Il Maestro di color che sanno… Inferno, canto XXV

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Paul Gustave Louis Christophe Doré (1832-1883), La metamorfosi di Agnolo (1861)

 

Al fine de le sue parole il ladro

le mani alzò con amendue le fiche,

gridando: «Togli[1], Dio, ch’a te le squadro[2]!».

 

Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,

perch’una li s’avvolse allora al collo,

come dicesse ‘Non vo’ che più diche’;

 

e un’altra a le braccia, e rilegollo,

ribadendo sé stessa sì dinanzi,

che non potea con esse dare un crollo.

 

Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi

d’incenerarti sì che più non duri,

poi che ’n mal fare il seme tuo avanzi?

 

Per tutt’i cerchi de lo ’nferno scuri

non vidi spirto in[3] Dio tanto superbo,

non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.

 

El si fuggì che non parlò più verbo;

e io vidi un centauro pien di rabbia

venir chiamando[4]: «Ov’è, ov’è l’acerbo?».

 

Maremma non cred’io che tante n’abbia,

quante bisce elli avea su per la groppa

infin ove comincia nostra labbia.

 

Sovra le spalle, dietro da la coppa[5],

con l’ali aperte li giacea un draco;

e quello affuoca qualunque s’intoppa.

 

Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,

che sotto ’l sasso di monte Aventino

di sangue fece spesse volte laco.

 

Non va co’ suoi fratei per un cammino,

per lo furto che frodolente fece

del grande armento ch’elli ebbe a vicino;

 

onde cessar le sue opere biece

sotto la mazza d’Ercule, che forse

gliene diè cento, e non sentì le diece».

 

Mentre che sì parlava, ed el trascorse[6]

e tre spiriti venner sotto noi,

de’ quali né io né ’l duca mio s’accorse,

 

se non quando gridar: «Chi siete voi?»;

per che nostra novella si ristette,

e intendemmo pur ad essi poi.

 

Io non li conoscea; ma ei seguette,

come suol seguitar per alcun caso,

che l’un nomar un altro convenette,

 

dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;

per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento,

mi puosi ’l dito su dal mento al naso.

 

Se tu se’ or, lettore, a creder lento

ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,

ché io che ’l vidi, a pena il mi consento.

 

Com’io tenea levate in lor le ciglia,

e un serpente con sei piè si lancia

dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia.

 

Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia,

e con li anterior le braccia prese;

poi li addentò e l’una e l’altra guancia;

 

li diretani a le cosce distese,

e miseli la coda tra ’mbedue,

e dietro per le ren sù la ritese.

 

Ellera abbarbicata mai non fue

ad alber sì, come l’orribil fiera

per l’altrui membra avviticchiò le sue.

 

Poi s’appiccar[7], come di calda cera

fossero stati, e mischiar lor colore,

né l’un né l’altro già parea quel ch’era:

 

come procede innanzi da l’ardore,

per lo papiro suso, un color bruno

che non è nero ancora e ’l bianco more.

 

Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno

gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!

Vedi che già non se’ né due né uno».

 

Già eran li due capi un divenuti,

quando n’apparver due figure miste

in una faccia, ov’eran due perduti[8].

 

Fersi le braccia due di quattro liste;

le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso[9]

divenner membra che non fuor mai viste.

 

Ogne primaio aspetto ivi era casso:

due e nessun l’imagine perversa

parea; e tal sen gio con lento passo.

 

Come ’l ramarro sotto la gran fersa

dei dì canicular[10], cangiando sepe,

folgore par se la via attraversa,

 

sì pareva, venendo verso l’epe

de li altri due, un serpentello acceso,

livido[11] e nero come gran di pepe;

 

e quella parte onde prima è preso

nostro alimento[12], a l’un di lor trafisse;

poi cadde giuso innanzi lui disteso.

 

Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;

anzi, co’ piè fermati, sbadigliava

pur come sonno o febbre l’assalisse.

 

Elli ’l serpente, e quei lui riguardava;

l’un per la piaga, e l’altro per la bocca

fummavan forte, e ’l fummo si scontrava.

 

Taccia Lucano ormai là dove tocca

del misero Sabello e di Nasidio,

e attenda a udir quel ch’or si scocca[13].

 

Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio;

ché se quello in serpente e quella in fonte

converte poetando, io non lo ’nvidio;

 

ché due nature mai a fronte a fronte

non trasmutò sì ch’amendue le forme

a cambiar lor matera[14] fosser pronte.

 

Insieme si rispuosero a tai norme,

che ’l serpente la coda in forca fesse[15],

e il feruto ristrinse insieme l’orme[16].

 

Le gambe con le cosce seco stesse

s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura

non facea segno alcun che si paresse.

 

Togliea la coda fessa la figura

che si perdeva là, e la sua pelle

si facea molle, e quella di là dura.

 

Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,

e i due piè de la fiera, ch’eran corti,

tanto allungar quanto accorciavan quelle.

 

Poscia li piè di retro, insieme attorti,

diventaron lo membro che l’uom cela,

e ’l misero del suo n’avea due porti.

 

Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela

di color novo, e genera ’l pel suso

per l’una parte e da l’altra il dipela,

 

l’un si levò e l’altro cadde giuso,

non torcendo però le lucerne empie,

sotto le quai ciascun cambiava muso.

 

Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,

e di troppa matera ch’in là venne

uscir li orecchi de le gote scempie;

 

ciò che non corse in dietro e si ritenne

di quel soverchio, fé naso a la faccia

e le labbra ingrossò quanto convenne.

 

Quel che giacea, il muso innanzi caccia,

e li orecchi ritira per la testa

come face le corna la lumaccia;

 

e la lingua, ch’avea unita e presta

prima a parlar[17], si fende, e la forcuta

ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta.

 

L’anima ch’era fiera divenuta,

suffolando si fugge per la valle,

e l’altro dietro a lui parlando sputa.

 

Poscia li volse le novelle spalle,

e disse a l’altro: «I’ vo’ che Buoso corra,

com’ho fatt’io, carpon per questo calle».

 

Così vid’io la settima zavorra[18]

mutare e trasmutare[19]; e qui mi scusi

la novità se fior[20] la penna abborra[21].

 

E avvegna che li occhi miei confusi

fossero alquanto e l’animo smagato[22],

non poter quei fuggirsi tanto chiusi,

 

ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;

ed era quel che sol, di tre compagni

che venner prima, non era mutato;

 

l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.

 

[1] Dal latino tollo (inf. tollere), cioè “prendere”. Da questo verbo deriva sia l’italiano moderno “togliere” che alcune forme dialettali lombarde (toll, teu), che conservano il valore originario latino di “prendere”.

[2] Forma deverbale da “squadra”: indica il fare con precisione, con attenzione, a regola d’arte.

[3] Col valore di “contro”, come per il latino in + accusativo.

[4] Non col valore moderno di “dare nome”, ma con quello arcaico di “gridare” (< latino clamare; cfr. ital. mod. “clamore”).

[5] Termine arcaico per indicare la nuca; in lombardo è ancora in uso coppin (“nuca, collo”).

[6] Costruzione detta paraipotattica: “mentre… ed el…”, consistente nell’inserire la congiunzione copulativa “ed”, pleonastica rispetto a “mentre”.

[7] Elemento conclusivo di una climax ascendente (figura retorica consistente nel collocare tre, o più, termini tra loro simili per significato, ma di valore più forte l’uno rispetto al precedente). In questo caso abbiamo: “abbarbicata-avviticchiò-s’appiccar”.

[8] Termine di significato duplice, poiché vale sia “dannati” che “persi, annullati” l’uno nell’altro. Stessa osservazione si può fare per il “perversa” di v. 77, che significa “trasformata”, ma che ci lascia anche pensare al suo valore morale di “malvagia”.

[9] “Casso”, petto, in rima equivoca con “casso” (v. 76), participio passato del verbo “cassare”, e quindi “eliminato, cancellato”: per il valore di “eliminare, cancellare” dell’arcaico “cassare” cfr. la Corte di Cassazione, che “cancella” le sentenze dei primi tre gradi di giudizio.

[10] L’aggettivo “canicolare” (come d’altronde il sostantivo “canicola”) deriva dalla costellazione del Cane maggiore, cioè in piena estate.

[11] Può avere sia il valore concreto di nero che quello metaforico di pieno di livore, violento.

[12] Figura retorica della perifrasi (o circonlocuzione) con cui si vuole indicare l’ombelico, da cui il feto (quindi l’essere umano) trae il suo primo alimento.

[13] Figura retorica della metalessi: “si scocca” vale “si sta per dire” originandosi dalla metafora per cui le parole possono essere viste (appunto metaforicamente) come delle frecce che vengono scagliate dalla bocca come da un arco.

[14] Notiamo l’uso di due termini tipicamente aristotelico-tomistici: materia e forma (o essenza).

[15] Perfetto forte di “fendere”, mentre “fendette” è quello debole. L’etimo è il latino findo (“divido, spacco”, dal cui participio passato (fissum) derivano in italiano voci quali “fessura” e “fissile” (che si può spaccare facilmente).

[16] Ancora una metonimia: “orme” per “piedi”, cioè l’effetto per la causa.

[17] Dal punto di vista retorico-stilistico notiamo l’enjambement (o inarcatura) “presta/ prima” e l’allitterazione insistita di p/r “presta… prima… parlar”.

[18] La zavorra materialmente sono – come si sa – quei pesi (sacchi pieni di sabbia, da cui il suo etimo: saburram < sabulam, “sabbia”) che si mettevano nella stiva per appesantire una nave non a pieno carico, permettendole una navigazione più sicura. Metaforicamente, poiché essa si poneva appunto nella stiva, vale “materiale di nessun valore, feccia”, come in questo caso. Nell’uso italiano moderno prevale però il senso di “peso inutile”, che in effetti non è del tutto corretto, dato che – come abbiamo visto – la zavorra sulle navi la sua utilità ce l’aveva.

[19] Anche per questo vocabolo abbiamo una possibile doppia interpretazione: “mutare reciprocamente” o “tornare nello stato precedente”.

[20] Uso avverbiale tipico medievale nel senso di “un po’”.

[21] Il termine, deverbale da “borra” (cascame di lana, imbottitura di lana), significa “mettere, cacciar dentro alla rinfusa” e quindi, metaforicamente, “collocare disordinatamente” (cfr. italiano moderno “abborracciare”, cioè mettere insieme alla bell’e meglio, detto specialmente di un lavoro o di un discorso o di una ricerca).

[22] Dal tardo latino exmagare, a sua volta dal germanico magan (“aver forza”), vale “indebolire, perdere o togliere le forze” e, in senso traslato, “stupire, incantare, commuovere”. Il moderno “smagato” significa dunque “sbigottito, distratto”, ma vale anche, più gergalmente, “persona che non si lascia irretire, turbare”.

 

 

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