Il Maestro di color che sanno… Purgatorio, canto II

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Incontro con le anime pententi (1861) di Paul Gustave Louis Christophe Doré (1832-1883)

 

Già era ’l sole a l’orizzonte giunto

lo cui meridian cerchio coverchia

Ierusalèm col suo più alto punto;

 

e la notte, che opposita a lui cerchia,

uscia di Gange fuor con le Bilance,

che le caggion di man quando soverchia;

 

sì che le bianche e le vermiglie guance,

là dov’i’ era, de la bella Aurora

per troppa etate divenivan rance[1].

 

Noi eravam lunghesso[2] mare ancora,

come gente che pensa a suo cammino,

che va col cuore e col corpo dimora.

 

Ed ecco, qual, sorpreso[3] dal mattino,

per li grossi vapor Marte rosseggia

giù nel ponente sovra ’l suol marino,

 

cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,

un lume per lo mar venir sì ratto,

che ’l muover suo nessun volar pareggia.

 

Dal qual com’io un poco ebbi ritratto

l’occhio per domandar lo duca mio[4],

rividil più lucente e maggior fatto.

 

Poi d’ogne lato ad esso m’appario[5]

un non sapeva che bianco, e di sotto

a poco a poco un altro a lui uscio.

 

Lo mio maestro ancor non facea[6] motto,

mentre che[7] i primi bianchi apparver ali;

allor che ben conobbe il galeotto[8],

 

gridò: «Fa, fa che[9] le ginocchia cali.

Ecco l’angel[10] di Dio: piega le mani;

omai vedrai di sì fatti officiali[11].

 

Vedi che sdegna li argomenti umani,

sì che remo non vuol, né altro velo[12]

che l’ali sue, tra liti sì lontani.

 

Vedi come l’ha dritte verso ’l cielo,

trattando[13] l’aere con l’etterne penne,

che non si mutan come mortal pelo».

 

Poi, come più e più verso noi venne

l’uccel divino, più chiaro appariva:

per che l’occhio da presso nol sostenne,

 

ma chinail giuso; e quei sen venne a riva

con un vasello snelletto e leggero,

tanto che l’acqua nulla ne ’nghiottiva.

 

Da poppa stava il celestial nocchiero,

tal che faria beato pur descripto;

e più di cento spirti entro sediero[14].

 

“In exitu Israel de Aegypto”

cantavan tutti insieme ad una voce

con quanto di quel salmo è poscia scripto.

 

Poi fece il segno lor di santa croce;

ond’ei si gittar tutti in su la piaggia;

ed el sen gì, come venne, veloce.

 

La turba che rimase lì, selvaggia[15]

parea del loco, rimirando intorno

come colui che nove cose assaggia.

 

Da tutte parti saettava il giorno

lo sol, ch’avea con le saette conte

di mezzo ’l ciel cacciato Capricorno,

 

quando la nova gente alzò la fronte

ver’ noi, dicendo a noi: «Se voi sapete,

mostratene la via di gire al monte».

 

E Virgilio rispuose: «Voi credete

forse che siamo esperti d’esto loco;

ma noi siam peregrin come voi siete.

 

Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco,

per altra via, che fu sì aspra e forte,

che lo salire omai ne parrà gioco».

 

L’anime, che si fuor di me accorte,

per lo spirare, ch’i’ era ancor vivo,

maravigliando diventaro smorte.

 

E come a messagger che porta ulivo

tragge la gente per udir novelle,

e di calcar nessun si mostra schivo,

 

così al viso mio s’affisar quelle

anime fortunate tutte quante,

quasi obliando d’ire a farsi belle.

 

Io vidi una di lor trarresi avante

per abbracciarmi con sì grande affetto,

che mosse me a far lo somigliante.

 

Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!

tre volte dietro a lei le mani avvinsi[16],

e tante mi tornai con esse al petto.

 

Di maraviglia, credo, mi dipinsi;

per che l’ombra sorrise e si ritrasse,

e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.

 

Soavemente disse ch’io posasse;

allor conobbi chi era, e pregai

che, per parlarmi, un poco s’arrestasse.

 

Rispuosemi: «Così com’io t’amai

nel mortal corpo, così t’amo sciolta:

però m’arresto; ma tu perché vai?».

 

«Casella mio, per tornar altra volta

là dov’io son, fo io questo viaggio»,

diss’io; «ma a te com’è tanta ora tolta?».

 

Ed elli a me: «Nessun m’è fatto oltraggio,

se quei che leva quando e cui li piace,

più volte m’ha negato esto passaggio;

 

ché di giusto voler lo suo si face:

veramente[17] da tre mesi elli ha tolto

chi ha voluto intrar, con tutta pace.

 

Ond’io, ch’era ora a la marina vòlto

dove l’acqua di Tevero s’insala,

benignamente fu’ da lui ricolto.

 

A quella foce ha elli or dritta l’ala,

però che sempre quivi si ricoglie

qual verso Acheronte non si cala».

 

E io: «Se nuova legge non ti toglie

memoria o uso a l’amoroso canto

che mi solea quetar tutte mie doglie,

 

di ciò ti piaccia consolare alquanto

l’anima mia, che, con la sua persona

venendo qui, è affannata tanto!».

 

“Amor che ne la mente mi ragiona”

cominciò elli allor sì dolcemente,

che la dolcezza ancor dentro mi suona.

 

Lo mio maestro e io e quella gente

ch’eran[18] con lui parevan sì contenti,

come a nessun toccasse altro la mente.

 

Noi eravam tutti fissi e attenti

a le sue note; ed ecco il veglio onesto

gridando[19]: «Che è ciò, spiriti lenti?

 

qual negligenza, quale stare[20] è questo?

Correte al monte a spogliarvi lo scoglio[21]

ch’esser non lascia a voi Dio manifesto».

 

Come quando, cogliendo biado o loglio,

li colombi adunati a la pastura,

queti, sanza mostrar l’usato orgoglio,

 

se cosa appare ond’elli abbian paura,

subitamente lasciano star l’esca,

perch’assaliti son da maggior cura;

 

così vid’io quella masnada[22] fresca

lasciar lo canto, e fuggir ver’ la costa,

com’om che va, né sa dove riesca:

 

né la nostra partita fu men tosta.

 

 

[1] La personificazione dell’Aurora si estende anche ai vari colori con cui appaiono le sue guance, cioè (metaforicamente) il cambiamento di colore del cielo mano a mano che l’ora avanza: da bianche e vermiglie a gialle (“rance”, cioè arancioni), per la luce del sole che si fa più forte.

[2] Forma prepositiva arcaica: vale “lungo, presso”.

[3] Col valore, consueto in Dante, di “velare, offuscare”. La lezione “sorpreso”, oltre che sull’usus scribendi dantesco, è preferibile anche perché difficilior rispetto a “sul presso del mattino”, lezione testimoniata da alcuni codici.

[4] Rara costruzione latineggiante di “domandare” con l’accusativo della persona (lat. poscere aliquem).

[5] Perfetto con epitesi in -o (da “apparì”, come infra “uscìo” da “uscì”).

[6] L’imperfetto “facea” è preferito all’alia lectio “fece” (omogeneo agli altri perfetti) perché indica l’azione durativa: “continuava a tacere”.

[7] Come il latino dum con valore di “finché”.

[8] Vale “nocchiero”, etimologicamente è il marinaio che serve su di una galea.

[9] Equivale al latino fac ut (+ cong.), forma di imperativo attenuato o esortativo.

[10] Usato nel suo valore etimologico di “messaggero” (< greco ánghelos).

[11] Nel suo valore etimologico di “colui che ha ricevuto un compito (officium) da svolgere”, cioè “incaricato”.

[12] Uso latineggiante del singolare (velum) al posto del più regolare “vela”, in realtà originato dal neutro plurale vela (sempre da velum).

[13] Col valore più di “penetrando” che non con quello, normalmente inteso, di “agitando”, anche perché le ali dell’angelo sono ferme e diritte.

[14] Nonostante un aspetto simile ad un perfetto (desinenza -ero) è in realtà un imperfetto: “sedevano”.

[15] Col valore traslato di “inesperta, ignara”.

[16] Chiaro ricordo di Virgilio, Eneide VI, v. 700sg., dove si narra dell’incontro tra Enea e l’ombra della madre.

[17] Col valore del latino verum, nel senso avversativo di “tuttavia”.

[18] Concordanza plurale a senso col singolare “gente”.

[19] Gerundio col valore participiale di “colui che grida”.

[20] Infinito con il valore sostantivale di “indugio, fermata”.

[21] Forma secondaria di “scoglia”, dal latino spolia nel significato di “scorza, scaglia”; da non confondere, ovviamente, con scoglio (< lat. scopulum), cioè “roccia marina”.

[22] Provenzalismo da maisnada (< lat. mansionata < mansio, “casa”), letteralmente “schiera dei servi di casa” e poi semplicemente “schiera”, senza il valore negativo attuale.

 

 

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