Il Maestro di color che sanno… Purgatorio XXVII

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Gustave Doré (1832 – 1883), La Divina Commedia: Purgatorio – Il fuoco della VII Cornice (1861)

 

Sì come quando i primi raggi vibra

là dove il suo fattor lo sangue sparse,

cadendo Ibero[1] sotto l’alta Libra,

 

e l’onde in Gange da nona riarse,

sì stava il sole; onde ’l giorno sen giva,

come l’angel di Dio lieto ci apparse.

 

Fuor de la fiamma stava in su la riva,

e cantava ‘Beati mundo corde!’.

in voce assai più che la nostra viva.

 

Poscia «Più non si va, se pria non morde,

anime sante, il foco: intrate in esso,

e al cantar di là non siate sorde»,

 

ci disse come noi li fummo presso;

per ch’io divenni tal, quando lo ’ntesi,

qual è colui che ne la fossa[2] è messo.

 

In su le man commesse mi protesi,

guardando il foco e imaginando forte[3]

umani corpi già veduti accesi[4].

 

Volsersi verso me le buone scorte;

e Virgilio mi disse: «Figliuol mio,

qui può esser tormento, ma non morte.

 

Ricorditi[5], ricorditi! E se io

sovresso Gerion ti guidai salvo,

che farò ora presso più a Dio?

 

Credi per certo che se dentro a l’alvo[6]

di questa fiamma stessi ben mille anni,

non ti potrebbe far d’un capel calvo.

 

E se tu forse credi ch’io t’inganni,

fatti ver lei, e fatti far credenza[7]

con le tue mani al lembo d’i tuoi panni.

 

Pon giù omai, pon giù ogni temenza[8];

volgiti in qua e vieni: entra sicuro!».

E io pur fermo e contra coscienza.

 

Quando mi vide star pur fermo e duro,

turbato un poco disse: «Or vedi, figlio:

tra Beatrice e te è questo muro».

 

Come al nome di Tisbe aperse il ciglio

Piramo in su la morte, e riguardolla,

allor che ’l gelso diventò vermiglio;

 

così, la mia durezza fatta solla[9],

mi volsi al savio duca, udendo il nome

che ne la mente sempre mi rampolla[10].

 

Ond’ei crollò la fronte e disse: «Come!

volenci star di qua?»; indi sorrise

come al fanciul si fa ch’è vinto al pome.

 

Poi dentro al foco innanzi mi si mise,

pregando Stazio che venisse retro,

che pria per lunga strada ci divise.

 

Sì com’ fui dentro, in un bogliente vetro

gittato mi sarei per rinfrescarmi[11],

tant’era ivi lo ’ncendio sanza metro[12].

 

Lo dolce padre mio, per confortarmi,

pur di Beatrice ragionando andava,

dicendo: «Li occhi suoi già veder parmi».

 

Guidavaci una voce che cantava

di là; e noi, attenti pur a lei,

venimmo fuor là ove si montava.

 

‘Venite, benedicti Patris mei’,

sonò dentro a un lume che lì era,

tal che mi vinse e guardar nol potei.

 

«Lo sol sen va», soggiunse, «e vien la sera;

non v’arrestate, ma studiate[13] il passo,

mentre che[14] l’occidente non si annera».

 

Dritta salia la via per entro ’l sasso

verso tal parte ch’io toglieva i raggi

dinanzi a me del sol ch’era già basso.

 

E di pochi scaglion levammo i saggi[15],

che ’l sol corcar, per l’ombra che si spense,

sentimmo dietro e io e li miei saggi.

 

E pria che ’n tutte le sue parti immense

fosse orizzonte fatto d’uno aspetto,

e notte avesse tutte sue dispense,

 

ciascun di noi d’un grado fece letto;

ché la natura del monte ci affranse

la possa del salir più e ’l diletto.

 

Quali si stanno ruminando manse

le capre, state rapide e proterve

sovra le cime avante che sien pranse[16],

 

tacite a l’ombra, mentre che ’l sol ferve,

guardate dal pastor, che ’n su la verga

poggiato s’è e lor di posa serve;

 

e quale il mandrian che fori alberga,

lungo il pecuglio[17] suo queto pernotta,

guardando perché fiera non lo sperga;

 

tali eravamo tutti e tre allotta,

io come capra, ed ei come pastori,

fasciati quinci e quindi d’alta grotta.

 

Poco parer potea lì del di fori;

ma, per quel poco, vedea io le stelle

di lor solere[18] e più chiare e maggiori.

 

Sì ruminando[19] e sì mirando in quelle,

mi prese il sonno; il sonno che sovente,

anzi che ’l fatto sia, sa le novelle.

 

Ne l’ora, credo, che de l’oriente,

prima raggiò nel monte Citerea,

che di foco d’amor par sempre ardente,

 

giovane e bella in sogno mi parea

donna vedere andar per una landa

cogliendo fiori; e cantando dicea:

 

«Sappia qualunque il mio nome dimanda

ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno

le belle mani a farmi una ghirlanda.

 

Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno;

ma mia suora Rachel mai non si smaga[20]

dal suo miraglio[21], e siede tutto giorno.

 

Ell’è d’i suoi belli occhi veder vaga

com’io de l’addornarmi con le mani;

lei lo vedere, e me l’ovrare appaga».

 

E già per li splendori antelucani,

che tanto a’ pellegrin surgon più grati,

quanto, tornando, albergan men lontani,

 

le tenebre fuggian da tutti lati,

e ’l sonno mio con esse; ond’io leva’mi[22],

veggendo i gran maestri già levati.

 

«Quel dolce pome che per tanti rami

cercando va la cura de’ mortali,

oggi porrà in pace le tue fami».

 

Virgilio inverso me queste cotali

parole usò; e mai non furo strenne[23]

che fosser di piacere a queste iguali.

 

Tanto voler sopra voler mi venne

de l’esser sù, ch’ad ogne passo poi

al volo mi sentia crescer le penne.

 

Come la scala tutta sotto noi

fu corsa e fummo in su ’l grado superno,

in me ficcò Virgilio li occhi suoi,

 

e disse: «Il temporal foco e l’etterno

veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte

dov’io per me più oltre non discerno.

 

Tratto t’ho qui con ingegno e con arte[24];

lo tuo piacere omai prendi per duce;

fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte[25].

 

Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce;

vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli

che qui la terra sol da sé produce.

 

Mentre che vegnan lieti li occhi belli

che, lagrimando, a te venir mi fenno,

seder ti puoi e puoi andar tra elli.

 

Non aspettar mio dir più né mio cenno;

libero, dritto e sano è tuo arbitrio,

e fallo fora non fare a suo senno:

 

per ch’io te sovra te corono e mitrio[26]».

 

 

[1] La formula vale un ablativo assoluto latino, in cui il verbo («cadendo») indica non tanto «scorrere» (Ibero è infatti il fiume Ebro) quanto «trovarsi esattamente».

[2] Può voler significare «chi è sotterrato perché morto» oppure «chi subisce la pena (riservata agli assassini) della propagginazione», cioè essere sepolto vivo (cfr. Inf. c. xix: i Papi simoniaci). Quindi pallido o come un cadavere o per la paura della pena terribile.

[3] Come anche in altri casi, l’aggettivo ha qui valore di avverbio («fortemente»).

[4] Col valore tecnico-specifico di «arsi vivi»: si sta parlando, infatti, dei condannati al rogo.

[5] Diversamente dalla forma di 2a persona singolare («ricordati»), qui «ricorditi» è forma impersonale («ti si ricordi»).

[6] Letteralmente «alvo» (< latino alvus) significa «ventre», ma qui assume il valore traslato di «nel centro, in mezzo».

[7] La formula «farsi far credenza» significava «far fare la prova» dei cibi per assicurarsi che non fossero avvelenati (servendosi in genere di animali domestici): qui vale dunque, più genericamente, «fatti dare una prova».

[8] È gallicismo, col significato di «timore», dal provenzale temensa.

[9] Ancora una forma riecheggiante la costruzione latina dell’ablativo assoluto, in cui «durezza» vale «cocciutaggine, testardaggine», mentre «solla» significa «cedevole, molle».

[10] Due i possibili valori del verbo: o da «polla» (cioè «sorgente»), col significato di «sgorga come da una polla», o da «pollone» («germoglio»), e quindi «germoglia, rifiorisce». Il significato nel complesso è comunque molto simile, volendo intendere che «il nome (di Beatrice) gli si affaccia sempre in mente».

[11] Figura retorica dell’iperbole: il poeta dice che tale è il calore del fuoco che egli si sarebbe gettato, per trovare refrigerio, nel vetro bollente.

[12] Grecismo dotto per «misura».

[13] Col valore, abbastanza comune nell’italiano trecentesco, di «affrettate».

[14] Col valore di «fintanto che» (lat. dum).

[15] «Levare i saggi» è formula tecnica del tempo indicante l’azione di staccare dei pezzetti di minerale per saggiarlo; vale quindi «saggiare, provare, analizzare». Il termine «saggi» è poi in rima equivoca con «saggi» (del verso successivo) col significato di «poeti». Tale rima equivoca è ammessa poiché diverso è l’etimo dei due termini: il primo viene infatti dal latino tardo exagium (< verbo exigo, -ere, «pesare, esaminare»), valendo quindi «prova, esperimento», mentre il secondo, sempre dal tardo latino, è però dall’aggettivo sostantivato sapius (lat. class. sapiens), col significato di «sapiente, dotto».

[16] Latinismo dotto (< pransae, dal verbo prandeo, -ére), col valore di «pasciute, sazie».

[17] Dal latino peculium («gregge» e poi, per estensione, «proprietà» e poi ancora «gruzzolo») vede in italiano la palatalizzazione (elemento popolare) del nesso –lj– (come in famiglia, figlia,< familia, filia), mentre l’aggettivo corrispondente («peculiare», ma anche «familiare» e «filiale») mantiene la forma dotta latineggiante.

[18] Forma di infinito sostantivato: vale «del loro solito, di quanto fossero solite».

[19] Questa metafora, abbastanza comune per indicare il «riflettere continuamente tra sé e sé», qui è anche voluta per continuare la similitudine, precedente, delle capre.

[20] Termine già visto nell’opera dantesca, col valore di «si stanca», dal tardo latino ex-magare, a sua volta dal germanico magen.

[21] «Specchio», dal provenzale miralh.

[22] Forma che presenta il fenomeno, abbastanza comune nel poema, della caduta della sillaba finale davanti a pronome personale atono (<«levaimi», cioè «mi levai»).

[23] Già gli antichi romani chiamavano strenna un dono fatto a parenti e amici durante le feste dei Saturnali. Poi, per metonimia, il termine passò ad indicare (come in questo caso) «augurio, buona notizia».

[24] I due termini, pur molto vicini nel significato, non sono tuttavia sinonimi, in quanto «ingegno» indica gli strumenti che la ragione sa trovare, mentre «arte» indica il metodo per applicare tali strumenti. Alcuni commentatori li intendono invece con la figura retorica dell’endiadi (un solo concetto espresso con due termini: hen dià duoin/εν διά δυοιν), cioè «con accorgimenti razionali».

[25] Come già abbiamo visto, dal latino artae, vale «strette»: in rima equivoca con «arte» del verso precedente. È presente inoltre una paronomasia con «erte».

[26] Caso di dittologia sinonimica, cioè l’uso di due termini, tra loro sinonimi, per rafforzare un solo concetto. In questo caso: «ti incorono con una corona» e «ti incorono con una mitra», un diadema di ambiente laico, il primo, ed ecclesiastico, il secondo.

 

 

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