La “sacra trimurti” della poesia rinascimentale al femminile

Home » La “sacra trimurti” della poesia rinascimentale al femminile

 

Ragazza che scrive, affresco romano di  Pompei del 50 d.C. circa

Dopo la figura di Saffo (630 circa – 570 circa a.C.), decisamente la più importante scrittrice del mondo classico, possiamo ricordare – sempre nella letteratura greca ed in quella latina – i nomi di Telesilla, Praxilla, Erinna, Nosside, Corinna, Sulpicia: di esse troppo poco sappiamo[1] per impostare un discorso approfondito per i non specialisti e, soprattutto, perché i “soliti noti” le abbiano potute collocare nell’Olimpo della letteratura femminista ante litteram o addirittura “proto-femminista”[2]. A parte si colloca poi la figura di Ipazia di Alessandria (350 o 370-415) – ma con lei passiamo dal campo della poesia a quello della filosofia (neo-platonica) e della scienza – emersa dall’oblio culturale soprattutto negli ultimi anni come figura di donna prima “martire” del libero pensiero, antesignana dunque dei vari Giordano Bruno et alii, ad opera dei cristiani, ovviamente presentati come fanatici e fondamentalisti, fieramente avversi alla “vera” cultura ed alla libertà di ricerca.

Lo stesso possiamo dire di “Compiuta Donzella” (è incerto addirittura se si tratti di uno pseudonimo o del suo vero nome) nell’ambito della poesia italiana medievale: vissuta a Firenze nel secolo XIII, di essa ci sono stati tramandati solamente tre sonetti in stile trobadorico-giullaresco.

Dobbiamo dunque arrivare al pieno rinascimento italiano (sec. XVI) per trovare addirittura una triade di poetesse di cui possiamo ricordare notizie bio-bibliografiche sicure, notando come anch’esse (proprio in virtù della dovizia di fatti riguardanti le loro esperienze) siano assurte a paradigma di una certa letteratura al femminile[3] che declina, costantemente e invariabilmente, verso il Femminismo, seppur ancora a livello inconscio.

Le tre poetesse di cui parliamo sono Gaspara Stampa (circa 1523-1554), Vittoria Colonna (1490 o 92-1547) e Veronica Gàmbara (1485-1550)[4].

 

Gaspara Stampa o la «sedotta e abbandonata dal nobilastro di turno»

Gaspara nacque a Padova verso il 1523 da una famiglia di origine milanese e di condizione borghese: alla morte del padre (1531), la madre, con Gaspara e i fratelli Baldassarre e Cassandra, si trasferì a Venezia. La morte del fratello nel 1544 fece sì che Gaspara meditasse di dedicarsi alla vita monacale. Di questo fratello restano alcuni sonetti, poi stampati con quelli della sorella.

Preparata in letteratura, arte e musica, a Venezia entrò nella società colta, nella quale condusse una vita elegante e spregiudicata, segnalandosi per la sua bellezza e per le sue qualità. Cantante e suonatrice di liuto, oltre che poetessa, fu accolta nell’Accademia dei Dubbiosi con il nome di Anasilla. L’abitazione degli Stampa divenne così uno dei salotti letterari più famosi della città, frequentato dai più famosi pittori, letterati e musicisti dello Stato.

Gaspara visse in modo libero e disinibito diverse esperienze amorose, che segnarono profondamente la sua vita e la sua produzione poetica, tanto che i poeti romantici videro in lei una novella Saffo, anche per la sua esistenza breve e vissuta in maniera intensa e passionale. Fra queste esperienze è da ricordare quella per il conte Collaltino di Collalto (1523-1569), uomo di guerra e di lettere, che durò circa tre anni (1548-1551), anche se il conte non ricambiò completamente il sentimento della poetessa. La relazione si concluse con l’abbandono della donna e le successive nozze (1557) di lui con Giulia Torelli, tanto che Gaspara attraversò una profonda crisi spirituale e religiosa.

Gaspara morì a Venezia nel 1554, di febbri intestinali, anche se alcune fonti riportano che si suicidò con il veleno per motivi amorosi. È comunque probabile che le pene d’amore abbiano peggiorato la sua salute fino a permettere alla malattia di condurla alla morte.

L’opera di Gaspara Stampa consiste nelle Rime, la maggior parte delle quali (in totale sono 311) indirizzate a Collaltino, pubblicate dalla sorella Cassandra nel 1554 e dedicate a monsignor Giovanni Della Casa (1503-1556), l’autore del famosissimo Galateo (scritto dopo il 1551 e pubblicato nel 1558). Esse seguono il modello petrarchesco e costituiscono una delle più interessanti raccolte liriche del Cinquecento.

Tale canzoniere, in forma di diario intimo in cui si alternano gioie e angosce, è una delle testimonianze letterarie più delicate della sensibilità femminile dell’epoca. I suoi scritti e la morte prematura fecero della Stampa una delle figure femminili più caratteristiche del suo tempo, nonché ispirazione delle diverse tesi romantiche sull’animo delle donne[5]. Un discendente di Collaltino, Rambaldo di Collalto, tentò con una biografia addomesticata di introdurre tra le glorie di famiglia la poetessa “plebea” che un patrizio del Cinquecento non avrebbe potuto sposare senza recare offesa alla casata.

 

Ritratto della marchesa Vittoria Colonna (1520) di Sebastiano del Piombo (1485-1547) 

 

Vittoria Colonna o la «amica/Musa ispiratrice dell’artista»

Nata a Marino, nei Castelli romani, non si sa con certezza se nel 1490 o, come è stato anche proposto, nel 1492, Vittoria, che ottenne poi col matrimonio il titolo di marchesa di Pescara, apparteneva alla nobile famiglia romana dei Colonna, figlia del famoso capitano Fabrizio Colonna (1460-1520), citato anche da Machiavelli (1469-1527), e di Agnese di Montefeltro (1470-1523), dei Duchi di Urbino. Per motivi di opportunità e di alleanze tra famiglie, quando entrambi erano ancora bambini, fu deciso il matrimonio tra Vittoria e Fernando Francesco D’Avalos (1490-1525): le nozze avvennero nel 1509.

La sua vita si svolse in un ambiente ed in un momento storico particolarmente felice dal punto di vista culturale: la poetessa conobbe e frequentò i più importanti artisti e letterati del secolo, tra cui Michelangelo Buonarroti (1475-1564), Ludovico Ariosto (1474-1533), Jacopo Sannazaro (1458-1530), Bernardo Tasso (1493-1569), Annibale Caro (1507-1566), Pietro Aretino (1492-1556) e molti altri.

Il matrimonio con Fernando D’Avalos, seppur combinato, fu tuttavia felice anche dal punto di vista sentimentale, anche se i due coniugi non poterono trascorrere molto tempo insieme, poiché nel 1511 Fernando Francesco partì in guerra agli ordini del suocero per combattere per la Spagna contro la Francia, venendo catturato durante la battaglia di Ravenna nel 1512 e deportato in Francia. Successivamente fu gravemente ferito durante la battaglia di Pavia (1525) e Vittoria partì per raggiungerlo, ma la notizia della sua morte la colse mentre era in viaggio. Cadde così in depressione e meditò il suicidio, ma riuscì a riprendersi anche grazie alla vicinanza degli amici. Decise dunque di ritirarsi in convento a Roma, stringendo nel contempo amicizia con varie personalità ecclesiastiche che alimentavano una corrente riformistica all’interno della Chiesa Cattolica, tra la prossimità all’eresia e l’eresia vera e propria, fra cui, soprattutto, l’umanista erasmiano Juan de Valdés (1505-1541) e l’eretico Bernardino Ochino (1487-1564).

Nell’anno del sacco di Roma (1527) si trovava a Marino, facendo ritorno solo nel 1531 nell’Urbe, dove, nel 1535 conobbe l’umanista fiorentino Pietro Carnesecchi (1508-1567), col quale intrecciò un rapporto di amicizia. Nel 1536 (o 1538) è da collocarsi il primo incontro con Michelangelo Buonarroti, ma l’amicizia con lo scultore e pittore crebbe, a partire dal 1539, fino al punto che ella mantenne per molti anni una stretta corrispondenza epistolare con il grande artista. Dopo alcuni anni passati a Viterbo, dove conobbe il cardinale Reginald Pole, Vittoria rientrò nel 1544 a Roma, dove morì nel 1547.

Le sue opere comprendono poemi d’amore per il marito; le Rime (suddivise in «amorose» e «spirituali»), seguono il modello petrarchiano e vennero stampate una prima volta nel 1538 e successivamente in molte altre edizioni. Importanti – come già detto – anche le sue Lettere, specie quelle inviate a Michelangelo e quelle ricevute da lui, che vennero, però, pubblicate solamente dopo la metà del secolo XIX.

 

Veronica Gàmbara o l’«amministratrice in carriera prestata alla letteratura»

Veronica Gàmbara nacque nel castello di Pratalboino (oggi Pralboino), nel contado di Brescia, nel 1485, da nobile famiglia. La famiglia Gàmbara vantava un’importante tradizione umanistica: uno zio paterno, Pietro, era un erudito che aveva in casa una tipografia; mentre da parte materna si poteva vantare il nome di quell’Alberto Pio di Carpi, uno dei più famosi eruditi umanisti.

Il padre, amante della letteratura, diede alla figlia un’ottima educazione umanistica, comprendente lo studio della filosofia, della teologia, del greco e del latino, vivendo la sua adolescenza tra Pratalboino e Brescia.

Nell’ambiente culturale bresciano del tempo Veronica cominciò a scrivere versi già durante l’adolescenza, obbedendo principalmente all’imitazione petrarchesca tipica del tempo, pur non trascurando anche accenti personali. Amica del teorizzatore del “petrarchismo”, cioè il veneziano Pietro Bembo (1470-1547), avvierà con lui una corrispondenza di lettere e sonetti fin dal 1502, continuandola fino alla morte del futuro cardinale.

Raggiunta l’età per le nozze, fu scelto per lei Gilberto VII (morto nel 1518), signore di Correggio, vedovo con una figlia Costanza (morta nel 1563) avuta dalla prima moglie Violante Pico (1475-1507), nipote del celebre umanista neoplatonico Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494). Il matrimonio fu celebrato nel 1508 in forma civile e l’anno successivo in quella religiosa, avendo dovuto gli sposi ottenere la dispensa papale. Il matrimonio, sebbene combinato, si rivelò felice e da esso nacquero due figli.

Dal 1518, dopo la morte del marito, si occupò degli affari dello stato di Correggio, che resse con notevole abilità e determinazione fino alla sua morte, avvenuta nel 1550. Anche per questa scrittrice parliamo, per le opere, di un epistolario e di una raccolta di Rime.

 

Visti brevemente gli aspetti caratteristici di queste poetesse, si può concludere che, pur essendo lungi da noi il voler sia negare o sminuire la portata delle loro esperienze, e in particolare delle loro sofferenze, sia abbassare il valore delle  loro opere poetiche, tuttavia ciò che colpisce è come una certa critica “militante” (ricordiamo, per il caso di Isabella di Morra, il nome di Dacia Maraini) abbia voluto innalzarle – forse aldilà delle loro reali esperienze – a simboli di un certo tipo di pensiero quanto meno «al femminile», se non decisamente femminista, sottolineando in modo a volte fin troppo radicale il soffrire d’amore, generato sia dal cinismo dei maschi, attenti solo ai loro interessi e sprezzanti dei bisogni femminili, sia dalla malvagia società del tempo, che vietava rapporti sentimentali “leciti” tra esponenti di classi differenti (per la Stampa e la Morra), oppure la loro moderna “apertura” mentale, che le faceva amiche, confidenti, amanti (?) di personaggi fuori dagli schemi del tempo come Michelangelo (nel caso della Colonna) oppure ancora “virago” forti e dominatrici, sia in campo letterario che politico, tali da tener testa a molti uomini dei loro anni (la figura della Gàmbara).

 

 

[1] Erinna, forse contemporanea di Saffo, ma di lei si ignorano altri particolari biografici: ci restano due epigrammi integri (nell’Antologia Palatina) ed alcuni frammenti di altre composizioni. Telesilla di Argo, fiorita nella prima metà del secolo V a. C.: di lei rimangono solo pochi brevi frammenti. Praxilla di Sicione (450 a. C.-?): la sua opera fu conosciuta dal commediografo ateniese Aristofane, che in due sue commedie fa la parodia di alcuni suoi versi; della sua opera lirica sopravvivono solo 8 brevi frammenti. Nosside (Locri Epizefiri, tra il IV ed il III secolo a. C.), appartenente non all’età classica, ma a quella ellenistica: di lei leggiamo dodici epigrammi nell’Antologia Palatina. Di Corinna poco o nulla sappiamo (persino il secolo in cui visse è incerto); l’unica certezza è che i suoi testi sono scritti in dialetto beotico. Sulpicia (fine I secolo a. C.), l’unica poetessa dell’antica Roma da noi conosciuta, ci ha lasciato 6 elegie contenute nel III libro del cosiddetto Corpus Tibullianum, più (forse) altri 5 carmi. Per ulteriori notizie su poetesse e scrittrici greche e latine si può consultare I. M. Plant, Women Writers of Ancient Greece and Rome, University of Oklahoma, 2004.

[2] Noteremo tra breve come delle figure di letterate donne si sia impadronita immediatamente (e con una foga degna di miglior causa) la psicanalisi e, in modo immediatamente consequenziale, la cosiddetta «critica psicanalitica», per ricercare, all’interno dei testi poetici “femminili”, spunti per collocare le loro autrici nelle più ovvie e banali categorie delle devianze e delle patologie psichiche, così da farne icone paradigmatiche, ed a volte anche modelli da imitare, per molte persone problematiche (più o meno colte) dei nostri giorni. Va da sé che quella psicanalitica, più che non altre tendenze critiche, ha trovato terreno fertile per progredire nel campo della intellettualità di sinistra o, più genericamente, liberal.

[3] È appena il caso di ricordare come negli ultimi anni (e per averne conferma basta consultare i cataloghi di parecchie case editrici o eseguire una semplice ricerca tra i siti internet) si siano moltiplicate, soprattutto nell’ambito poetico, le antologie di testi “al femminile”, come se la “sensibilità femminile” possa essere indagata, a livello poetico, iuxta propria principia, quasi in alternativa (se non in opposizione) alla poesia “al maschile”. Si dimentica – a questo proposito – che il primo (e forse anche l’unico) criterio di lettura e di analisi poetica è quello della sua bellezza artistica, intrecciata con l’utilità morale, prescindendo dal sesso del suo autore.

[4] Ad esse si può aggiungere (scoperta abbastanza recente) il nome di Isabella di Morra (Valsinni, Matera, ca. 1520-1546), autrice solamente di 10 sonetti e 3 canzoni, ma divenuta famosa perché angariata e infine uccisa dai suoi tre fratelli, rozzi ed ignoranti. In alcuni articoli a lei dedicati è definita, senza mezzi termini, «vittima di femminicidio».

[5] È interessante, a questo punto, citare il commento di Daniele Ponchiroli (1924-1979), che ha definito così il Canzoniere: «Umanamente complesso, ricco di “moderna” psicologia, il canzoniere della Stampa, che la nostra romantica sensibilità ha visto soprattutto come un “ardente diario” amoroso, risente dell’inquieta originalità di una vicenda umana “confessata” con femminile espansione. Nessun altro canzoniere cinquecentesco ci offre un così vivo interesse documentario e psicologico».

 

 

Facebook
WhatsApp
Twitter
LinkedIn
Stampa
Email

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Mettiti in contatto con noi!

Hai delle domande o delle osservazioni da comunicarci?
Ti risponderemo il più rapidamente possibile!

Europa Cristiana

Direttore Carlo Manetti

Iscriviti alla nostra newsletter

Se ci comunichi il tuo indirizzo e-mail, riceverai la newsletter periodica che ti aggiorna sulla nostre attività!

Ogni settimana riceverai i nostri aggiornamenti e non di più.

Torna in alto