Ritratto medioevale di Manfredi di Sicilia (1232-1266)
Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove ragion ne fruga[1],
i’ mi ristrinsi a la fida compagna:
e come sare’ io sanza lui corso?
chi m’avria tratto su per la montagna?
El mi parea da sé stesso rimorso:
o dignitosa coscienza e netta,
come t’è picciol fallo amaro morso!
Quando li piedi suoi lasciar la fretta,
che l’onestade ad ogn’atto dismaga[2],
la mente mia, che prima era ristretta,
lo ’ntento rallargò, sì come vaga,
e diedi ’l viso mio incontr’al poggio
che ’nverso ’l ciel più alto si dislaga[3].
Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio[4],
rotto m’era dinanzi a la figura,
ch’avea in me de’ suoi raggi l’appoggio.
Io mi volsi dallato con paura
d’essere abbandonato, quand’io vidi
solo dinanzi a me la terra oscura;
e ’l mio conforto: «Perché pur[5] diffidi?»,
a dir mi cominciò tutto rivolto;
«non credi tu me teco e ch’io ti[6] guidi?
Vespero è già colà dov’è sepolto
lo corpo dentro al quale io facea ombra:
Napoli l’ha, e da Brandizio[7] è tolto.
Ora, se innanzi a me nulla s’aombra,
non ti maravigliar più che d’i cieli
che l’uno a l’altro raggio non ingombra.
A sofferir tormenti, caldi e geli
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.
Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer[8] la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente, al quia[9];
ché se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;
e disiar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch’etternalmente è dato lor per lutto:
io dico d’Aristotile e di Plato
e di molt’altri»; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato.
Noi divenimmo intanto a piè del monte;
quivi trovammo la roccia sì erta,
che ’ndarno vi sarien le gambe pronte.
Tra Lerice e Turbìa la più diserta,
la più rotta ruina[10] è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.
«Or chi sa da qual man la costa cala»,
disse ’l maestro mio fermando ’l passo,
«sì che possa salir chi va sanz’ala?».
E mentre ch’e’ tenendo ’l viso basso
essaminava[11] del cammin la mente,
e io mirava suso intorno al sasso,
da man sinistra m’apparì una gente
d’anime, che movieno i piè ver’ noi,
e non pareva, sì venian lente.
«Leva», diss’io, «maestro, li occhi tuoi:
ecco di qua chi ne darà consiglio,
se tu da te medesmo aver nol puoi».
Guardò allora, e con libero piglio
rispuose: «Andiamo in là, ch’ei vegnon piano;
e tu ferma la spene, dolce figlio».
Ancora era quel popol di lontano,
i’ dico dopo i nostri mille passi,
quanto un buon gittator trarria con mano,
quando si strinser tutti ai duri massi
de l’alta ripa, e stetter fermi e stretti
com’a guardar, chi va dubbiando[12], stassi.
«O ben finiti, o già spiriti eletti»,
Virgilio incominciò, «per quella pace
ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti,
ditene dove la montagna giace
sì che possibil sia l’andare in suso;
ché perder tempo a chi più sa più spiace».
Come le pecorelle escon del chiuso
a una, a due, a tre, e l’altre stanno
timidette atterrando l’occhio e ’l muso;
e ciò che fa la prima, e[13] l’altre fanno,
addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
semplici e quete, e lo ’mperché non sanno;
sì vid’io muovere a venir la testa
di quella mandra fortunata allotta,
pudica in faccia e ne l’andare onesta[14].
Come color dinanzi vider rotta
la luce in terra dal mio destro canto,
sì che l’ombra era da me a la grotta,
restaro, e trasser sé in dietro alquanto,
e tutti li altri che venieno appresso,
non sappiendo ’l perché, fenno altrettanto.
«Sanza vostra domanda io vi confesso[15]
che questo è corpo uman che voi vedete;
per che ’l lume del sole in terra è fesso.
Non vi maravigliate, ma credete
che non sanza virtù che da ciel vegna
cerchi di soverchiar[16] questa parete».
Così ’l maestro; e quella gente degna
«Tornate», disse, «intrate innanzi dunque»,
coi dossi de le man faccendo insegna.
E un di loro incominciò: «Chiunque
tu se’, così andando[17], volgi ’l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque».
Io mi volsi ver lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile[18] aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.
Quand’io mi fui umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
e mostrommi una piaga a sommo ’l petto.
Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi,
vadi[19] a mia bella figlia, genitrice
de l’onor[20] di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.
Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.
Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per[21] Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,
l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co[22] del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora[23].
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior[24] del verde.
Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzion, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto s’avanza».
[1] Verbo comunemente usato da Dante col valore di “tormenta, punisce”.
[2] Dal tardo latino de-exmagare (dal germanico magan, “aver forza”), vale “togliere le forze” o, come qui,“il decoro”.
[3] “Che si alza verso il cielo uscendo dalle acque” (ricordiamo che il monte del Purgatorio sorge su di un’isola). Il verbo “dislagare” (letteralmente “uscire dalle acque di un lago”) è di conio dantesco.
[4] Gallicismo (< rouge) per indicare “rosso”.
[5] Come frequentemente in Dante, dà valore continuativo-durativo al verbo: “continui a diffidare”.
[6] Esempio di doppio poliptoto, cioè la stessa parola usata però in casi differenti (ptosis, in greco vale “caso” della declinazione):” te… teco… ti” e “me… io”.
[7] È esito francesizzante (al posto dell’italiano Brindisi) dal latino Brundisium.
[8] Qui col valore transitivo di “percorrere fino in fondo”.
[9] Termine latino (quia = che, cong.) usato nella filosofia scolastica per indicare un dato certo con una proposizione di tipo assertivo: “dico che (dico quia) una cosa è certa, ma non indago il ‘perché’”. Tale è la convinzione di Dante (e di tutta la filosofia scolastica) di fronte ai misteri della Fede: si può dire che la Trinità, proprio perché un mistero, “è”, ma non “come” o “perché” essa è tale.
[10] In Dante vale normalmente “fianco ripido”, di collina o di montagna. Nell’uso moderno abbiamo infatti il verbo “rovinare” nel senso di “rotolare/precipitare a terra”, come di chi cada da un’erta scoscesa.
[11] Esito consueto, nel fiorentino medievale, della preposizione latina ex– nei verbi composti (ex-aminare > essaminare).
[12] Col valore intensivo di “dubitare con timore”.
[13] Col valore intensivo (“anche”) della congiunzione latina et (= etiam).
[14] Con il consueto valore di “dignitoso, serio, grave” (lat. honestus < honos, cioè “degno di onore”).
[15] Col valore del latino confiteor, cioè “dichiarare apertamente”. Da questo verbo viene il sostantivo “Confessore”, riferito ad un Santo, cioè “colui che manifesta/dichiara apertamente la sua Fede”.
[16] “Superare, oltrepassare” (lett. “passare sopra la parte superiore”, cioè “la cima”).
[17] Gerundio con valore temporale-continuativo (cfr. part. pres. lat. iens): “mentre continui ad andare”, cioè “guardami senza fermarti”.
[18] “Nobile”, dal latino gens (“famiglia nobile”).
[19] Come il “dichi” successivo è la forma arcaico-toscana della 2a persona sing. del congiuntivo presente per evitare confusione con la prima e la terza persona (che io vada/che tu vadi/che egli vada).
[20] Non con valore elogiativo, ma semplicemente con quello di “dinastia”.
[21] Equivale al francese par, con valore di agente (“da parte di”).
[22] Dal latino caput (“testa”), vale “a capo/all’estremità del ponte”. Tale termine è ancora di uso comune nel piemontese moderno: an cò = “sulla punta/cima/estremità”.
[23] Termine di etimo incerto. Il suo valore qui è quello di “mucchio di pietre”, forse dal latino volgare mu(r)ra (< sostrato pre-i.e. *mor-/mur-, da cui forse anche il termine di ambito geologico “morena”), che in realtà valeva “pilastro, pilone”, ma che nella lingua popolare del contado fiorentino – secondo gli studi di M. Barbi – valeva “mucchio”, specie di pietre.
[24] Nell’italiano antico ha il valore aggettivale di “un po’, alquanto”.