Il Maestro di color che sanno… Inferno, canto XXIII

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Gustave Doré, Caifa (1861)

 

Taciti, soli, sanza compagnia

n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,

come frati minor vanno per via.

 

Vòlt’era in su la favola d’Isopo

lo mio pensier per la presente rissa,

dov’el parlò de la rana e del topo;

 

ché più non si pareggia ’mo’ e ’issa[1]

che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia

principio e fine con la mente fissa.

 

E come l’un pensier de l’altro scoppia,

così nacque di quello un altro poi,

che la prima paura mi fé doppia.

 

Io pensava così: ‘Questi per noi

sono scherniti con danno e con beffa

sì fatta, ch’assai credo che lor nòi[2].

 

Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa[3],

ei ne verranno dietro più crudeli

che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’.

 

Già mi sentia tutti arricciar li peli

de la paura e stava in dietro intento,

quand’io dissi: «Maestro, se non celi

 

te e me tostamente, i’ ho pavento

d’i Malebranche. Noi li avem già dietro;

io li ’magino sì, che già li sento».

 

E quei: «S’i’ fossi di piombato vetro,

l’imagine di fuor tua non trarrei

più tosto a me, che quella dentro ’mpetro.

 

Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei,

con simile atto e con simile faccia,

sì che d’intrambi un sol consiglio[4] fei.

 

S’elli è che sì la destra costa giaccia,

che noi possiam ne l’altra bolgia scendere,

noi fuggirem l’imaginata caccia».

 

Già non compié di tal consiglio rendere,

ch’io li vidi venir con l’ali tese

non molto lungi, per volerne prendere.

 

Lo duca mio di sùbito mi prese,

come la madre ch’al romore è desta

e vede presso a sé le fiamme accese,

 

che prende il figlio e fugge e non s’arresta,

avendo più di lui che di sé cura,

tanto che solo una camiscia vesta;

 

e giù dal collo de la ripa dura

supin si diede a la pendente roccia,

che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura.

 

Non corse mai sì tosto acqua per doccia

a volger ruota di molin terragno,

quand’ella più verso le pale approccia,

 

come ’l maestro mio per quel vivagno,

portandosene me sovra ’l suo petto,

come suo figlio, non come compagno.

 

A pena fuoro i piè suoi giunti al letto

del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle

sovresso noi; ma non lì era sospetto;

 

ché l’alta provedenza che lor volle

porre ministri de la fossa quinta,

poder di partirs’indi a tutti tolle.

 

Là giù trovammo una gente dipinta

che giva intorno assai con lenti passi,

piangendo e nel sembiante stanca e vinta.

 

Elli avean cappe con cappucci bassi

dinanzi a li occhi, fatte de la taglia

che in Clugnì per li monaci fassi.

 

Di fuor dorate[5] son, sì ch’elli abbaglia;

ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,

che Federigo le mettea di paglia.

 

Oh in etterno faticoso manto!

Noi ci volgemmo ancor pur a man manca

con loro insieme, intenti al tristo pianto;

 

ma per lo peso quella gente stanca

venìa sì pian, che noi eravam nuovi

di compagnia ad ogne mover d’anca.

 

Per ch’io al duca mio: «Fa che tu trovi[6]

alcun ch’al fatto o al nome si conosca,

e li occhi, sì andando, intorno movi».

 

E un che ’ntese la parola tosca,

di retro a noi gridò: «Tenete i piedi,

voi che correte sì per l’aura fosca!

 

Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi».

Onde ’l duca si volse e disse: «Aspetta

e poi secondo il suo passo procedi».

 

Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta

de l’animo, col viso, d’esser meco;

ma tardavali ’l carco e la via stretta.

 

Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco

mi rimiraron sanza far parola;

poi si volsero in sé, e dicean seco:

 

«Costui par vivo a l’atto de la gola;

e s’e’ son morti, per qual privilegio

vanno scoperti de la grave stola?».

 

Poi disser me: «O Tosco, ch’al collegio

de l’ipocriti tristi[7] se’ venuto,

dir chi tu se’ non avere in dispregio».

 

E io a loro: «I’ fui nato e cresciuto

sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa[8],

e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto.

 

Ma voi chi siete, a cui tanto distilla

quant’i’ veggio dolor giù per le guance?

e che pena è in voi che sì sfavilla?».

 

E l’un rispuose a me: «Le cappe rance[9]

son di piombo sì grosse, che li pesi

fan così cigolar le lor bilance.

 

Frati godenti fummo, e bolognesi;

io Catalano e questi Loderingo

nomati, e da tua terra insieme presi,

 

come suole esser tolto un uom solingo,

per conservar sua pace; e fummo tali,

ch’ancor si pare intorno dal Gardingo».

 

Io cominciai: «O frati, i vostri mali…»[10];

ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse

un, crucifisso in terra con tre pali[11].

 

Quando mi vide, tutto si distorse,

soffiando ne la barba con sospiri;

e ’l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse,

 

mi disse: «Quel confitto che tu miri,

consigliò i Farisei che convenia

porre un uom per lo popolo a’ martìri.

 

Attraversato è, nudo, ne la via,

come tu vedi, ed è mestier ch’el senta

qualunque passa, come pesa, pria.

 

E a tal modo il socero si stenta

in questa fossa, e li altri dal concilio

che fu per li Giudei mala sementa».

 

Allor vid’io maravigliar Virgilio

sovra colui ch’era disteso in croce

tanto vilmente ne l’etterno essilio.

 

Poscia drizzò al frate cotal voce:

«Non vi dispiaccia, se vi lece[12], dirci

s’a la man destra giace alcuna foce[13]

 

onde noi amendue possiamo uscirci,

sanza costrigner de li angeli neri

che vegnan d’esto fondo a dipartirci».

 

Rispuose adunque: «Più che tu non speri

s’appressa un sasso che de la gran cerchia

si move e varca tutt’i vallon feri,

 

salvo che ’n questo è rotto e nol coperchia:

montar potrete su per la ruina,

che giace in costa e nel fondo soperchia».

 

Lo duca stette un poco a testa china;

poi disse: «Mal contava la bisogna

colui che i peccator di qua uncina».

 

E ’l frate: «Io udi’ già dire a Bologna

del diavol vizi assai, tra ’ quali udi’

ch’elli è bugiardo, e padre di menzogna».

 

Appresso il duca a gran passi sen gì,

turbato un poco d’ira nel sembiante;

ond’io da li ’ncarcati mi parti’

 

dietro a le poste de le care piante[14].

 

[1] Un bell’esempio di quel “pluralismo linguistico” dantesco, di cui parla anche Gianfranco Contini (1912-1990): mo e issa non sono semplicemente due modi diversi per significare “adesso”, ma il primo era (ed è) più tipicamente centro-meridionale (a Firenze e a sud di Spoleto) ed il secondo invece più propriamente lucchese e settentrionale.

[2] Dal verbo “noiare” (ed in rima equivoca con “noi”, pronome personale), che non ha solamente il valore del moderno “annoiare”, ma anche quello, più forte, di “dispiacere, rincrescere”.

[3] Letteralmente “fa matassa” (< gueffa, “matassa”, dal longobardo wiffa); in senso traslato “si aggiunge, si accresce”.

[4] Col valore del latino consilium, cioè “decisione”.

[5] Probabilmente Dante, nell’immaginare le cappe degli ipocriti fatte di piombo all’interno e dorate invece all’esterno, si appoggia alla (falsa) etimologia di “ipocrita” data da Uguccione da Pisa († 1210) nella sua opera Derivationes, cioè il greco yper (sopra) e krysous (oro), in latino superauratus, vale a dire “dorato (buono) di fuori”. In realtà il termine “ipocrita” viene sì dal greco, ma dal vocabolo ypokrités (“attore”), in quanto l’ipocrita sa fingere, come un attore, ciò che in realtà non è.

[6] Forma attenuata di imperativo che riproduce il latino fac ut + congiuntivo.

[7] Reminiscenza di Matteo 6, 16: hypocritae, tristes.

[8] La “Villa” (francesismo), cioè la “Città” per antonomasia, vale a dire Firenze, così come l’Urbe per Roma oppure (si pauca licet…) la Veulla, Aosta.

[9] Cioè “gialle”, e quindi “dorate”: da questo aggettivo deriva il termine moderno “rancido”, cioè “giallastro” in quanto guasto, andato a male.

[10] Formula ricorrente nell’opera di Dante (cfr. il dialogo con Francesca in Inf. V, v. 116), qui però è presente anche la figura retorica della aposiopesi (o reticenza), espressa coi i puntini di sospensione, consistente nell’interrompere all’improvviso il discorso diretto.

[11] È il supplizio cosiddetto del trepalum, donde il verbo tardo latino trepaliare, da cui l’italiano “travagliare” (far soffrire) ed il francese travailler (“lavorare”).

[12] Latinismo (< licet) col valore di “se vi è permesso, lecito”.

[13] Dal latino faux (“bocca”), col valore traslato di “passaggio, sbocco”, da cui  poi anche il valore geografico di “foce di un fiume”. Il fatto che dal latino faux (meglio, dal suo accusativo faucem) derivino sia “fauci” che “foce” ci consente di presentare un fenomeno abbastanza diffuso in italiano: la duplice derivazione (una dotta, l’altra popolare, con significati differenti) da una stessa parola latina: oltre a fauci/foce (< faucem), possiamo ricordare anche (per es.) angustia/angoscia (< angustiam), cripta/grotta (< cryptam), diurno/giorno (< diurnum), flebile/fievole (< flebilem), ospite/oste (< hospitem), medio/mezzo (< medium), parabola/parola (< parabulam), plebe/pieve (< plebem), regione/rione (< regionem), viatico/viaggio (< viaticum), .vizio/vezzo (< vitium). Concludiamo notando che la definizione di “dotta” non sempre va applicata alla forma italiana di arrivo, ma all’uso del termine nel latino tardo e medievale: pertanto “vizio” è, per es., derivata da uso dotto, ma non voce dotta in italiano; mentre diverso è il caso di “cripta”, derivata dall’uso dotto, ma pure voce dotta in italiano.

[14] Uso metonimico (la parte per il tutto) di “piante” per “piedi”.

 

 

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