Busto di Tito Livio, scolpito da Lorenzo Larese Moretti (1858-1867)
La prima osservazione da fare a proposito della lingua dell’esercito e della guerra è che – in realtà – si deve parlare di due lingue: quella “tecnica” relativa alle operazioni militari, agli assedi, alla leva ed all’organizzazione dell’esercito e, non ultimo, al diritto applicato alla vita militare (con termine specifico la Fachsprache) e quella “speciale” (sconfinante nel gergo) adottata dai soldati nei loro rapporti interpersonali e coi superiori (il cosiddetto sermo castrensis; tecnicamente la Sondersprache).
Ammiano Marcellino
Il latino militare
Le fonti principali per la lingua militare sono le opere storiche e, specialmente, quelle Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) e di Ammiano Marcellino (330-400), per le informazioni generali, e quelle di Giulio Cesare (100-44 a.C.), per la tecnica e la strategia; importanti, seppur più rare, le opere specifiche di tattica e di poliorcetica[1], come De re militari di Tarrutieno Paterno (prima del 145-186 d.C.) e Epitoma rei militaris (prima metà del V secolo d.C.) di Vegezio (IV-V secolo d.C.), ma anche opere giuridiche, retoriche e filosofiche, queste ultime in quanto la lingua della filosofia (specialmente quella di Seneca, ma già in Grecia) ha adottato moltissime metafore ricavate dal linguaggio dell’arte militare e della milizia, lasciandole spesso in eredità alla lingua del Cristianesimo: il vivere est militare di senechiana memoria risuona in filigrana nella formula della militia Christi.
Tra i termini giuridici di ambito militare, alcuni dei quali si trovano nel non meglio noto scrittore Arrio Menandro (II-III secolo d.C.), autore di un De re militari, del quale svariati frammenti sono riportati nel Digesto giustinianeo, citiamo la chiara distinzione tra emansio (l’assentarsi dal campo oltre i limiti del congedo), la desertio (abbandono di posto) ed il transfugium (la diserzione con conseguente passaggio al nemico).
C’è da notare comunque che i termini militari ricalcavano, anche in età più tarda, l’originaria struttura dell’esercito, in cui non vi era netta distinzione tra civis e miles[2], fondata sull’ordinamento gentilizio, per cui le tre tribù primitive (Tities, Ramnes, Luceres) fornivano ciascuna un contingente di 100 fanti e di 10 cavalieri per la legio, cioè la raccolta e la scelta (dal verbo legere) dei soldati, cioè l’odierna “leva”. Solo in seguito il termine legio passò ad indicare il nucleo stesso dell’esercito. Allo stesso modo, da tribus (tribù, così detta perché inizialmente esse erano tre) deriva il comandante, il tribunus militum o celerum, cioè dei fanti, organizzati in centuriae (< centum), e dei cavalieri, in decuriae (< decem). Anche quando il numero di uomini per centuria diminuì, il nome rimase invariato. C’erano poi i soldati che potremmo definire “specializzati”, cioè i fabri (genieri), cornicines (suonatori di corno) e tubicines (trombettieri), addetti alle comunicazioni, gli accensi (soprannumerari), tra cui gli accensi velati, cioè forniti solamente di vestis, senza le armi, che costituivano il personale ausiliario amministrativo. Successivamente, oltre alla legio, nacque il manipulus (< manus e forse plere, «riempire»), termine che originariamente indicava il mannello di spighe afferrato con la mano dal mietitore, per passare poi a definire l’insegna, costituita da un fascio di fieno su di un’asta, ed infine, per metonimia, il reparto stesso. Non è, questo, l’unico caso in cui il lessico militare prende origine da quello agricolo: la cohors, nome di un altro tipo di reparto della legione, indicava inizialmente il recinto, in una cascina, per il bestiame e per gli attrezzi, poi truppa acquartierata in un punto dell’accampamento, quindi il reparto stesso anche fuori dall’accampamento.
L’equipaggiamento comprendeva sia le armi difensive (arma) che quelle offensive (tela). Tra le prime il cassis (elmo di metallo), il galeum (elmo di cuoio), lo scutum (scudo grande e rettangolare), il clipeus (scudo rotondo e curvo, di bronzo), la parma (piccolo scudo, rotondo, della cavalleria), la caetra (piccolo scudo tipico degli alleati ispanici ed africani), la ocrea (schiniere, gambale), la lorica o il thorax (voce greca, da cui, per metonimia, il nostro “torace”), entrambe armature protettive del corpo, senza sostanziale differenza (almeno negli autori); tra le seconde il pilum (lancia da getto) e l’hasta (lancia da urto) ed il gladius (spada), ma più tardi altre denominazioni, di origine barbarica, saranno lancea e spatha. L’abbigliamento consisteva nel sagum, il mantello già dei pastori, in opposizione alla toga del cittadino, e col passare del tempo le brachae, di origine gallica.
Importanti erano i signa, cioè le insegne: dall’antico manipulus, di cui già si è detto, all’aquila della legione, o anche altre figure di animali (lupo, orso, cinghiale). Ogni singolo reparto aveva il suo vexillum (diminutivo di velum), cioè pezzi di tessuto, in genere bianco o rosso, di forma quadrata e fissati ad un’asta. Il termine signum poi, al singolare, è il segnale per le comunicazioni: essi potevano essere ottici (signa muta) ed acustici (vocalia o semi-vocalia, se con strumenti). Anche in questo caso le denominazioni ricalcavano quelle antiche, in uso nelle tenute agricole (cfr. il De re rustica di Varrone), in cui muta erano gli attrezzi, vocalia i lavoratori e semi-vocalia gli animali.
Per quanto riguarda invece lo schieramento, di marcia o di battaglia, nota è la distinzione della truppa di fanteria nei tre ordini di hastati, principes, triarii, con disposizione in campo differente a seconda dei tempi e dell’evoluzione della tattica. I socii, vale a dire gli alleati italici, erano schierati nelle alae, cioè ai lati, sotto la guida di graduati indigeni, ma sotto un praefectus romano[3]; con le conquiste territoriali e l’asservimento di intere popolazioni nacquero le truppe ausiliarie straniere (auxilia), mentre gli extraordinarii, cioè i soldati “fuori dai ranghi” (extra ordines), erano addetti ai servizi di esplorazione, mentre i delecti (letteralmente «scelti», da deligere) erano al servizio diretto del comandante.
Gli ufficiali potevano essere “di carriera” (centurioni, decurioni, tribuni) o, nel caso di quelli che potremmo definire ufficiali superiori e comandanti, si trattava di magistrati, per i quali il comando militare rappresentava una tappa, obbligata, nel cursus honorum politico[4]. Tali erano il consul (chiamato praetor quando comandava la legione, dal verbo prae-ire, «andare davanti, guidare»), il quaestor, a capo della amministrazione, ed i legati, gli unici che potessero diventare a loro volta comandanti, mentre i tribuni militum ed i praefecti (fabrum, militum), pur essendo ufficiali superiori, non potevano salire oltre di grado. Il console, comandante supremo, era detto imperator, titolo che, da Augusto in poi, spettò, in virtù dell’imperium proconsolare maius, anche al principe, detto quindi «imperatore» tout court. Gli ufficiali inferiori, che provenivano dalla gavetta (ex caliga, cioè la calzatura tipica dei soldati), vale a dire i centurioni, ed i sottoufficiali, i decurioni, non potevano ambire alle cariche più alte, ma al più ad avere dei collaboratori da loro scelti (gli optiones, dal verbo opto, «preferisco, scelgo») e nella carriera potevano al massimo giungere al grado di primipilus (centurione a capo del primo manipolo); loro insegna era il tralcio di vite (vitis), con cui non esitavano a battere i soldati indisciplinati.
L’accampamento (castrum), che poteva essere stabile (castrum stativum) o invernale (hibernum) o ancora estivo (aestivum), presentava all’esterno delle opere di difesa, dette nel loro insieme munitiones (< munio, «difendere, rafforzare»), che comprendevano agger (terrapieno), fossa (fossato, < fodio, «scavare»), vallum (palizzata), da cui derivarono la circumvallatio (il perimetro completo della palizzata) e l’intervallum (lo spazio tra un palo e l’altro).
All’interno invece troviamo i principia (le tende degli ufficiali), da cui prende nome la via principalis, tra cui il praetorium (la tenda del generale, da cui la via praetoria) ed il quaestorium (l’alloggio del questore), e poi il forum (spiazzo per le adunate dei soldati), la fabrica (cioè l’officina, per i fabri), il carcer, il valetudinarium (l’infermeria). Interessante, per le sue derivazioni in vari dialetti italiani[5], la via quintana, che divideva la 5a dalla 6a turma.
Sempre nella toponomastica le opere romane di difesa hanno lasciato alcune eredità: il praesidium (guarnigione e suo quartiere), il castrum, col suo diminutivo castellum, il burgus, voce germanica (< *burgs), collocato in luoghi strategici, in genere agli sbocchi di valli o di strade, oppidum (letteralmente «piazzaforte»), turris, vallum.
Le macchine da assedio erano invece la turres (mobili, di legno, da distinguere da quelle fisse da difesa), le testudines (tettoie mobili di legno), i plutei (tavole, o graticci, coperte di pelli), le vineae (ripari, il cui nome deriva da vitis, il bastone del centurione), l’aries, il corvus (uncino), detto anche, con prestito greco, harpago.
Trionfo romano di Pieter Paul Rubens(1577-1640)
Il sermo castrensis
Passando ora al sermo castrensis, una delle sue massime testimonianze sono i cosiddetti carmina trimphalia, vale a dire quelle “strofette” licenziose che i soldati, usando della militaris licentia[6], intonavano durante il corteo trionfale (donde il loro nome) del loro generale vittorioso, da essi deriso se non addirittura insultato[7]. Purtroppo, di tali carmina non ci restano che scarsi frammenti oltretutto di tradizione indiretta.
Sappiamo che nel sermo castrensis erano molto usati nomignoli e soprannomi, uno dei quali è quello dell’imperatore Gaio Cesare (37-41), detto Caligola (12-41), dal nome della calzatura militare (la caliga, di cui caligula è il diminutivo)[8], perché da bambino viveva col padre, il generale Giulio Cesare Germanico (15 a.C. – 19 d.C.), negli accampamenti vestendo come un soldato. Il caput porcinum era un modo scherzoso per indicare lo schieramento «a cuneo» (cuneus) nell’assalto, mentre noverca (letteralmente «matrigna») era detto un luogo sfavorevole alla collocazione dell’accampamento e muli Mariani erano i soldati carichi di pesi e bagagli: la definizione nacque per metonimia dopo che Mario introdusse dei bastoni a forchetta per agevolare il trasporto di carichi molto pesanti.
Passando ora ai veri e propri vocaboli in uso nell’ambiente soldatesco, possiamo ricordare muger (baro al gioco dei dadi), turturilla (effeminato; letteralmente «tortorella»), purpurilla (luogo ove, nelle vicinanze dell’accampamento, vivevano le prostitute), tale nome derivava dal fatto che le prostitute un tempo usavano vesti di color porpora[9], litterio (letterato da strapazzo), cilibantum (definito come una mensa vinaria rotunda, cioè una tavola di forma rotonda per i vini, dal greco κιλλίβαντες [killìbantes] = cavalletti, supporti), segestre (coperta per la lettiga; dal greco στέγαστρον [stégastron] = copertura, riparo, con dissimilazione[10] e falsa etimologia da seges, «messe, raccolto»). Nel campo verbale, sulla falsariga di forme comuni come aquari («far provvista d’acqua»), frumentari («far provvista di grano»), lignari («fare legna»), pabulari («fare rifornimento») si coniò il verbo copiari («fare un ricco bottino», da copiae, «ricchezze»), mentre il verbo ambulare da termine tecnico giuridico per indicare il «transitare, passare di proprietà» divenne sia termine medico («fare movimento») che militare («marciare»). Molto usati erano poi i sostantivi composti con com-/cum-/co-: compar («uguale, socio», donde l’italiano centro-meridionale «compare»), commilito («compagno di milizia, commilitone»), contubernalis («compagno di tenda») ed anche, estesisi poi al lessico comune, conterraneus/exterraneus («conterraneo»/«estraneo», cioè inizialmente «straniero»; cfr. francese étranger). Durante il tardo-impero sempre più numerosi divennero i soldati di origine barbarica (prima gallica e poi anche germanica), che portarono con sé numerosi termini che rivelano la loro origine, quali mattiobarbulus, la cui origine è nel celtico *matta («dardo»; cfr. anche matara, «giavellotto») più barbulus (sorta di pesce di forma allungata), che indica una specie particolare di giavellotto, e poi anche il soldato che ne è armato, oppure, in uso – secondo la testimonianza dello storico Ammiano Marcellino (330-390) – presso i legionari Goti, il vocabolo carrago («barricata di carri»), dal celtico carrus.
[1] Per «poliorcetica», dal greco πολιορκητικός (poliorketikòs) = da assedio, relativo all’assedio, si intende l’arte di assediare ed espugnare le città fortificate.
[2] Analoga situazione sarà presente anche nel comune medievale, in cui – fino all’avvento massiccio delle truppe mercenarie – la figura del soldato si identificava con quella del cittadino (cfr. anche il dialogo machiavelliano Sull’arte della guerra, del 1521).
[3] Tale struttura ricorda in parte quella dei reparti indigeni inquadrati negli eserciti coloniali, in particolare quello inglese in India: truppa e sottoufficiali indigeni, ma ufficiali inglesi.
[4] Questo fatto spiega come mai, nel corso della storia di Roma, i suoi eserciti andarono incontro o a vittorie straordinarie o a clamorose sconfitte, a seconda dell’esperienza militare e strategica e dell’ambizione dei loro comandanti.
[5] Ancora oggi, in varie parlate regionali di diverse parti d’Italia, la «quintana» o «chintana» indica in genere una strada secondaria di paese o di quartiere che immette in una più importante.
[6] Essa consisteva nel fatto che, durante appunto il trionfo di un generale, i suoi soldati erano liberi di esprimere, senza alcuna censura né timore di punizioni, tutto ciò che volessero nei suoi confronti.
[7] L’esempio più famoso, riportatoci dallo storico Svetonio (70-130 d.C.), è a proposito del trionfo nella guerra gallica di Giulio Cesare: in esso – ci dice il biografo – i soldati non esitarono a ricordare le esperienze omoerotiche del loro comandante supremo con Nicomede, re di Bitinia.
[8] Da questo termine, passato in età tardo-antica dall’ambito militare a quello civile, viene la forma caligarius («ciabattino»), da cui deriva sia il vocabolo provenzale alpino (caligaire) che quello piemontese (calié).
[9] Locus in castra extra vallum in quo scorta prostant, nam apud veteres […] prostitutae purpurea veste utebantur (G. Goetz, Corpus Glossariorum Latinorum, cgl v, 524, 30).
[10] La dissimilazione è il mutamento «di un suono per effetto della presenza di un altro uguale o simile nella stessa parola, più raramente in una parola vicina (d. sintattica). Così i due r del lat. peregrinus sono stati dissimilati in l-r nel lat. volg. pelegrimus, da cui l’ital. pellegrino; i due d di un *medīaiē da *mediei diē sono dissimilati in r-d nel lat. Merīdiē (https://www.treccani.it/enciclopedia/dissimilazione/).