Gian Giacomo Macchiavelli (1756 – 1811), La Divina Commedia di Dante alighieri, San Tommaso d’Aquino, 1821, tavola di rame
O insensata cura[1] de’ mortali,
quanto son difettivi silogismi[2]
quei che ti fanno in basso batter l’ali!
Chi[3] dietro a iura, e chi ad amforismi[4]
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi rubare, e chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
s’affaticava e chi si dava a l’ozio,
quando, da tutte queste cose sciolto,
con Beatrice m’era suso in cielo
cotanto gloriosamente accolto.
Poi che ciascuno fu tornato ne lo[5]
punto del cerchio in che avanti s’era,
fermossi, come a candellier candelo.
E io senti’ dentro a quella lumera
che pria m’avea parlato, sorridendo
incominciar, faccendosi più mera:
«Così com’io del suo raggio resplendo,
sì, riguardando ne la luce etterna,
li tuoi pensieri onde cagioni apprendo.
Tu dubbi[6], e hai voler che si ricerna[7]
in sì aperta e ’n sì distesa lingua
lo dicer mio, ch’al tuo sentir si sterna,
ove dinanzi dissi «U’ ben s’impingua»,
e là u’ dissi «Non nacque[8] il secondo»;
e qui è uopo che ben si distingua.
La provedenza, che governa il mondo
con quel consiglio nel quale ogne aspetto[9]
creato è vinto pria che vada al fondo,
però che andasse ver’ lo suo diletto
la sposa di colui ch’ad alte grida
disposò lei col sangue benedetto,
in sé sicura e anche a lui più fida,
due principi[10] ordinò in suo favore,
che quinci e quindi le fosser per guida.
L’un fu tutto serafico in ardore;
l’altro per sapienza in terra fue
di cherubica luce uno splendore.
De l’un dirò, però che d’amendue
si dice l’un pregiando, qual ch’om[11] prende,
perch’ad un fine fur l’opere sue.
Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile[12] costa d’alto monte pende,
onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.
Di questa costa, là dov’ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo tal volta di Gange.
Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi[13], ché direbbe corto,
ma Oriente, se proprio dir vuole.
Non era ancor molto lontan da l’orto[14],
ch’el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto;
ché per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse[15], a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra[16];
e dinanzi a la sua spirital corte
et coram patre le si fece unito;
poscia di dì in dì l’amò più forte.
Questa, privata del primo marito,
millecent’anni e più dispetta e scura
fino a costui si stette sanza invito;
né valse udir che la trovò sicura
con Amiclate, al suon de la sua voce,
colui ch’a tutto ’l mondo fé paura;
né valse esser costante né feroce,
sì che, dove Maria rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce.
Ma perch’io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso.
La lor concordia e i lor lieti sembianti,
amore e maraviglia e dolce sguardo
facieno esser cagion di pensier santi;
tanto che ’l venerabile Bernardo
si scalzò prima, e dietro a tanta pace
corse e, correndo, li parve esser tardo.
Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!
Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro
dietro a lo sposo, sì la sposa piace.
Indi sen va quel padre e quel maestro
con la sua donna e con quella famiglia
che già legava l’umile capestro[17].
Né li gravò viltà di cuor le ciglia
per esser fi’[18] di Pietro Bernardone,
né per parer dispetto a maraviglia;
ma regalmente sua dura intenzione
ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe
primo sigillo a sua religione.
Poi che la gente poverella crebbe
dietro a costui, la cui mirabil vita
meglio in gloria del ciel si canterebbe,
di seconda corona redimita[19]
fu per Onorio da l’Etterno Spiro
la santa voglia d’esto archimandrita.
E poi che, per la sete del martiro,
ne la presenza del Soldan superba
predicò Cristo e li altri che ’l seguiro,
e per trovare a conversione acerba
troppo la gente e per non stare indarno,
redissi al frutto de l’italica erba,
nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.
Quando a colui ch’a tanto ben sortillo
piacque di trarlo suso a la mercede[20]
ch’el meritò nel suo farsi pusillo,
a’ frati suoi, sì com’a giuste rede[21],
raccomandò la donna sua più cara,
e comandò che l’amassero a fede;
e del suo grembo l’anima preclara[22]
mover si volle, tornando al suo regno,
e al suo corpo non volle altra bara.
Pensa oramai qual fu colui che degno
collega fu a mantener la barca[23]
di Pietro in alto mar per dritto segno;
e questo fu il nostro patriarca;
per che qual segue lui, com’el comanda,
discerner puoi che buone merce[24] carca.
Ma ’l suo pecuglio di nova vivanda
è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote
che per diversi salti[25] non si spanda;
e quanto le sue pecore remote
e vagabunde più da esso vanno,
più tornano a l’ovil di latte vòte.
Ben son di quelle che temono ’l danno
e stringonsi al pastor; ma son sì poche,
che le cappe fornisce poco panno.
Or, se le mie parole non son fioche,
se la tua audienza è stata attenta,
se ciò ch’è detto a la mente revoche,
in parte fia la tua voglia contenta,
perché vedrai la pianta onde si scheggia,
e vedra’ il corrègger che argomenta
«U’ ben s’impingua, se non si vaneggia»
[1] Latinismo dotto (cura, «affanno, preoccupazione»), dovuto forse anche alla reminiscenza di un passo di Persio (Sat. i, v. 1): O curas hominum! O quantum est in rebus inane!, il cui significato è molto vicino ai concetti espressi qui da Dante («O affanni umani! O quanto c’è di vano nelle occupazioni»).
[2] Grafia, con consonante scempia (cioè non raddoppiata), abbastanza comune al tempo, anche se in contrasto con l’etimo del vocabolo (< lat. syllogismum < greco syllogismón, composto dalla preposizione syn + logismón, con assimilazione consonantica).
[3] L’anafora (= ripetizione) del pronome chi segnala l’elenco delle varie (e vane) occupazioni umane, sull’esempio di Orazio (ode i, 1 e satira i, 1), secondo lo schema retorico detto priamel (cioè elenco).
[4] Iura è, come latinismo dotto, plurale neutro e si riferisce ai due rami del diritto (canonico e civile), mentre amforismi (rectius aforismi) rimanda agli studi di medicina, sulla scorta del titolo dell’opera di Ippocrate (Aforismi, in lat. Sententiae).
[5] Esempio di rima “composta”, tipica di Guittone d’Arezzo, consistente in due monosillabi da leggersi come parola unica, dato che la metrica italiana (e latina) vieta la presenza di monosillabo in fondo al verso.
[6] Forma denominale (< sost. dubbio) del verbo dubbiare, al tempo altrettanto usuale che la forma dubitare (< lat. dubito).
[7] Latinismo dotto (< recernere, «distinguere») che, come il successivo sterna (> sternere, «distendere» e quindi metaforicamente «chiarire») , sono voluti dal tono retoricamente elevato del passo.
[8] Questa la lezione della maggior parte dei mss. a questo passo, anche se differente dallo stesso verso presente al canto precedente, in cui si ha «surse».
[9] Dal latino aspectus (< aspicere, «guardare, osservare»), vale «sguardo, vista», in questo caso dell’intelletto.
[10] Ancora un latinismo dotto, < principes, «capi, guide» (e non principi).
[11] Espressione impersonale (quale che si prenda), in cui om (cfr. franc. on) sta per uomo, con valore appunto generico.
[12] Così come il successivo ferace, sono due latinismi (entrambi dalla radice del verbo fero, «portare, produrre») probabilmente introdotti nell’uso da Dante stesso, poiché non ci sono attestazioni a lui precedenti.
[13] Forma più comune un tempo in area umbro-toscana, della quale Dante dà una paretimologia (cioè un’etimologia non corretta, basata sul suono più che sulla storia linguistica), collegando Ascesi al verbo ascendere (cioè salire; cfr. anche ascesa, ascensione, ascensore), mentre in realtà il termine ascesi deriva dal greco áskesis (< verbo askéo, che significa «esercitarsi, faticare»).
[14] Latinismo dotto (ortus, da non confondere con hortus, «giardino») dal verbo orior («sorgere, nascere»), detto in particolare degli astri.
[15] L’immagine del paladino che combatte per una donna (qui, metaforicamente, la povertà) è ricavata dalla tradizione epica dei poemi in langue d’oïl.
[16] Il prefisso negativo di(s)- indica che il verbo assume valore contrario rispetto alla sua forma semplice: serra (chiude), diserra (apre).
[17] Il capestro è, letteralmente, la corda robusta con cui si legavano gli animali, e quindi qui vale semplicemente «corda»; successivamente acquisirà il valore specifico di corda per impiccare e quindi, per metonimia, quello di forca, impiccagione.
[18] Forma con apocope per figlio, comune nei dialetti toscani arcaici.
[19] La solennità del passo è sottolineata dall’uso di forme dotte e retoricamente elevate quali il latinismo redimita (coronata) ed il grecismo archimandrita (lett. «capo di un gregge»), tipico del linguaggio ecclesiastico, per indicare «pastore, capo di una comunità religiosa».
[20] Oltre al latinismo dotto (mercede, cioè premio), è da notare anche la figura retorica dell’omoarcto (uguale inizio) tra mercede e meritò.
[21] Rede è plurale femminile da reda, di uso comune al tempo di Dante.
[22] Latinismo dotto e hapax (cioè vocabolo usato una sola volta da Dante, e non solo nella Commedia, ma anche nelle altre opere in volgare), formato col prefisso pre- (lat. prae-) indicante il grado superlativo.
[23] Metafora consueta della barca e della nsvigazione per indicare lo stato, anche se qui è usata per la Chiesa.
[24] Merce è qui il plurale di mercia (sinonimo di merce, plur. merci): pertanto la lezione buona merce, riportata da alcuni mss., è da ritenersi errata in quanto lectio facilior.
[25] Espressione tipica del linguaggio oratorio, ricalcata sul latino diversi saltus, cioè pascoli posti in luoghi lontani dalle vie consuete (< disvertere, «allontanarsi, uscire dalla strada consueta»).