Il Maestro di color che sanno… Paradiso VII

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Giovanni di Paolo di Grazia (Siena, 1398 – Siena, 1482), Il mistero della redenzione, miniatura, 1450 circa.

 

«Osanna, sanctus Deus sabaòth,

superillustrans[1] claritate tua

felices ignes horum malacòth!»[2].

 

Così, volgendosi a la nota sua,

fu viso a me[3] cantare essa sustanza,

sopra la qual doppio lume s’addua[4]:

 

ed essa e l’altre mossero a sua danza,

e quasi velocissime faville,

mi si velar di sùbita distanza.

 

Io dubitava e dicea ‘Dille, dille!’

fra me, ‘dille’, dicea, ‘a la mia donna

che mi diseta con le dolci stille’.

 

Ma quella reverenza che s’indonna[5]

di tutto me, pur per Be e per ice[6],

mi richinava come l’uom ch’assonna.

 

Poco sofferse me cotal[7] Beatrice

e cominciò, raggiandomi d’un riso

tal, che nel foco faria l’uom felice:

 

«Secondo mio infallibile avviso,

come giusta vendetta giustamente

punita fosse, t’ha in pensier miso;

 

ma io ti solverò[8] tosto la mente;

e tu ascolta, ché le mie parole

di gran sentenza[9] ti faran presente.

 

Per non soffrire a la virtù che vole

freno a suo prode[10], quell’uom che non nacque,

dannando sé, dannò tutta sua prole;

 

onde l’umana specie inferma giacque

giù per secoli molti in grande errore,

fin ch’al Verbo di Dio discender piacque

 

u’ la natura, che dal suo fattore

s’era allungata, unì a sé in persona

con l’atto sol del suo etterno amore.

 

Or drizza il viso a quel ch’or si ragiona:

questa natura al suo fattore unita,

qual fu creata, fu sincera e buona;

 

ma per sé stessa pur fu ella sbandita

di paradiso, però che si torse

da via di verità e da sua vita.

 

La pena dunque che la croce porse

s’a la natura assunta si misura,

nulla[11] già mai sì giustamente morse;

 

e così nulla fu di tanta ingiura[12],

guardando a la persona che sofferse,

in che era contratta tal natura.

 

Però d’un atto uscir cose diverse:

ch’a Dio e a’ Giudei piacque una morte;

per lei tremò la terra e ’l ciel s’aperse.

 

Non ti dee oramai parer più forte[13],

quando si dice che giusta vendetta

poscia vengiata fu da giusta corte.

 

Ma io veggi’ or la tua mente ristretta

di pensiero in pensier dentro ad un nodo,

del qual con gran disio solver[14] s’aspetta.

 

Tu dici: «Ben discerno ciò ch’i’ odo;

ma perché Dio volesse, m’è occulto,

a nostra redenzion pur questo modo».

 

Questo decreto, frate, sta sepulto[15]

a li occhi di ciascuno il cui ingegno

ne la fiamma d’amor non è adulto[16].

 

Veramente[17], però ch’a questo segno

molto si mira e poco si discerne,

dirò perché tal modo fu più degno.

 

La divina bontà, che da sé sperne[18]

ogne livore, ardendo in sé, sfavilla

sì che dispiega le bellezze etterne.

 

Ciò che da lei sanza mezzo distilla

non ha poi fine, perché non si move

la sua imprenta[19] quand’ella sigilla.

 

Ciò che da essa sanza mezzo piove

libero è tutto, perché non soggiace

a la virtute de le cose nove.

 

Più l’è conforme, e però più le piace;

ché l’ardor santo ch’ogne cosa raggia,

ne la più somigliante è più vivace.

 

Di tutte queste dote[20] s’avvantaggia

l’umana creatura; e s’una manca,

di sua nobilità convien che caggia.

 

Solo il peccato è quel che la disfranca

e falla dissìmile al sommo bene,

per che del lume suo poco s’imbianca;

 

e in sua dignità mai non rivene,

se non riempie, dove colpa vòta,

contra mal dilettar con giuste pene.

 

Vostra natura, quando peccò tota [21]

nel seme suo, da queste dignitadi,

come di paradiso, fu remota;

 

né ricovrar potiensi, se tu badi

ben sottilmente, per alcuna via,

sanza passar per un di questi guadi:

 

o che Dio solo per sua cortesia

dimesso[22] avesse, o che l’uom per sé isso[23]

avesse sodisfatto a sua follia.

 

Ficca mo l’occhio per entro l’abisso

de l’etterno consiglio, quanto puoi

al mio parlar distrettamente fisso.

 

Non potea l’uomo ne’ termini suoi

mai sodisfar, per non potere ir giuso

con umiltate obediendo poi,

 

quanto disobediendo intese ir suso;

e questa è la cagion per che l’uom fue

da poter sodisfar per sé dischiuso.

 

Dunque a Dio convenia con le vie sue

riparar l’omo a sua intera vita,

dico con l’una, o ver con amendue.

 

Ma perché l’ovra tanto è più gradita

da l’operante, quanto più appresenta[24]

de la bontà del core ond’ell’è uscita,

 

la divina bontà che ’l mondo imprenta,

di proceder per tutte le sue vie,

a rilevarvi suso, fu contenta.

 

Né tra l’ultima notte e ’l primo die

sì alto o sì magnifico processo,

o per l’una o per l’altra, fu o fie:

 

ché più largo fu Dio a dar sé stesso

per far l’uom sufficiente a rilevarsi,

che s’elli avesse sol da sé dimesso;

 

e tutti li altri modi erano scarsi

a la giustizia, se ’l Figliuol di Dio

non fosse umiliato ad incarnarsi.

 

Or per empierti bene ogni disio,

ritorno a dichiararti in alcun loco,

perché tu veggi lì così com’io.

 

Tu dici: «Io veggio l’acqua, io veggio il foco,

l’aere e la terra e tutte lor misture

venire a corruzione, e durar poco;

 

e queste cose pur furon creature;

per che, se ciò ch’è detto è stato vero,

esser dovrien da corruzion sicure».

 

Li angeli, frate, e ’l paese sincero[25]

nel qual tu se’, dir si posson creati,

sì come sono, in loro essere intero;

 

ma li elementi che tu hai nomati

e quelle cose che di lor si fanno

da creata virtù sono informati.

 

Creata fu la materia ch’elli hanno;

creata fu la virtù informante

in queste stelle che ’ntorno a lor vanno.

 

L’anima d’ogne bruto e de le piante

di complession potenziata tira

lo raggio e ’l moto de le luci sante;

 

ma vostra vita sanza mezzo spira

la somma beninanza[26], e la innamora

di sé sì che poi sempre la disira.

 

E quinci puoi argomentare ancora

vostra resurrezion, se tu ripensi

come l’umana carne fessi[27] allora

 

che li primi parenti intrambo fensi».

 

[1] Participio presente latino di coniazione dantesca, col valore di «che illumini dall’alto» oppure di «che illumini abbondantemente».

[2] Tre versi latini di invenzione dantesca, con riferimenti tuttavia al Sanctus della Messa (Deus sabaòth, “Dio degli eserciti”), in cui però malacòth (dei regni) sta per il corretto mamlacòth. Entrambe le forme (sabaòth e malacòth) sono dei plurali traslitterati dall’ebraico.

[3] Calco del latino visum est mihi (mi sembrò).

[4] Neologismo dantesco col significato di «si accoppia».

[5] Altro neologismo, col valore di «si fa signora», dal latino domina (signora, padrona), da cui l’italiano donna.

[6] Dante indica le due sillabe (iniziale e finale) del nome di Beatrice; meno probabile che egli voglia usare il diminutivo Bice, che pure si trova impiegato nella Vita nova.

[7] Costruzione latineggiante, in cui cotal è complemento predicativo dell’oggetto (me): Beatrice non permise che io rimanessi tale.

[8] Latinismo (< verbo solvo, -ere) per ti scioglierò.

[9] Col valore tecnico di «ragionamento, argomentazione».

[10] Latinismo dotto, col significato di «vantaggio», dal verbo prodesse (composto di pro + esse; giovare). Da questo verbo viene anche la formula prosit (congiuntivo presente con valore di ottativo, cioè di augurio, che alcuni usano nei brindisi), col significato di «giovi, sia di giovamento, di utilità» mentre proprio da questo sostantivo prode deriva il modo di dire far pro’ (o far buon pro’), cioè «essere utile, di giovamento».

[11] Latinismo: femminile singolare dell’aggettivo nullus (nessuno). In questo contesto può essere inteso o come soggetto, concordato col termine pena sottinteso, o come oggetto del verbo morse.

[12] Forma arcaica per ingiuria: qui nel suo valore etimologico (< in + ius) di «ciò che va contro (in) la giustizia (ius

[13] Nel senso di «difficile da capire».

[14] Uso dell’attivo per il passivo (essere sciolto) oppure da intendersi come solversi, leggendo però solversi aspetta in luogo di solver s’aspetta.

[15] Con valore metaforico di «occulto, nascosto».

[16] Due le possibili interpretazioni semantiche, che tuttavia non cambiano di molto il significato complessivo del verso. Adulto potrebbe derivare infatti (cosa più probabile) dal verbo latino adolescere («crescere», e quindi «educare») oppure da adolére, cioè «bruciare, ardere».

[17] È il latino vero, cioè congiunzione avversativa che significa «ma, tuttavia».

[18] Altro latinismo dotto, da spernere (disprezzare, allontanare da sé).

[19] Gallicismo per impronta (cfr. prov. emprenta).

[20] È plurale dal femminile dota, col valore di «qualità, pregio» (< lat. tardo dota, -ae). Nell’uso moderno abbiamo invece dote (sing.; plur. doti) derivante dal latino classico dos, –tis. (accusativo: dotem).

[21] Nominativo latino femminile, dall’aggettivo totus (tutto intiero).

[22] Dal verbo latino dimittere: è uso scritturale, cfr. nel Pater noster dimitte nobis debita nostra, per «perdonare».

[23] Dal latino per se ipsum (per se stesso); la forma arcaica latineggiante isso/issa (per esso/essa) è presente tuttora in parecchi dialetti meridionali.

[24] Da intendersi o come forma rara per «rappresenta» (dimostra, manifesta) o, ma meno probabile, come derivato dal sostantivo presente («dono», di uso ancora attuale, seppur raro), nel senso di «offre».

[25] Nel significato di «puro», così come ancora si dice vino sincero per intendere «non mescolato, puro».

[26] Provenzalismo per benevolenza, bontà, molto frequente nella lirica trobadorica, donde Dante probabilmente trasse il termine.

[27] Forma sincretica per si fe’, cioè «si fece, fu creato».

 

 

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