli, e inoltre si predisposero dei centri d’azione. I decreti d’arresto per tutte le personalità torinesi, tra le quali G. B. Cassinis (1806-1866), presidente della Camera, e Federico Sclopis di Salerano (1798-1878), presidente del Senato, erano già pronti, così come il decreto di stato d’assedio che il governo stava per consegnare al generale ex-borbonico palermitano Giuseppe Pianell (1818-1892). Ma la gente, afflitta, smobilitò. Il Re attaccò il sindaco Luserna di Rorà, ma questi dichiarò: “Ebbene se lei è il Re, io sono il sindaco”.

Questa l’epigrafe al racconto dei fatti scritto da un cronista anonimo che si firmò «Marco Veneziano» e che pubblicò la sua cronaca al riparo in Svizzera, a Lugano, nello stesso 1864: «I Croati e i Cosacchi sono stati eguagliati a Torino nell’anno di grazia 1864, sotto gli auspici di Minghetti, di Peruzzi e di Spaventa, regnante Vittorio Emanuele II, preponderante in Italia il partito moderato».

L’Ispettore Sanitario della città di Torino, il dottor Giuseppe Rizzetti, testimone oculare degli scontri, scriveva dei morti e dei feriti il 28 settembre 1864, subito dopo il massacro dei cittadini del 21 e 22 dello stesso mese nelle piazze Castello e San Carlo. Il libretto, ormai dimenticato da anni, si trova, in Italia, solo in alcuni esemplari in poche biblioteche: a Cremona, Milano, Roma e un paio di copie a Torino. Ma grazie alla digitalizzazione della copia conservata all’Harvard College Library in Massachussets negli USA, tutti possono leggerla sul servizio librario del più importante motore di ricerca, insieme alla testimonianza di «Marco Veneziano»[2].

Il Rizzetti indirizza la sua relazione al sindaco di Torino. I morti, caduti sul terreno cittadino degli scontri o deceduti poco dopo in diversi ospedali, sono stati 188, di cui 6 donne, cifra comprensiva di morti e feriti. Non si trovano nel conto invece diversi feriti ricoverati in casa di privati cittadini.

Dalla descrizione delle ferite, Rizzetti scriveva che la direzione di esse era nel maggior numero dei casi dalla schiena verso il petto, cosa che prova, proprio come notava il cav. Borelli nei suoi malati, che questi poveretti erano stati colpiti nel momento in cui stavano fuggendo. Diverse altre persone invece con ferite in direzione dal petto alla schiena si sa che si trovavano molto lontane e che non si accorsero dei colpi improvvisi; altri poveri diavoli, da parte loro, si credevano al riparo sotto i portici di piazza Castello. Già sui primi caduti, malgrado le scariche di colpi di moschetto, si precipitarono medici e farmacisti del centro, ma gli stessi caffè, birrerie ed alberghi si trasformarono in luoghi di ricovero dei feriti prima del trasporto negli ospedali di San Maurizio, San Giovanni, Militare ed Oftalmico, accolti da professori medici, dottori e studenti di medicina, mentre a Palazzo Civico si prodigarono i chirurghi della 3a Legione della Guardia Nazionale e del 1° Battaglione della medesima. Quando Rizzetti giunse al Cimitero Generale, dove erano stati portati i cadaveri, vi trovò accampati 600 soldati, agli ordini di un maggiore che, autorizzato da un ufficiale di Polizia lì presente, gli diede il permesso di esaminare i cadaveri. Il bollettino dell’ispettore del 28 settembre riferisce di 42 morti e 123 feriti curati negli ospedali, ma alla data del 14 ottobre 1864 le vittime complessive erano 188, di cui 55 morti e 133 feriti[3]. Eppure, ancora solo qualche decennio orsono, nei libri di storia utilizzati nelle nostre scuole si poteva leggere che “Qualche tafferuglio di poca rilevanza scoppiò a Torino all’annuncio dello spostamento della capitale a Firenze…”

 

[1] Ubaldino Peruzzi de’ Medici (1822-1891), ministro dell’Interno del governo Minghetti (1863-1864).

[2] Un’altra indicazione bibliografica può essere: T. Rossi-F. Gabotto, Le giornate di settembre a Torino nel 1864 secondo vecchi e nuovi documenti; Casale Monf.to (Tip. Cooperativa Ballatore, Bosco & C.) 1915.

[3] Un’interessante testimonianza poetica di tali vicende è il componimento piemontese La sèira dij mòrt, scritto da Luigi Pietracqua (Voghera, 1832-Torino, 1901). Per una descrizione dell’ambiente piccolo-borghese della Torino del tempo fondamentale è il capolavoro teatrale di Vittorio Bersezio (Peveragno, 1828-Torino, 1900) Le miserie ’d monsù Travèt, del 1863.

 

 

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