John Flaxman (6 luglio 1755 – 7 dicembre 1826), Il ritorno di Cunissa, acquaforte, 1807, libro Composizioni dell’inferno, purgatorio e paradiso, Londra (sec. XVIII, sec. XIX)
Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza,
m’ebbe chiarito, mi narrò li ’nganni
che ricever dovea la sua semenza;
ma disse: «Taci e lascia muover li anni»;
sì ch’io non posso dir se non che pianto[1]
giusto verrà di retro ai vostri danni.
E già la vita di quel lume santo
rivolta s’era al Sol che la riempie
come quel ben ch’a ogne cosa è tanto.
Ahi anime ingannate e fatture empie,
che da sì fatto ben torcete i cuori,
drizzando in vanità le vostre tempie[2]!
Ed ecco un altro di quelli splendori
ver’ me si fece, e ’l suo voler piacermi
significava nel chiarir di fori.
Li occhi di Beatrice, ch’eran fermi
sovra me, come pria, di caro assenso
al mio disio certificato fermi[3].
«Deh, metti al mio voler tosto compenso[4],
beato spirto», dissi, «e fammi prova
ch’i’ possa in te refletter quel ch’io penso!».
Onde la luce che m’era ancor nova,
del suo profondo, ond’ella pria cantava,
seguette come a cui[5] di ben far giova:
«In quella parte de la terra prava
italica che siede tra Rialto
e le fontane di Brenta e di Piava,
si leva un colle, e non surge molt’alto,
là onde scese già una facella[6]
che fece a la contrada un grande assalto.
D’una radice nacqui e io ed ella:
Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
perché mi vinse il lume d’esta stella;
ma lietamente a me medesma indulgo[7]
la cagion di mia sorte, e non mi noia[8];
che parria forse forte al vostro vulgo.
Di questa luculenta e cara gioia
del nostro cielo che più m’è propinqua,
grande fama rimase; e pria che moia,
questo centesimo anno ancor s’incinqua:
vedi se far si dee l’omo eccellente,
sì ch’altra vita la prima relinqua.
E ciò non pensa la turba presente
che Tagliamento e Adice richiude,
né per esser battuta ancor si pente;
ma tosto fia che Padova al palude
cangerà l’acqua che Vincenza[9] bagna,
per essere al dover le genti crude;
e dove Sile e Cagnan s’accompagna,
tal signoreggia e va con la testa alta,
che già per lui carpir si fa la ragna[10].
Piangerà Feltro ancora la difalta[11]
de l’empio suo pastor, che sarà sconcia
sì, che per simil non s’entrò in malta[12].
Troppo sarebbe larga la bigoncia
che ricevesse il sangue ferrarese,
e stanco chi ’l pesasse a oncia a oncia,
che donerà questo prete cortese
per mostrarsi di parte; e cotai doni
conformi fieno al viver del paese.
Sù sono specchi, voi dicete[13] Troni,
onde refulge a noi Dio giudicante;
sì che questi parlar ne paion buoni».
Qui si tacette; e fecemi sembiante
che fosse ad altro volta, per la rota
in che si mise com’era davante.
L’altra letizia[14], che m’era già nota
per cara cosa, mi si fece in vista
qual fin balasso[15] in che lo sol percuota.
Per letiziar là sù fulgor s’acquista,
sì come riso qui; ma giù s’abbuia
l’ombra di fuor, come la mente è trista.
«Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia[16]»,
diss’io, «beato spirto, sì che nulla
voglia di sé a te puot’esser fuia.
Dunque la voce tua, che ’l ciel trastulla
sempre col canto di quei fuochi pii[17]
che di sei ali facen la coculla,
perché non satisface[18] a’ miei disii?
Già non attendere’ io tua dimanda,
s’io m’intuassi, come tu t’inmii[19]».
«La maggior valle in che l’acqua si spanda»,
incominciaro allor le sue parole,
«fuor di quel mar che la terra inghirlanda,
tra ’ discordanti liti contra ’l sole
tanto sen va, che fa meridiano
là dove l’orizzonte pria far suole.
Di quella valle fu’ io litorano
tra Ebro e Macra, che per cammin corto
parte lo Genovese dal Toscano.
Ad un occaso quasi e ad un orto
Buggea siede e la terra ond’io fui,
che fé del sangue suo già caldo il porto.
Folco mi disse quella gente a cui
fu noto il nome mio; e questo cielo
di me s’imprenta, com’io fe’ di lui;
ché più non arse la figlia di Belo,
noiando e a Sicheo e a Creusa,
di me, infin che si convenne al pelo;
né quella Rodopea che delusa
fu da Demofoonte, né Alcide
quando Iole nel core ebbe rinchiusa.
Non però qui si pente, ma si ride,
non de la colpa, ch’a mente non torna,
ma del valor ch’ordinò e provide.
Qui si rimira ne l’arte ch’addorna
cotanto affetto, e discernesi ’l bene
per che ’l mondo di sù quel di giù torna[20].
Ma perché tutte le tue voglie piene
ten porti che son nate in questa spera,
proceder ancor oltre mi convene.
Tu vuo’ saper chi è in questa lumera
che qui appresso me così scintilla,
come raggio di sole in acqua mera.
Or sappi che là entro si tranquilla
Raab; e a nostr’ordine congiunta,
di lei nel sommo grado si sigilla.
Da questo cielo, in cui l’ombra s’appunta
che ’l vostro mondo face, pria ch’altr’alma
del triunfo[21] di Cristo fu assunta.
Ben si convenne lei lasciar per palma
in alcun cielo de l’alta vittoria
che s’acquistò con l’una e l’altra palma,
perch’ella favorò[22] la prima gloria
di Iosuè in su la Terra Santa,
che poco tocca al papa la memoria.
La tua città, che di colui è pianta
che pria volse le spalle al suo fattore
e di cui è la ’nvidia tanto pianta,
produce e spande il maladetto fiore[23]
ch’à disviate le pecore e li agni,
però che fatto ha lupo del pastore.
Per questo l’Evangelio e i dottor magni
son derelitti, e solo ai Decretali
si studia[24], sì che pare a’ lor vivagni.
A questo intende il papa e ’ cardinali;
non vanno i lor pensieri a Nazarette,
là dove Gabriello aperse l’ali.
Ma Vaticano e l’altre parti elette
di Roma che son state cimitero
a la milizia che Pietro seguette,
tosto libere fien de l’avoltero».
[1] Uso metonimico (effetto per la causa) di pianto per “vendetta, punizione”; il termine è retoricamente messo in evidenza anche dall’uso dell’enjambement (pianto/giusto).
[2] Uso metonimico (parte per il tutto) di tempie per indicare, come spesso in Dante, la testa e, più specificamente, la fronte e quindi la mente.
[3] Forma sincretica per mi fero (= fecero), in rima equivoca col precedente fermi (aggettivo).
[4] Nel suo significato etimologico di «contrappeso», dal latino cum pensum, participio passato del verbo pendo, -ere (pesare).
[5] Costruzione del pronome relativo alla latina, con ellissi (cioè scomparsa) del dimostrativo: “come colui al quale”.
[6] Dal latino fax (fiaccola): non tanto diminutivo, come per es. in Leopardi (Canto notturno, v. 86: “a che tante facelle?”), quanto piuttosto un intensivo (fiaccola incendiaria), col valore metaforico, già presente negli autori classici, di «rovina, distruzione».
[7] Costruito, come in latino, co dativo della persona (a me medesma).
[8] Col significato, derivato dal provenzale enojar, a sua volta dal tardo latino inodiare, di «mi rammarico, mi dolgo» e poi anche di «recare disturbo, offesa».
[9] Forma popolare, di largo uso al tempo, per il toponimo Vicenza.
[10] Ragna (per ragnatela) ha evidente valore metaforico per «inganno»
[11] Chiaro francesismo (< defaute), col valore di «colpa, tradimento»; tale voce è presente ancora nel piemontese fòta (errore, colpa).
[12] Sebbene il termine malta indichi anche il «fango», qui esso è nome proprio (seppur usato per metonimia per indicare il nome comune) di una prigione di non chiara localizzazione, anche se probabilmente posta sull’isola Bisantina al centro del lago di Bolsena, addetta a prigione per gli ecclesiastici. Dal valore, appunto, di fango, alcuni commentatori pensano che qui Dante voglia intendere non una semplice prigione, ma un luogo oscuro e fangoso.
[13] Forma arcaica per dite, molto più vicina al latino dicitis.
[14] Qui, per metonimia (causa per effetto), vale «spirito luminoso per la letizia».
[15] Si tratta di una sorta di rubino, il cui nome proviene dall’arabo balaksh, a sua volta dalla regione di Balascam (in Persia), donde tale pietra veniva importata (cfr. Marco Polo, Milione, xxxv). Il termine è accompagnato poi dall’aggettivo fino, col valore di «puro, privo di imperfezioni».
[16] Consueto neologismo dantesco costruito, come altri simili nel Paradiso, partendo dal pronome personale (lui); quindi col valore di «penetrare in lui, farsi lui».
[17] La perifrasi fuochi pii indica il coro angelico più vicino a Dio, quello dei Serafini, il cui nome ebraico (Seraphim) significa letteralmente «ardenti (d’amore)».
[18] Anche qui troviamo la forma, arcaica, più simile al latino: satisfacit.
[19] Altri due neologismi danteschi (cfr. supra «inluiarsi»), costruiti però non partendo dal pronome personale (in tal caso avremmo «intearsi» e «inmearsi», ma da quello possessivo (e quindi ecco «intuarsi» e «inmiarsi»).
[20] La forma verbale torna è in rima equivoca col torna del 5° verso precedente: mentre però il primo deriva dal verbo tornare, il secondo è dal fiorentino torniare, cioè «lavorare col tornio», e quindi metaforicamente (come in questo passo) «dare forma».
[21] Probabilmente con lo stesso valore dell’espressione «chiesa trionfante», cioè le schiere dei beati, nate col trionfo di Cristo sulla morte e sull’inferno.
[22] Dall’arcaico verbo favorare.
[23] Si tratta del fiorino, la moneta fiorentina, così detta perché su di essa era inciso un giglio, emblema della città
[24] Costruito, come in latino, col dativo (ai Decretali), col valore più di «interessarsi» che non di «studiare».