Il Maestro di color che sanno… Paradiso VIII

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Giovanni Paolo Lasinio (1796 circa – 1855), Rossi Giuseppe (1820 – 1899), John Flaxman (6 luglio 1755 – 7 dicembre 1826), Dante e Beatrice conversano con Carlo Martello nel cielo di Venere, acquaforte, 1807, libro Composizioni dell’inferno, purgatorio e paradiso, Londra (sec. XVIII, sec. XIX).

 

Solea creder lo mondo in suo periclo[1]

che la bella Ciprigna[2] il folle amore[3]

raggiasse, volta nel terzo epiciclo;

 

per che non pur a lei faceano onore

di sacrificio e di votivo grido

le genti antiche ne l’antico errore;

 

ma Dione onoravano e Cupido,

quella per madre sua, questo per figlio,

e dicean ch’el sedette in grembo a Dido;

 

e da costei ond’io principio piglio

pigliavano il vocabol de la stella

che ’l sol vagheggia or da coppa or da ciglio[4].

 

Io non m’accorsi del salire in ella[5];

ma d’esservi entro mi fé assai fede

la donna mia ch’i’ vidi far più bella.

 

E come in fiamma favilla si vede,

e come in voce voce si discerne,

quand’una è ferma e altra va e riede,

 

vid’io in essa[6] luce altre lucerne

muoversi in giro più e men correnti,

al modo, credo, di lor viste interne[7].

 

Di fredda nube non disceser venti,

o visibili o no, tanto festini,

che non paressero impediti e lenti

 

a chi avesse quei lumi divini

veduti a noi venir, lasciando il giro

pria cominciato in li alti Serafini;

 

e dentro a quei che più innanzi appariro

sonava ‘Osanna’ sì, che unque poi

di riudir non fui sanza disiro.

 

Indi si fece l’un più presso a noi

e solo incominciò: «Tutti sem presti

al tuo piacer, perché di noi ti gioi[8].

 

Noi ci volgiam coi principi celesti

d’un giro e d’un girare e d’una sete,

ai quali tu del[9] mondo già dicesti:

 

‘Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete’[10];

e sem sì pien d’amor, che, per piacerti,

non fia men dolce un poco di quiete».

 

Poscia che li occhi miei si fuoro offerti

a la mia donna reverenti, ed essa

fatti li avea di sé contenti e certi,

 

rivolsersi a la luce che promessa

tanto s’avea[11], e «Deh, chi siete?» fue

la voce mia di grande affetto impressa.

 

E quanta e quale vid’io lei far piùe

per allegrezza nova che s’accrebbe,

quando parlai, a l’allegrezze sue!

 

Così fatta, mi disse: «Il mondo m’ebbe

giù poco tempo; e se più fosse stato,

molto sarà di mal, che non sarebbe.

 

La mia letizia mi ti tien celato

che mi raggia dintorno e mi nasconde

quasi animal di sua seta fasciato.

 

Assai m’amasti, e avesti ben onde;

che s’io fossi giù stato, io ti mostrava

di mio amor più oltre che le fronde[12].

 

Quella sinistra riva che si lava

di Rodano poi ch’è misto con Sorga[13],

per suo segnore a tempo m’aspettava,

 

e quel corno d’Ausonia[14] che s’imborga[15]

di Bari e di Gaeta e di Catona

da ove Tronto e Verde in mare sgorga[16].

 

Fulgeami già in fronte la corona

di quella terra che ’l Danubio riga

poi che le ripe tedesche abbandona.

 

E la bella Trinacria[17], che caliga

tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo

che riceve da Euro maggior briga,

 

non per Tifeo ma per nascente solfo,

attesi avrebbe li suoi regi ancora,

nati per me di Carlo e di Ridolfo,

 

se mala segnoria, che sempre accora

li popoli suggetti, non avesse

mosso Palermo a gridar: «Mora, mora!»[18].

 

E se mio frate questo antivedesse,

l’avara povertà di Catalogna[19]

già fuggeria, perché non li offendesse;

 

ché veramente proveder bisogna

per lui, o per altrui, sì ch’a sua barca[20]

carcata più d’incarco non si pogna.

 

La sua natura, che di larga parca

discese, avria mestier di tal milizia

che non curasse di mettere in arca».

 

«Però ch’i’ credo che l’alta letizia

che ’l tuo parlar m’infonde, segnor mio,

là ’ve ogne ben si termina e s’inizia,

 

per te si veggia come la vegg’io,

grata m’è più; e anco quest’ho caro

perché ’l discerni rimirando in Dio.

 

Fatto m’hai lieto, e così mi fa chiaro,

poi che, parlando[21], a dubitar m’hai mosso

com’esser può, di dolce seme, amaro[22]».

 

Questo io a lui; ed elli a me: «S’io posso

mostrarti un vero, a quel che tu dimandi

terrai lo viso come tien lo dosso.

 

Lo ben che tutto il regno che tu scandi

volge e contenta, fa esser virtute

sua provedenza in questi corpi grandi.

 

E non pur le nature provedute

sono in la mente ch’è da sé perfetta,

ma esse insieme con la lor salute[23]:

 

per che quantunque quest’arco saetta

disposto cade a proveduto fine,

sì come cosa[24] in suo segno diretta.

 

Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine[25]

producerebbe[26] sì li suoi effetti,

che non sarebbero arti, ma ruine[27];

 

e ciò esser non può, se li ’ntelletti

che muovon queste stelle non son manchi,

e manco il primo, che non li ha perfetti[28].

 

Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?».

E io: «Non già; ché impossibil veggio

che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi».

 

Ond’elli ancora: «Or di’: sarebbe il peggio[29]

per l’omo in terra, se non fosse cive?[30]».

«Sì», rispuos’io; «e qui ragion non cheggio».

 

«E puot’elli esser, se giù non si vive

diversamente per diversi offici?

Non, se ’l maestro vostro ben vi scrive».

 

Sì venne deducendo[31] infino a quici[32];

poscia conchiuse: «Dunque esser diverse

convien di vostri effetti le radici:

 

per ch’un nasce Solone[33] e altro Serse,

altro Melchisedèch e altro quello

che, volando per l’aere, il figlio perse.

 

La circular natura, ch’è suggello

a la cera mortal, fa ben sua arte,

ma non distingue l’un da l’altro ostello.

 

Quinci addivien ch’Esaù si diparte

per seme da Iacòb; e vien Quirino

da sì vil[34] padre, che si rende[35] a Marte.

 

Natura generata il suo cammino

simil farebbe sempre a’ generanti,

se non vincesse il proveder divino.

 

Or quel che t’era dietro t’è davanti:

ma perché sappi che di te mi giova,

un corollario voglio che t’ammanti[36].

 

Sempre natura, se fortuna trova

discorde a sé, com’ogne altra semente

fuor di sua region, fa mala prova.

 

E se ’l mondo là giù ponesse mente

al fondamento che natura pone,

seguendo lui, avria buona la gente.

 

Ma voi torcete a la religione

tal che fia nato a cignersi la spada,

e fate re di tal ch’è da sermone;

 

onde la traccia vostra è fuor di strada».

 

 

[1] Da notare la caduta (come già poteva avvenire in latino: periclum) della sillaba atona postonica, cioè non accentata (atona) immediatamente successiva a quella accentata (postonica); tale fenomeno, relativamente però alla sillaba finale atona postonica, è consueto nelle lingue e nei dialetti romanzi di famiglia gallo-romanza e gallo italica: caballum (lat. tardo) > cheval (francese), caval (dialetti gallo-italici). Quanto al significato del termine peric(o)lo, per alcuni vale «danno», per altri invece «stato di ignoranza».

[2] Attributo della dea Venere, secondo il mito nata (e particolarmente venerata) nell’isola di Cipro. Da questa stessa tradizione deriva, in onore appunto di Venere in quanto dea della bellezza femminile, anche il nome della cipria, < pulvis cypria, cioè polvere di Cipro.

[3] Sulla tradizione classica dell’amore come “follia”, che Dante ricava principalmente dall’episodio virgiliano di Didone (Aen iv), si innesta quella trobadorica della folor (amore folle, disordinato, peccaminoso; cfr. in Dante l’episodio di Paolo e Francesca, in Inf. c. v) contrapposta al fin amor, cioè l’amore ordinato ed eticamente ben disposto.

[4] Il verso si fonda sulla metafora di coppa (nuca) e ciglio (metonimico per viso), per indicare la parte posteriore e quella anteriore della testa e quindi, semplicemente, “dietro” e “davanti”; inoltre il verbo vagheggiare è termine tecnico della poesia d’amore per indicare il «corteggiare», ovviamente una donna (la precisazione – non necessaria ai tempi di Dante – è purtroppo doverosa ai nostri giorni). Quanto alla voce coppa, essa ha lasciato in vari dialetti settentrionali il termine copin, nuca appunto, e poi – per metonimia – leggero schiaffo dato sulla parte posteriore della testa.

[5] Uso del pronome personale soggetto con valore di complemento indiretto.

[6] Col valore del latino ipsa: proprio in quella stessa.

[7] Con la locuzione viste interne il poeta indica il fatto che le anime nella loro essenza beata vedono direttamente Dio. Una lectio facilior propone invece viste etterne, che banalizza tuttavia il senso proprio del pensiero dantesco.

[8] Poiché il verbo gioire, come normalmente quelli della 3a coniugazione (4a latina), dovrebbe presentare la desinenza in -isco (2a pers. -isci), alcuni commentatori pensano ad un arcaico verbo gioiare, di cui si hanno esempi nella lingua del tempo. Tuttavia, in Dante troviamo talora verbi in -ire senza la desinenza con suffisso -sc-.

[9] Alcuni commentatori spiegano del come «tu che sei del mondo», mentre altri lo intendono col valore di dal/nel, e quindi «quando eri nel mondo».

[10] Autocitazione di Dante, che inserisce qui il primo verso (incipit) della canzone da lui commentata nel ii trattato del Convivio. Quanto alla gerarchia angelica qui ricordata, si tratta dei Principati, secondo la teoria dello pseudo Dionigi Areopagita, mentre nel Convivio Dante riteneva che fossero i Troni, secondo quella di Gregorio Magno.

[11] Da notare, cosa frequente nella lingua del tempo per le forme riflessive, l’uso dell’ausiliare avere per essere.

[12] La metafora delle foglie (fronde) e dei frutti (immagine espressa con la perifrasi più oltre che) indica le parole ed i fatti con cui l’anima di Carlo Martello avrebbe mostrato la sua simpatia per Dante.

[13] Le perifrasi con cui Dante indica luoghi geografici servendosi di nomi di fiumi o di città (cfr. anche il canto vi) appartengono, con la loro coloritura erudita, al linguaggio retorico, e quindi indicano la volontà del poeta di innalzare lo stile del proprio testo.

[14] L’Italia meridionale, e più precisamente il regno di Napoli, viene indicato come corno d’Ausonia: Ausonia era l’antico nome dell’Italia (usato anche da Virgilio, fonte classica privilegiata di Dante), mentre l’immagine del corno viene suggerita dalla forma di corno a mezzaluna costituita dalle due penisole (Puglia e Calabria) che chiudevano, a est e a sud, il regno stesso, assumendo così la forma di un triangolo i cui vertici erano dunque Gaeta sul Tirreno, Otranto sull’Adriatico e Catona sullo stretto di Messina.

[15] Neologismo dantesco come denominale da borgo, in due possibili accezioni: o l’italiano borgo nel senso medievale del termine, cioè di quartiere cittadino al di fuori però della cinta muraria, o il germanico burg, col valore di «castello» (presente nei toponimi tedeschi del tipo Magdeburgo, Brandeburgo, Lussemburgo ecc.). Nel primo caso Dante sottolineerebbe come le località indicate appaiano essere quasi sobborghi della capitale e centro del regno (Napoli), nel secondo invece fisserebbe l’attenzione sul fatto che tali luoghi siano tutti fortificati.

[16] Da notare la costruzione a senso, in cui il verbo, al singolare, concorda con solo uno dei due soggetti.

[17] Dante quasi certamente usa qui il termine Trinacria (e non Sicilia) perché questa era la denominazione ufficiale del regno assegnato a Federico d’Aragona dopo la fine della guerra del Vespro (1302). Dal punto di vista etimologico questo termine, usato dai greci insieme al più comune Sikelìa, nasceva dalla forma triangolare dell’isola: tria (tre) + akria (punte, vertici).

[18] «Muoia, muoia» (sott. il nemico francese): grido di battaglia degli insorti palermitani contro gli angioini durante la rivolta detta dei Vespri (Pasqua 1282). Forma arcaica più vicina all’etimo latino (< morior; cong. pres. esortativo: moriatur), fu poi scelta come motto del reggimento dei cavalleggeri Palermo nel R.E.I.

[19] Aldilà delle varie possibili interpretazioni proposte (re Roberto avido come un catalano oppure circondato da avidi ministri catalani oppure ancora, e cosa più probabile visto il successivo termine milizia, appoggiato da avidi soldati catalani), resta da notare come la fama dei catalani (la Catalogna fino alla metà circa del secolo xv fu regno indipendente) non doveva essere un tempo molto apprezzata in Italia: troviamo infatti, nella novella di Andreuccio da Perugia del Decameron boccacciano (novella ii, 5), che la ruga catalana era un quartiere napoletano malfamato e male abitato, mentre un modo di dire piemontese recita Giuré ’me ’n catalan, cioè «Bestemmiare come un catalano».

[20] Consueta metafora, già presente in autori classici (Alceo, Orazio) e nello stesso Dante (Pg. vi), dello stato visto come una nave, che è in porto o naviga in acque tranquille (cioè è in pace) oppure è in balia di acque agitate e tempestose, cioè si trova in una condizione di guerra.

[21] Evidente uso del gerundio equivalente all’ablativo del gerundio latino, con valore modale o strumentale: «col parlare».

[22] È aggettivo sostantivato con valore di neutro, come il latino amarum, cioè «cosa amara». La metafora del seme, dell’albero e del frutto rimanda al passo evangelico (Mt vii, 18) dell’albero buono che non produce frutti cattivi.

[23] Mentre nella Vita nova troviamo spesso l’ambivalenza saluto/salute, in cui salute indica la «salvezza», nel Paradiso tale termine acquisisce il valore di «grazia, beneficio», o meglio indica quell’insieme di qualità che permettono all’individuo di conseguire la propria perfezione.

[24] Trovandoci all’interno della metafora, usuale in Dante, dell’arco, della freccia e del bersaglio per indicare il raggiungimento di un obiettivo, qualche commentatore propone di leggere cocca (saetta), invece di cosa: tale lezione pare però non necessaria, oltre ad appesantire tutta l’immagine con una ripetizione alquanto ovvia.

[25] Da notare l’uso transitivo, abbastanza comune nella lingua del tempo, del verbo camminare.

[26] Forma dotta (per produrre) latineggiante (< produco, -ere), usata costantemente da Dante quando vuole intendere la creazione da parte di Dio.

[27] Trovandoci nel cielo di Venere tra gli spiriti amanti, la contrapposizione tra arti (cose fatte con ordine e secondo ragione) e ruine (cose rovinose, frutto di disordine e di irrazionalità) può richiamare, nella costruzione sì poetica ma anche sempre razionalmente strutturata dell’opera dantesca, quella precedentemente notata tra fin amor e folor.

[28] Latinismo dotto, dal participio passato del verbo perficio, -ere, cioè «portati a compimento, completati».

[29] Nonostante la presenza dell’articolo determinativo, la forma è comparativa (cosa peggiore) e non superlativa.

[30] L’uso del latinismo dotto cive (< civis, cittadino) non indica solamente la condizione dell’uomo quale cittadino, ma la funzione necessaria (così come afferma Aristotele nell’Etica, da Dante citato nel trattato introduttivo del Convivio) dell’uomo in quanto “animale sociale” (zóon politikón).

[31] Espressione tecnica della filosofia aristotelico-tomistica, indicante il ragionamento (detto appunto deduttivo) che procede dall’universale al particolare, contrapposto al ragionamento induttivo (caratteristico della logica moderna) che procede invece dal particolare all’universale.

[32] Quici, da non confondere con quinci (di qui, moto da luogo concreto o figurato), ha valore di stato in luogo (qui, a questo punto).

[33] In questi versi troviamo una sorta di “antonomasia onomastica”, cioè l’uso di nomi propri per indicare metonimicamente il ruolo svolto dal personaggio famoso citato: Solone l’attività politica, Serse quella militare, Melchisedech il sacerdozio, Dedalo (indicato con una perifrasi) l’abilità tecnica.

[34] Nel senso etimologico del latino vilis (di scarso valore).

[35] Il verbo rendere è qui usato per indicare quasi il restituire al vero padre naturale (Marte) il figlio Romolo, troppo importante nella storia di Roma per poter essere considerato, come si tramandava nella leggenda, figlio di un umile pastore.

[36] Oltre all’idea del decorare (ammantare), il poeta vuole qui paragonare il corollario, appendice conclusiva del discorso di Carlo Martello, al manto, che è l’ultimo capo d’abbigliamento ad essere indossato, sopra tutti gli altri.

 

 

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