Sandro Botticelli (1445 – 1510), Purgatorio XXVIII (1481 – 1495), punta d’argento, inchiostro e penna su pergamena, Berlino, Kupferstichkabinett
Vago già di cercar dentro e dintorno
la divina foresta spessa e viva,
ch’a li occhi temperava il novo giorno,
sanza più aspettar, lasciai la riva,
prendendo la campagna lento lento
su per lo suol che d’ogne parte auliva[1].
Un’aura dolce, sanza mutamento
avere in sé, mi feria per la fronte
non di più colpo che soave vento;
per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ombra gitta il santo monte;
non però dal loro esser dritto sparte
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d’operare ogne lor arte;
ma con piena letizia l’ore[2] prime,
cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone[3] a le sue rime,
tal qual di ramo in ramo si raccoglie
per la pineta in su ’l lito di Chiassi,
quand’Eolo scilocco[4] fuor discioglie[5].
Già m’avean trasportato i lenti passi
dentro a la selva antica tanto, ch’io
non potea rivedere ond’io mi ’ntrassi;
ed ecco più andar mi tolse un rio,
che ’nver’ sinistra con sue picciole onde
piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo.
Tutte l’acque che son di qua più monde,
parrieno avere in sé mistura alcuna,
verso di quella, che nulla nasconde,
avvegna che si mova bruna bruna
sotto l’ombra perpetua, che mai
raggiar non lascia sole ivi né luna.
Coi piè ristretti e con li occhi passai
di là dal fiumicello, per mirare
la gran variazion d’i freschi mai[6];
e là m’apparve, sì com’elli appare
subitamente cosa che disvia
per maraviglia tutto altro pensare,
una donna soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond’era pinta tutta la sua via.
«Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore
ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti
che soglion esser testimon del core,
vegnati in voglia di trarreti avanti»,
diss’io a lei, «verso questa rivera,
tanto ch’io possa intender che tu canti.
Tu mi fai rimembrar dove e qual era
Proserpina nel tempo che perdette
la madre lei, ed ella primavera[7]».
Come si volge, con le piante strette
a terra e intra sé, donna che balli,
e piede innanzi piede a pena mette,
volsesi in su i vermigli e in su i gialli
fioretti verso me, non altrimenti
che vergine che li occhi onesti avvalli[8];
e fece i prieghi miei esser contenti,
sì appressando sé, che ’l dolce suono
veniva a me co’ suoi intendimenti.
Tosto che fu là dove l’erbe sono
bagnate già da l’onde del bel fiume,
di levar li occhi suoi mi fece dono.
Non credo che splendesse tanto lume
sotto le ciglia a Venere, trafitta
dal figlio fuor di tutto suo costume.
Ella ridea da l’altra riva dritta,
trattando più color con le sue mani,
che l’alta terra sanza seme gitta.
Tre passi ci facea il fiume lontani;
ma Elesponto, là ’ve passò Serse,
ancora freno a tutti orgogli umani,
più odio da Leandro non sofferse
per mareggiare intra Sesto e Abido,
che quel da me perch’allor non s’aperse.
«Voi siete nuovi, e forse perch’io rido»,
cominciò ella, «in questo luogo eletto
a l’umana natura per suo nido,
maravigliando tienvi alcun sospetto;
ma luce rende il salmo Delectasti,
che puote disnebbiar vostro intelletto.
E tu che se’ dinanzi e mi pregasti,
dì s’altro vuoli udir; ch’i’ venni presta
ad ogne tua question tanto che basti».
«L’acqua», diss’io, «e ’l suon de la foresta
impugnan dentro a me novella fede
di cosa ch’io udi’ contraria a questa».
Ond’ella: «Io dicerò come procede
per sua cagion ciò ch’ammirar ti face,
e purgherò la nebbia che ti fiede[9].
Lo sommo Ben, che solo esso a sé piace,
fé l’uom buono e a bene, e questo loco
diede per arr’a lui d’etterna pace.
Per sua difalta[10] qui dimorò poco;
per sua difalta in pianto e in affanno
cambiò onesto riso e dolce gioco.
Perché ’l turbar che sotto da sé fanno
l’essalazion de l’acqua e de la terra,
che quanto posson dietro al calor vanno,
a l’uomo non facesse alcuna guerra,
questo monte salìo verso ’l ciel tanto,
e libero n’è d’indi ove si serra.
Or perché in circuito tutto quanto
l’aere si volge con la prima volta,
se non li è rotto il cerchio d’alcun canto,
in questa altezza ch’è tutta disciolta
ne l’aere vivo, tal moto percuote,
e fa sonar la selva perch’è folta;
e la percossa pianta tanto puote,
che de la sua virtute l’aura impregna,
e quella poi, girando, intorno scuote;
e l’altra terra, secondo ch’è degna
per sé e per suo ciel, concepe e figlia
di diverse virtù diverse legna.
Non parrebbe di là poi maraviglia,
udito questo, quando alcuna pianta
sanza seme palese vi s’appiglia.
E saper dei che la campagna santa
dove tu se’, d’ogne semenza è piena,
e frutto ha in sé che di là non si schianta.
L’acqua che vedi non surge di vena
che ristori vapor che gel converta,
come fiume ch’acquista e perde lena;
ma esce di fontana salda e certa,
che tanto dal voler di Dio riprende,
quant’ella versa da due parti aperta.
Da questa parte con virtù discende
che toglie altrui memoria del peccato;
da l’altra d’ogne ben fatto la rende.
Quinci Letè; così da l’altro lato
Eunoè[11] si chiama, e non adopra
se quinci e quindi pria non è gustato:
a tutti altri sapori esto è di sopra.
E avvegna ch’assai possa esser sazia
la sete tua perch’io più non ti scuopra,
darotti un corollario ancor per grazia;
né credo che ’l mio dir ti sia men caro,
se oltre promession teco si spazia.
Quelli ch’anticamente poetaro
l’età de l’oro e suo stato felice,
forse in Parnaso esto loco sognaro.
Qui fu innocente l’umana radice;
qui primavera sempre e ogne frutto;
nettare è questo di che ciascun dice».
Io mi rivolsi ‘n dietro allora tutto
a’ miei poeti, e vidi che con riso
udito avean l’ultimo costrutto;
poi a la bella donna torna’ il viso.
[1] Latinismo dotto dal verbo oleo. -ére («profumare»; cfr. italiano «olezzo, olezzante»), con pseudoripristino ipercaratterizzante del dittongo au-, procedendo quindi in linea contraria rispetto ai casi di au– > o- (es. aurum > oro).
[2] Contrariamente a quanto credono alcuni commentatori, per i quali il termine vale «aure» (cioè «soffi di vento»), qui esso è semplicemente il plurale di «ora», valendo quindi i «primi momenti del giorno»: sembra infatti più logico che gli uccelli accolgano cantando i primi attimi della giornata che non i primi soffi di vento.
[3] Concretamente il «bordone» è una sorta di accompagnamento musicale, monotono e continuo, ottenuto pizzicando una corda aggiuntiva (detta appunto «corda di bordone») della viola medievale (la «viella»). Nella lingua moderna esso mantiene esclusivamente il valore traslato («tener bordone») di «essere complice, appoggiare un’altra persona» (in genere, ma tuttavia non solo, in situazioni poco chiare e poco limpide).
[4] Tale forma è più vicina all’etimo, dall’arabo magrebino shuluq («vento di mezzogiorno»). La forma più comune Scirocco è dovuta invece all’influsso del genovese.
[5] Il verbo «disciogliere» è un chiaro riferimento all’immagine mitologica di Eolo, dio dei venti, che egli teneva chiusi in una grotta, per liberarli (scioglierli, appunto) quando voleva che essi soffiassero.
[6] Il termine «maio» (plurale «mai») o «maiella» indicava un albero con molti e vistosi fiori a grappolo, ma veniva anche usato come sinonimo di «maggio», cioè il ramo ornato di fiori che si piantava o si portava in processione nelle feste campestri del «Calendimaggio» (Primo di Maggio < Kalendae Majae), simboleggianti la rinascita della campagna, e della vita, col ritorno della primavera.
[7] Il termine «primavera» non ha qui – quasi certamente – il suo valore più comune di stagione dell’anno, ma indica, in modo più specifico, il mazzo di fiori che, raccolto da Proserpina, al momento del ratto (secondo il mito narrato da Ovidio) ad opera di Plutone, essa perdette per la violenza dell’azione del dio.
[8] Traslato metonimico in cui l’azione generale e da tutti riconosciuta (lo scendere a valle di un fiume) viene presa a metafora dell’azione di una singola persona che abbassa («avvalla») gli occhi.
[9] La nebbia che ti colpisce, dal verbo «fedire» («colpire»): l’immagine della nebbia ad indicare l’ignoranza riprende la metafora espressa dal precedente verbo «disnebbiare» (probabile creazione dantesca).
[10] Francesismo da defalte («errore»; cfr. moderno faute), a sua volta dal latino de-fallere («ingannare»).
[11] Dante, che pure non conosceva il greco se non per pochi vocaboli che trovava negli autori latini (sia classici che cristiani) dà a questo fiume di sua creazione un nome di origine appunto greca: Eunoè, da eu/ευ («bene») e nous/νους («mente»), significa appunto «che dà la disposizione d’animo a ricordare il bene» e la sua funzione era successiva, e complementare, a quella del Lete, la cui acqua faceva dimenticare (léthe/λήθη, «oblio») il male commesso. Dei due, come già detto, solo il secondo è ricavato dalle fonti classiche (specie Virgilio, che ne parla nel vi dell’Eneide), mentre il primo è creazione dantesca.