Il Maestro di color che sanno… Inferno, canto XXVIII

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                                         «Or vedi com’ io mi dilacco! vedi come storpiato è Mäometto!», XXVIII, 30-31                                            Illustrazione del 1861 di Paul Gustave Doré (1832-1883)

 

Chi poria mai[1] pur con parole sciolte[2]

dicer del sangue e de le piaghe a pieno

ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?

 

Ogne lingua per certo verria meno

per lo nostro sermone e per la mente

ch’ànno a tanto comprender poco seno.

 

S’el[3] s’aunasse ancor tutta la gente

che già in su la fortunata[4] terra

di Puglia[5], fu del suo sangue dolente

 

per li Troiani[6] e per la lunga guerra

che de l’anella fé sì alte spoglie,

come Livio scrive, che non erra,

 

con quella che sentio di colpi doglie

per contastare[7] a Ruberto Guiscardo;

e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie

 

a Ceperan, là dove fu bugiardo[8]

ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,

dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo;

 

e qual forato suo membro e qual mozzo

mostrasse, d’aequar sarebbe nulla

il modo de la nona bolgia sozzo.

 

Già veggia[9], per mezzul perdere o lulla,

com’io vidi un, così non si pertugia,

rotto dal mento infin dove si trulla.

 

Tra le gambe pendevan le minugia;

la corata[10] pareva e ’l tristo sacco

che merda fa di quel che si trangugia.

 

Mentre che tutto in lui veder m’attacco,

guardommi, e con le man s’aperse il petto,

dicendo: «Or vedi com’io mi dilacco[11]!

 

vedi come storpiato è Maometto!

Dinanzi a me sen va piangendo Alì,

fesso nel volto dal mento al ciuffetto.

 

E tutti li altri che tu vedi qui,

seminator di scandalo e di scisma[12]

fuor vivi, e però son fessi così.

 

Un diavolo è qua dietro che n’accisma[13]

sì crudelmente, al taglio de la spada

rimettendo ciascun di questa risma[14],

 

quand’avem volta la dolente strada;

però che le ferite son richiuse

prima ch’altri dinanzi li rivada.

 

Ma tu chi se’ che ’n su lo scoglio muse[15],

forse per indugiar d’ire a la pena

ch’è giudicata in su le tue accuse?».

 

«Né morte ’l giunse ancor, né colpa ’l mena»,

rispuose ’l mio maestro «a tormentarlo;

ma per dar lui esperienza piena,

 

a me, che morto son, convien menarlo

per lo ’nferno qua giù di giro in giro;

e quest’è ver così com’io ti parlo».

 

Più fuor di cento che, quando l’udiro,

s’arrestaron nel fosso a riguardarmi

per maraviglia obliando il martiro.

 

«Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,

tu che forse vedra’ il sole in breve,

s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,

 

sì di vivanda, che stretta[16] di neve

non rechi la vittoria al Noarese,

ch’altrimenti acquistar non sarìa leve».

 

Poi che l’un piè per girsene sospese,

Maometto mi disse esta parola;

indi a partirsi in terra lo distese.

 

Un altro, che forata avea la gola

e tronco ’l naso infin sotto le ciglia,

e non avea mai[17] ch’una orecchia sola,

 

ristato a riguardar per maraviglia

con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,

ch’era di fuor d’ogni parte vermiglia,

 

e disse: «O tu cui colpa non condanna

e cu’ io vidi su in terra latina,

se troppa simiglianza non m’inganna,

 

rimembriti[18] di Pier da Medicina,

se mai torni a veder lo dolce piano

che da Vercelli a Marcabò dichina.

 

E fa saper a’ due miglior da Fano,

a messer Guido e anco ad Angiolello,

che, se l’antiveder qui non è vano,

 

gittati saran fuor di lor vasello

e mazzerati[19] presso a la Cattolica

per tradimento d’un tiranno fello.

 

Tra l’isola di Cipri e di Maiolica

non vide mai sì gran fallo Nettuno[20],

non da pirate, non da gente argolica.

 

Quel traditor che vede pur con l’uno,

e tien la terra che tale qui meco

vorrebbe di vedere esser digiuno,

 

farà venirli a parlamento seco;

poi farà sì, ch’al vento di Focara

non sarà lor mestier voto né preco».

 

E io a lui: «Dimostrami e dichiara,

se vuo’ ch’i’ porti sù di te novella,

chi è colui da la veduta amara».

 

Allor puose la mano a la mascella

d’un suo compagno e la bocca li aperse,

gridando: «Questi è desso[21], e non favella.

 

Questi, scacciato, il dubitar sommerse

in Cesare, affermando che ’l fornito

sempre con danno l’attender sofferse».

 

Oh quanto mi pareva sbigottito

con la lingua tagliata ne la strozza

Curio, ch’a dir fu così ardito!

 

E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,

levando i moncherin per l’aura fosca,

sì che ’l sangue facea la faccia sozza,

 

gridò: «Ricordera’ti anche del Mosca,

che disse, lasso!, «Capo ha cosa fatta»,

che fu mal seme per la gente tosca».

 

E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»;

per ch’elli, accumulando duol con duolo,

sen gio come persona trista e matta.

 

Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,

e vidi cosa, ch’io avrei paura,

sanza più prova, di contarla solo;

 

se non che coscienza m’assicura,

la buona compagnia che l’uom francheggia[22]

sotto l’asbergo[23] del sentirsi pura.

 

Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,

un busto sanza capo andar sì come

andavan li altri de la trista greggia;

 

e ’l capo tronco tenea per le chiome,

pesol con mano a guisa di lanterna;

e quel mirava noi e dicea: «Oh me[24]!».

 

Di sé facea a sé stesso lucerna,

ed eran due in uno e uno in due:

com’esser può, quei sa che sì governa.

 

Quando diritto[25] al piè del ponte fue,

levò ’l braccio alto con tutta la testa,

per appressarne le parole sue,

 

che fuoro: «Or vedi la pena molesta

tu che, spirando, vai veggendo i morti:

vedi s’alcuna è grande come questa.

 

E perché tu di me novella porti,

sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli

che diedi al re giovane i ma’ conforti.

 

Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli:

Achitofèl non fé più d’Absalone

e di Davìd coi malvagi punzelli.

 

Perch’io parti’ così giunte persone,

partito porto il mio cerebro, lasso!,

dal suo principio ch’è in questo troncone.

 

Così s’osserva in me lo contrapasso».

 

[1] Figura retorica della “preterizione”: si afferma di non voler dire qualcosa (qui, l’elenco delle battaglie sanguinose cui paragonare l’aspetto della bolgia) salvo poi in realtà farlo.

[2] Calco del latino “verba soluta”, “parole sciolte”, libere dalle regole metriche, vale a dire in prosa.

[3] Uso, pleonastico, del pronome neutro “el” (< lat. illud).

[4] Possibile una duplice interpretazione del termine: “fertile, rigogliosa” oppure (e più probabile) “soggetta alle vicende della sorte”.

[5] Col valore generale di Italia meridionale, corrispondente al regno di Napoli, coi confini cioè ai fiumi Garigliano e Tronto.

[6] Metonimico per Romani, secondo l’interpretazione virgiliana dell’origine troiana di Roma.

[7] Arcaico per “contrastare”.

[8] Qui nel senso di “traditore”.

[9] Termine arcaico, dal tardo latino veia (forse di antica origine osca), per indicare “botte”.

[10] Termine complessivo per indicare cuore, fegato, polmoni e milza.

[11] Dal termine “lacca” (coscia, in genere di animale) deriva “laccare, dilaccare” col significato di “aprire le gambe”.

[12] Termini quasi sinonimi. Scandalo vale “discordia” o “persuasione a fare il male” (cfr. anche il suo uso scritturale, anche nella metafora del seminare); scisma (dal verbo greco schizo/σχίζω, “divido, separo”; cfr. anche “schizofrenia”, cioè mente divisa, lacerata in due personalità) è la scissione, in campo religioso.

[13] Gallicismo dall’antico francese acesmer, prov. (a)cesmar col significato di “preparare, acconciare”.

[14] Arabismo col valore di “fascio”, poi usato metaforicamente (come in questo passo) per “gruppo, folla” e poi nell’uso moderno specializzatosi nel valore di “insieme di fogli di carta” o in quello, in senso però morale e di solito negativo, di “categoria, tipo” (es.: persone della stessa risma).

[15] Il verbo “musare” (cfr. ant. francese muser e prov. muzar) valeva inizialmente “tener fisso il muso su qlcosa o qlcuno” e poi quindi “stare ozioso a fissare, attardarsi”.

[16] O col valore concreto di “qualcosa che stringe, che chiude” oppure col significato di “ammasso, quantità”, in genere di persone o di animali (“una stretta di gente”); d’altra parte, qui, la neve viene personificata.

[17] Dal latino magis (“più”), cfr. spagnolo mas e portoghese mais.

[18] Forma di imperativo impersonale dal verbo “rimembrare”.

[19] Il verbo “mazzerare” (< mazzera, “ammasso di pietre usate per tenere a fondo le reti”) significa “gettare in mare qualcuno, con mani e piedi legati, in un sacco stretto ad una grande pietra”.

[20] Vale, per metonimia, “mare”, essendo Nettuno/Poseidone per l’appunto il dio greco-romano del mare.

[21] Rafforzativo di “esso”: “proprio lui” (< lat. id ipsum).

[22] Dal verbo “francheggiare”, cioè “rendere franco” nel senso di “sicuro di sé”.

[23] Forma arcaica per “usbergo” (“corazza”, metaforicamente “protezione”).

[24] Esempio di “rima composta” o “franta”, per cui le due parole vanno lette come una sola con accento sulla penultima ed in rima con “chiome”.

[25] Usato avverbialmente col valore di “proprio, esattamente”.

 

 

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