Il Maestro di color che sanno… Purgatorio XXIX

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Amos Nattini (1892-1985), Divina Commedia (1912-1941), olio su tela

 

Cantando come donna innamorata,

continuò[1] col fin di sue parole:

‘Beati quorum tecta sunt peccata!’.

 

E come ninfe che si givan sole

per le salvatiche[2] ombre, disiando

qual di veder, qual di fuggir lo sole,

 

allor si mosse contra ’l fiume, andando

su per la riva; e io pari di lei,

picciol passo con picciol seguitando.

 

Non eran cento tra ’ suoi passi e ’ miei,

quando le ripe igualmente dier volta,

per modo ch’a levante mi rendei.

 

Né ancor fu così nostra via molta,

quando la donna tutta a me si torse,

dicendo: «Frate mio, guarda e ascolta».

 

Ed ecco un lustro sùbito trascorse

da tutte parti per la gran foresta,

tal che di balenar mi mise in forse.

 

Ma perché ’l balenar, come vien, resta,

e quel, durando, più e più splendeva,

nel mio pensier dicea: ‘Che cosa è questa?’.

 

E una melodia dolce correva

per l’aere luminoso; onde buon zelo

mi fé riprender[3] l’ardimento d’Eva,

 

che là dove ubidia la terra e ’l cielo,

femmina, sola e pur testé formata,

non sofferse di star sotto alcun velo[4];

 

sotto ’l qual se divota fosse stata,

avrei quelle ineffabili delizie

sentite prima e più lunga fiata.

 

Mentr’io m’andava tra tante primizie

de l’etterno piacer tutto sospeso,

e disioso ancora a più letizie,

 

dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,

ci si fé l’aere sotto i verdi rami;

e ’l dolce suon per canti era già inteso.

 

O sacrosante Vergini, se fami,

freddi o vigilie mai per voi soffersi,

cagion mi sprona ch’io mercé[5] vi chiami.

 

Or convien che Elicona per me versi[6],

e Uranìe[7] m’aiuti col suo coro

forti cose a pensar mettere in versi.

 

Poco più oltre, sette alberi d’oro

falsava nel parere il lungo tratto

del mezzo[8] ch’era ancor tra noi e loro;

 

ma quand’i’ fui sì presso di lor fatto,

che l’obietto comun, che ’l senso inganna,

non perdea per distanza alcun suo atto,

 

la virtù ch’a ragion discorso ammanna,

sì com’elli eran candelabri[9] apprese,

e ne le voci del cantare ‘Osanna’[10].

 

Di sopra fiammeggiava il bello arnese[11]

più chiaro assai che luna per sereno

di mezza notte nel suo mezzo mese.

 

Io mi rivolsi d’ammirazion pieno

al buon Virgilio, ed esso mi rispuose

con vista carca di stupor non meno.

 

Indi rendei l’aspetto a l’alte cose

che si movieno incontr’a noi sì tardi,

che foran vinte da novelle spose.

 

La donna mi sgridò: «Perché pur ardi

sì ne l’affetto[12] de le vive luci,

e ciò che vien di retro a lor non guardi?».

 

Genti vid’io allor, come a lor duci,

venire appresso, vestite di bianco;

e tal candor di qua già mai non fuci[13].

 

L’acqua imprendëa[14] dal sinistro fianco,

e rendea me la mia sinistra costa,

s’io riguardava in lei, come specchio anco.

 

Quand’io da la mia riva ebbi tal posta,

che solo il fiume mi facea distante,

per veder meglio ai passi diedi sosta,

 

e vidi le fiammelle andar davante,

lasciando dietro a sé l’aere dipinto,

e di tratti pennelli avean embiante;

 

sì che lì sopra rimanea distinto

di sette liste, tutte in quei colori

onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto.

 

Questi ostendali[15] in dietro eran maggiori

che la mia vista; e, quanto a mio avviso,

diece passi distavan quei di fori.

 

Sotto così bel ciel com’io diviso[16],

ventiquattro seniori[17], a due a due,

coronati venien di fiordaliso[18].

 

Tutti cantavan: «Benedicta tue[19]

ne le figlie d’Adamo, e benedette

sieno in etterno le bellezze tue!».

 

Poscia che i fiori e l’altre fresche erbette

a rimpetto di me da l’altra sponda

libere fuor da quelle genti elette,

 

sì come luce luce in ciel seconda,

vennero appresso lor quattro animali,

coronati ciascun di verde fronda.

 

Ognuno era pennuto di sei ali;

le penne piene d’occhi; e li occhi d’Argo[20],

se fosser vivi, sarebber cotali.

 

A descriver lor forme più non spargo

rime, lettor; ch’altra spesa mi strigne,

tanto ch’a questa non posso esser largo;

 

ma leggi Ezechiel, che li dipigne

come li vide da la fredda parte

venir con vento e con nube e con igne[21];

 

e quali i troverai ne le sue carte,

tali eran quivi, salvo ch’a le penne

Giovanni è meco e da lui si diparte.

 

Lo spazio dentro a lor quattro contenne

un carro, in su due rote, triunfale,

ch’al collo d’un grifon tirato venne.

 

Esso tendeva in sù l’una e l’altra ale

tra la mezzana e le tre e tre liste,

sì ch’a nulla, fendendo, facea male.

 

Tanto salivan che non eran viste;

le membra d’oro avea quant’era uccello,

e bianche l’altre, di vermiglio miste.

 

Non che Roma di carro così bello

rallegrasse Affricano, o vero Augusto,

ma quel del Sol saria pover con ello;

 

quel del Sol che, sviando, fu combusto

per l’orazion de la Terra devota,

quando fu Giove arcanamente giusto.

 

Tre donne in giro da la destra rota

venian danzando; l’una tanto rossa

ch’a pena fora dentro al foco nota;

 

l’altr’era come se le carni e l’ossa

fossero state di smeraldo fatte;

la terza parea neve testé mossa;

 

e or parean da la bianca tratte,

or da la rossa; e dal canto di questa[22]

l’altre toglien l’andare e tarde e ratte.

 

Da la sinistra quattro facean festa,

in porpore vestite, dietro al modo

d’una di lor ch’avea tre occhi in testa.

 

Appresso tutto il pertrattato nodo

vidi due vecchi in abito dispari[23],

ma pari in atto e onesto e sodo.

 

L’un si mostrava alcun de’ famigliari

di quel sommo Ipocràte che natura

a li animali fé ch’ell’ha più cari[24];

 

mostrava l’altro la contraria cura

con una spada lucida e aguta,

tal che di qua dal rio mi fé paura.

 

Poi vidi quattro in umile paruta;

e di retro da tutti un vecchio solo

venir, dormendo, con la faccia arguta[25].

 

E questi sette col primaio stuolo

erano abituati, ma di gigli

dintorno al capo non facean brolo[26],

 

anzi di rose e d’altri fior vermigli;

giurato avria poco lontano aspetto

che tutti ardesser di sopra da’ cigli.

 

E quando il carro a me fu a rimpetto,

un tuon s’udì, e quelle genti degne

parvero aver l’andar più interdetto,

 

fermandosi ivi con le prime insegne.

 

 

[1] Non col suo valore odierno, ma con quello, consueto nell’italiano medievale, di «congiungere», cioè – in questo caso – «unire parole ad altre parole».

[2] Nel suo valore etimologico di «relativo al bosco» (< latino silva, «bosco»).

[3] Col valore, presente ancora oggi nel verbo, di «biasimare, rimproverare», in questo caso l’ardimento, cioè, con valore negativo, la tracotanza, e quindi il peccato, di Eva, che – seguendo San Tommaso – viene da Dante considerata, più che non Adamo, la vera colpevole della cacciata dall’Eden.

[4] La metafora del velo può riferirsi o all’ignoranza (forma traslata usata ancora oggi: il «velo dell’ignoranza» o ancora verbi come «svelare» o «rivelare») oppure all’obbedienza, utilizzando l’immagine traslata del velo monacale, simbolo di obbedienza. Delle due la prima, tuttavia, ha maggiori probabilità di essere quella più corretta.

[5] Più che non «chiedere pietà», il valore più corretto nel contesto è quello di «chiedere un premio» (< latino mercedem, col valore di «guadagno»).

[6] La metafora, con metonimia, è dovuta all’accenno precedente alle due fonti (Aganippe ed Ippocrene) sgorganti dall’Elicona, per cui lo scrivere poesia è paragonato ad uno sgorgare di acqua da queste due sorgenti, che si trovavano appunto sul monte delle Muse. Il verbo «versi», inoltre, è in rima equivoca col sostantivo successivo «versi» (v. 42).

[7] Riferimento specifico alla musa dell’astronomia (Urania < Ouranós/Ουρανός, «cielo»), dovendo il poeta trattare argomenti relativi appunto al cielo, anche se poi abbiamo l’accenno alle altre muse («col suo coro»). Ricordiamo, tuttavia, che l’assegnazione a ciascuna delle nove Muse della protezione di una sezione specifica della cultura risale all’età Ellenistica (post iv a. C.), mentre nell’età greca classica tale “specializzazione” non era presente, ma tutt’e nove le dee erano guida e protettrici delle arti, delle scienze e della cultura.

[8] «Mezzo» è l’aria, cioè ciò che si trova tra il soggetto percipiente e l’oggetto percepito.

[9] Il termine «candelabro» (< lat. candelabrum) indica l’attrezzo che, paragonabile appunto (come in questo testo) ad un albero con vari rami, sorregge più di una candela, mentre il termine «candelliere» (cfr. francese chandellier, prov. candelier), da Dante usato in altri passi della Commedia, indica quello che ne reggeva solamente una.

[10] Termine consueto del latino cristiano, presente sia in testi sacri che liturgici, forgiato sull’ebraico hoshi ah-nna («deh, salva»).

[11] Nell’italiano antico «arnese» valeva «un insieme di oggetti dalle stesse caratteristiche o formanti un tutt’uno»; solo più tardi passò a significare più semplicemente anche un singolo strumento.

[12] La lezione «affetto» è più pregnante, valendo «desiderio», che non quella proposta da altri editori, cioè «aspetto», che vale semplicemente «vista, visione». È più viva infatti l’impressione di Dante che si perde nella bellezza (e quindi nell’ammirazione) dello spettacolo della prima parte della processione piuttosto che si fermi semplicemente a guardarla.

[13] Forma enclitica per «ci fu».

[14] Col significato di «si accendeva, splendeva», è voce tipicamente settentrionale, che i commentatori ritengono originale del poeta (che, come abbiamo visto, non era digiuno di termini al tempo detti “lombardi”, cioè genericamente settentrionali) e non, come succede in altri casi, correzione-adattamento, da parte di qualche copista settentrionale, di termini troppo “toscani”. Al contrario, in alcuni mss. per questo passo, abbiamo correzioni, da parte di copisti toscani, di «imprendea» in «splendea».

[15] Col significato di «stendardi», ma da etimo più latineggiante (< stendalium). La forma «ostendali» presenta o la concrezione (cioè la fusione) dell’articolo (< o stendale) oppure per incrocio col verbo «ostendere» («mostrare»).

[16] Gallicismo dal verbo francese antico deviser (a sua volta dal latino divisare), col significato di «dire narrando».

[17] Dal comparativo latino seniorem (< agg. senex, «vecchio», da cui anche senator), col valore di comparativo assoluto («alquanto anziano»), da cui proviene l’italiano «signore», in cui il gruppo -gn- deriva dal gruppo formato da nasale e dalla semi-consonante (-nj-), così come famiglia da familja.

[18] Francesismo per «giglio» (< fleur de lis, «fiore del giglio»).

[19] Pronome personale di 2a persona singolare con epitesi (-e), in rima equivoca col successivo «tue» (pronome possessivo).

[20] Mi si permetta, a questo punto, una digressione, tra il serio ed il faceto, che nasce dall’esperienza personale di circa quarant’anni trascorsi nella scuola superiore in compagnia di colleghi ora degni di tal nome e di stima ora invece (e purtroppo) «più degni di galle/ che d’altro cibo fatto in uman uso» (Pg xiv, vv. 43sg). L’Argo presente in questo verso condivide l’amara sorte dell’eretico Giovanni Calvino e del pittore-scrittore Carlo Levi (altri esempi potrebbero essere citati, ma per ora mi limito a questi). Nelle deliranti spiegazioni di alcuni colleghi, infatti, Argo qui era ovviamente il cane di Ulisse, così come Giovanni Calvino scrisse «Il barone rampante» e infine, davanti ad un autoritratto di Carlo Levi, l’artista fu ricordato come l’autore sia di «Se questo è un uomo» (sic) che di «Cristo si è fermato ad Eboli».

[21] Tutto il passo, con la sua intonazione “profetico-scritturale”, abbonda di latinismi dotti: igne (< ignis, fuoco»), ale (v. 109), plurale latineggiante (< alae) per il più consueto «ali», combusto (v. 118), < comburo, -ere («bruciare»), pertrattato (v. 133), in cui la preposizione per- indica, all’uso latino, un’azione condotta fino in fondo («descritto completamente»), sodo (v. 135), «tutto d’un pezzo» (< solidus), abitüati (v. 146), dal verbo latino habituare («vestire», detto soprattutto di chi vestiva l’abito ecclesiastico).

[22] È l’immagine simbolica della virtù teologale della Carità che, secondo l’insegnamento paolino di i Cor. xiii, 13, è la maggiore delle tre virtù.

[23] Da leggersi «dispàri» (con pronuncia piana, e non sdrucciola) sia per motivi di rima con «famigliari» sia (e soprattutto) per rispettare il suo valore etimologico da dis-par («diverso, differente»).

[24] Terzina costituita in summa da due figure retoriche della perifrasi: una indicante i medici, i famigliari (cioè i discepoli, poiché famiglia è intesa, latinamente, come cerchia di persone vicine ed amiche) di Ippocrate, iniziatore secondo la tradizione dell’arte medica; l’altra gli uomini, cioè gli animali (gli essere viventi) che la natura ha più cari.

[25] Il termine «arguta, riferita al volto della figura che simboleggia il libro dell’Apocalissi, ha il valore di «espressiva, sagace», probabilmente ad indicare il valore profetico del libro stesso.

[26] Lombardismo tipico dell’italiano dell’età di mezzo per indicare «giardino» (qui però per metonimia «corona di fiori»), da cui anche il termine «broletto», cioè il palazzo comunale di varie città lombarde, detto così in quanto costruito inizialmente sullo spazio di un giardino.

 

 

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