La Divina Commedia con la nova espositione (1544) di Alessandro Vellutello (1473-?)
Quanto tra l’ultimar de l’ora terza
e ’l principio del dì par de la spera[1]
che sempre a guisa di fanciullo scherza,
tanto pareva già inver’ la sera
essere al sol del suo corso rimaso;
vespero là, e qui mezza notte era.
E i raggi ne ferien per mezzo ’l naso,
perché per noi girato era sì ’l monte,
che già dritti andavamo inver’ l’occaso,
quand’io senti’ a me gravar[2] la fronte
a lo splendore assai più che di prima,
e stupor m’eran le cose non conte;
ond’io levai le mani inver’ la cima
de le mie ciglia, e fecimi ’l solecchio[3],
che del soverchio visibile lima.
Come quando da l’acqua o da lo specchio
salta lo raggio a l’opposita parte,
salendo su per lo modo parecchio[4]
a quel che scende, e tanto si diparte
dal cader de la pietra in igual tratta,
sì come mostra esperienza e arte;
così mi parve da luce rifratta
quivi dinanzi a me esser percosso;
per che a fuggir la mia vista fu ratta.
«Che è quel, dolce padre, a che non posso
schermar lo viso tanto che mi vaglia»,
diss’io, «e pare inver’ noi esser mosso?».
«Non ti maravigliar s’ancor t’abbaglia
la famiglia del cielo», a me rispuose:
«messo[5] è che viene ad invitar ch’om saglia.
Tosto sarà ch’a veder queste cose
non ti fia grave, ma fieti diletto
quanto natura a sentir ti dispuose».
Poi giunti fummo a l’angel benedetto,
con lieta voce disse: «Intrate quinci
ad un scaleo vie men che li altri eretto».
Noi montavam, già partiti di linci[6],
e ‘Beati misericordes!’ fue
cantato retro, e ‘Godi tu che vinci!’.
Lo mio maestro e io soli amendue
suso andavamo; e io pensai, andando,
prode[7] acquistar ne le parole sue;
e dirizza’mi a lui sì dimandando:
«Che volse dir lo spirto di Romagna,
e ‘divieto’ e ‘consorte’ menzionando?».
Per ch’elli a me: «Di sua maggior magagna
conosce il danno; e però non s’ammiri[8]
se ne riprende perché men si piagna.
Perché s’appuntano i vostri disiri
dove per compagnia parte si scema,
invidia move il mantaco[9] a’ sospiri.
Ma se l’amor de la spera supprema
torcesse in suso il disiderio vostro,
non vi sarebbe al petto quella tema;
ché, per quanti si dice più lì ‘nostro’,
tanto possiede più di ben ciascuno,
e più di caritate arde in quel chiostro».
«Io son d’esser contento più digiuno»,
diss’io, «che se mi fosse pria taciuto,
e più di dubbio ne la mente aduno.
Com’esser puote ch’un ben, distributo
in più posseditor, faccia più ricchi
di sé, che se da pochi è posseduto?».
Ed elli a me: «Però che tu rificchi
la mente pur a le cose terrene,
di vera luce tenebre dispicchi.
Quello infinito e ineffabil bene
che là sù è, così corre ad amore
com’a lucido corpo raggio vene.
Tanto si dà quanto trova d’ardore;
sì che, quantunque carità si stende,
cresce sovr’essa l’etterno valore.
E quanta gente più là sù s’intende[10],
più v’è da bene amare, e più vi s’ama,
e come specchio l’uno a l’altro rende.
E se la mia ragion non ti disfama,
vedrai Beatrice, ed ella pienamente
ti torrà questa e ciascun’altra brama.
Procaccia pur che tosto sieno spente,
come son già le due, le cinque piaghe,
che si richiudon per esser dolente».
Com’io voleva dicer ‘Tu m’appaghe,
vidimi giunto in su l’altro girone,
sì che tacer mi fer le luci vaghe.
Ivi mi parve in una visione
estatica di sùbito esser tratto,
e vedere in un tempio più persone;
e una donna, in su l’entrar, con atto
dolce di madre dicer: «Figliuol mio
perché hai tu così verso noi fatto?
Ecco, dolenti, lo tuo padre e io
ti cercavamo». E come qui si tacque,
ciò che pareva prima, dispario[11].
Indi m’apparve un’altra con quell’acque
giù per le gote che ’l dolor distilla
quando di gran dispetto in altrui nacque,
e dir: «Se tu se’ sire de la villa
del cui nome ne’ dèi fu tanta lite,
e onde ogni scienza disfavilla,
vendica te di quelle braccia ardite
ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistràto».
E ’l segnor mi parea, benigno e mite,
risponder lei con viso temperato:
«Che farem noi a chi mal ne disira,
se quei che ci ama è per noi condannato?»,
Poi vidi genti accese in foco d’ira
con pietre un giovinetto ancider, forte
gridando a sé[12] pur: «Martira, martira!».
E lui vedea chinarsi, per la morte
che l’aggravava già, inver’ la terra,
ma de li occhi facea sempre al ciel porte,
orando a l’alto Sire, in tanta guerra,
che perdonasse a’ suoi persecutori,
con quello aspetto che pietà diserra.
Quando l’anima mia tornò di fori
a le cose che son fuor di lei vere,
io riconobbi i miei non falsi errori[13].
Lo duca mio, che mi potea vedere
far sì com’om che dal sonno si slega,
disse: «Che hai che non ti puoi tenere,
ma se’ venuto più che mezza lega
velando li occhi e con le gambe avvolte,
a guisa di cui vino o sonno piega?».
«O dolce padre mio, se tu m’ascolte,
io ti dirò», diss’io, «ciò che m’apparve
quando le gambe mi furon sì tolte».
Ed ei: «Se tu avessi cento larve[14]
sovra la faccia, non mi sarian chiuse
le tue cogitazion, quantunque parve[15].
Ciò che vedesti fu perché non scuse
d’aprir lo core a l’acque de la pace
che da l’etterno fonte son diffuse.
Non dimandai «Che hai?» per quel che face
chi guarda pur con l’occhio che non vede,
quando disanimato il corpo giace;
ma dimandai per darti forza al piede:
così frugar conviensi i pigri, lenti
ad usar lor vigilia quando riede».
Noi andavam per lo vespero, attenti
oltre quanto potean li occhi allungarsi
contra i raggi serotini e lucenti.
Ed ecco a poco a poco un fummo farsi
verso di noi come la notte oscuro;
né da quello era loco da cansarsi.
Questo ne tolse li occhi e l’aere puro.
[1] Notiamo la figura retorica detta «hústeron prȯteron» (letteralmente «successivo precedente»), che si presenta quando si definisce “prima” qualcosa che normalmente avviene “dopo”. In questo caso si definisce prima «l’ora terza» e poi «’l principio del dì».
[2] Qui «gravare» (lett. «appesantire») indica il fatto che lo sfolgorio del sole obbliga ad abbassare, o addirittura a chiudere, gli occhi.
[3] Dal diminutivo tardo latino soliculus (lett. «solicello»): questo termine indica il gesto di ripararsi gli occhi dal sole con la mano.
[4] Presente anche nella forma «pareglio», vale, come il francese pareil ed il provenzale parelh (< lat. par ei o par illi), «pari, simile»: tale forma è ancora presente (parèj) in vari dialetti settentrionali.
[5] Si tratta di un angelo, traducendo nella sua forma latina (missus) il significato letterale del termine greco ánghelos («ambasciatore»).
[6] Forma che, costruita per analogia con «quinci, costinci», vale «di lì».
[7] Dal verbo latino prodesse («giovare»), significa «vantaggio, giovamento». Come termine tecnico bancario, vale «interesse» su di un capitale.
[8] Verbo riflessivo intransitivo con valore impersonale: «ci si meravigli».
[9] Forma arcaica per «mantice», già presente in Guittone d’Arezzo.
[10] Se si accetta la lezione a testo («s’intende»; cfr. prov. s’entendre, «amarsi»; cfr. anche, in vari dialetti settentrionali, forme come «parlarsi, discorrere» per «essere fidanzati, amarsi»), questa vale «si ama»; altrimenti, si può accettare la lezione «s’incende», attestata da altri codici e dalla traduzione latina di fra Giovanni di Serravalle.
[11] Passato remoto ossitono, cioè con accento sull’ultima sillaba («disparì») con epitesi toscana (-ìo). Da notare inoltre il rapporto temporale tra imperfetto («pareva») e passato remoto («disparìo»): il primo indica la durata dell’azione, mentre il secondo l’azione momentanea o puntuale.
[12] Vale «l’un l’altro, tra loro, a vicenda».
[13] Ossimoro, cioè l’accostamento di due termini tra loro contrari («non falsi/errori»): se sono “errori” dovrebbero forzatamente essere “falsi”. In realtà qui Dante sottolinea come gli «errori» siano in effetti «azioni che si svolgono nell’anima del poeta», senza una loro reale esistenza oggettiva, donde non sono falsi, ma per il soggetto (cioè Dante) reali, ancorché non concretamente riscontrabili da altri.
[14] Latinismo (larvae) che, dal significato concreto (come nel testo) di «maschere», passa poi a quello metaforico di «fantasie, fantasmi».
[15] Verso tutto contesto di latinismi: «cogitazion» (< cogitationes, «pensieri, riflessioni») e «parve» (< parvae, «piccole»).