Francesco Proto, Duca di Maddaloni non è certo una nostra scoperta. Il suo nome è legato alla Mozione d’inchiesta parlamentare nelle Province Napoletane, presentata al primo Parlamento d’Italia nella seduta del 20 novembre 1861 e che qui pubblichiamo integralmente.
Tuttavia egli è insufficientemente, inadeguatamente conosciuto.
Basterebbe il testo della Mozione[1], descrizione in presa diretta dello scempio del Meridione da parte dei conquistatori, a farne un nome imprescindibile nella valutazione storica dei fatti e dell’origine di tanti mali, mai chiamati col loro nome e mai emendati.
Francesco Marzio Proto Carafa Pallavicino nacque a Napoli il 22 marzo 1821 da Donato Proto, Duca dell’Albaneta, e da Clorinda Carafa, ultima erede dei Carafa di Maddaloni, una delle più importanti famiglie della vecchia aristocrazia napoletana. Ebbe un’ottima formazione classica, dedicandosi sin da giovanissimo ad opere letterarie e studi storici e scientifici. Nel 1845 sposò la nobile inglese Harriett Vanneck da cui ebbe l’unico figlio, Carlo Alberto.
Nonostante le sue forti convinzioni cattoliche, sin dal 1847 si schierò a favore di una svolta liberale del governo napoletano, partecipando alle manifestazioni che indussero nel 1848 Ferdinando II a concedere la Costituzione. Prese poi attivamente parte al progetto della «Crociata italiana» che, in concomitanza con la guerra contro l’Austria, intendeva riunire in Federazione gli Stati costituzionali della penisola, compreso quello pontificio. Non riuscendo a coinvolgere Carlo Alberto di Savoia, il progetto non ebbe seguito. A Napoli la parentesi costituzionale 1848/49 fu tormentata e tumultuosa sin dalle elezioni, nelle quali Proto fu eletto nel distretto di Casoria. Si concluse con lo scioglimento del Parlamento e un‘ondata di processi, in cui fu coinvolto anche Proto, condannato all’esilio. In seguito graziato, nel 1860 fu di nuovo esiliato e non rientrò più a Napoli fino all’insediarsi di Garibaldi.
In questa vicenda appare lo spirito indipendente del Duca che, con generosità giovanile e lungimiranza, sostenne una svolta liberale del regno di Napoli, ma nello stesso tempo ne propugnò l’autonomia, in una visione federalistica e di difesa dell’identità cattolica. Nella convulsa fase di annessione al nuovo Regno, il Duca, pur rifiutando l’incarico remunerativo offertogli da Garibaldi, mantenne un atteggiamento di realismo, disponibilità e dialogo, al fine di portare avanti nella nuova realtà politica le questioni che gli stavano a cuore. Ricandidato ed eletto nel collegio di Casoria, pose al centro della campagna elettorale e poi delle sue prime iniziative parlamentari la difesa degli ordini religiosi soppressi, la denuncia della propaganda protestante e la proposta di trasferire a Napoli la capitale del Regno, proposta sulla quale tentò di coinvolgere lo stesso Cavour. Anche in questo, Proto si dimostrò privo di pregiudizi e consapevole di agire nei margini strettissimi di una situazione che, se non tempestivamente corretta, avrebbe accentuato antiche e nuove contraddizioni, a scapito delle aspirazioni ed interessi del popolo meridionale. La morte improvvisa di Cavour, il rapido svanire di ogni illusione circa le promesse del neonato regime, e il precipitare della situazione stessa, porterà inesorabilmente Proto ad una svolta politica, per farsi nel Parlamento del Regno d’Italia testimone attivo e denunciante l’ingiustizia, la sopraffazione e l’orrore.
Nel frattempo, a partire dal 1857, l’attività politica del Duca aveva trovato un contraltare romantico nella sua vena di drammaturgo, che attinge a vicende e caratteri eroici, secondo lo stile dell’epoca. Ed in effetti qualcosa di avventuroso ed estremo, un tono tragico con risvolti grotteschi segna la stessa vicenda della «Mozione d’inchiesta per le province napoletane», presentata da Proto al banco di presidenza della Camera riunita a Torino a Palazzo Carignano nella seduta del 20 novembre 1861.
L’Aula del Parlamento Italiano, Palazzo Carignano, Torino
La Mozione non è riassumibile, perché l’autore si impegna in un’estrema sintesi, documentata, argomentata e umanamente sofferta della “piemontizzazione”[2] del Meridione, illustrandone via via gli aspetti sociali, politici, finanziari, militari, religiosi e complessivamente identitari. Oggi viene letta come un “classico della cosiddetta controstoria”[3], e questo, se le ridà visibilità, la emargina però a “voce dei vinti”, tra quelle evenienze fantasmatiche dissolte dalla dura positività dei fatti e dei concreti rapporti di forza. Ma la vicenda non è così netta, né i rapporti di forza erano allora così certi e stabili, e lo dimostra il fatto che in quella seduta del 20 novembre 1861 la Mozione non fu letta, né tanto meno discussa dai membri del Parlamento d’Italia.
Sin dalla preparazione della sessione parlamentare, vi era stata una chiamata all’appello dei deputati meridionali ligi al Governo, e il Presidente del Consiglio Bettino Ricasoli aveva aperto la seduta con tono intimidatorio, invitando a non fare «discussioni inutili» su «cose che, purtroppo, sappiamo». Proto ebbe solo la possibilità di fare un breve e moderatissimo intervento, quasi a giustificarsi della sua iniziativa. Ciononostante, subito si scatenò una furibonda campagna di stampa locale, con sunti della Mozione (ufficialmente non nota), dipingendo il deputato Proto come un nostalgico borbonico che aveva osato portare un attacco violento, antiunitario, nel cuore del Piemonte. Parte della stampa napoletana si accodò, e furono fatte circolare sui giornali fasulle sottoscrizioni di elettori a sconfessione del loro deputato. Lo scopo era isolare a livello di opinione pubblica e personale il Proto, per costringerlo a ritirare la Mozione e a dimettersi. «La Civiltà Cattolica», che indicherà in seguito il Duca come unica voce cattolica nel Parlamento, parlerà anche di intimidazioni e minacce di morte. E Proto, forse sinceramente stupefatto di fronte alla scorrettezza dei nuovi e vecchi mezzi di far politica, in effetti si dimise il 27 novembre, facendo leggere da altri in Parlamento un testo in cui dichiarava di non ritirare la Mozione e di essere anzi intenzionato a pubblicarne e diffonderne il testo,
«acciocchè gli amici del vero e la storia possano conoscerne le vere
parole e il senso, e però giudicare a loro agio tra me ed i miei
avversari politici.».
Ma allora, la Mozione del Duca faceva così paura? E tanto più l’Inchiesta parlamentare che essa così fondatamente propugnava? La vicenda non mostra, con l’eccessivo e cinico dispiegamento di mezzi, il nervosismo di un potere fondato su clientele ed affari, precario nella sua arroganza, incapace e alla lunga indifferente di fronte ai problemi e alle responsabilità etiche di governo? La Mozione del Duca di Maddaloni, la sua stessa dichiarazione di dimissioni, nel loro stile fiorito e appassionato, sono sotto questo profilo una voce del nostro tempo, più di quanto lo sia la retorica unitaria che 150 anni fa la mise a tacere e ha continuato a farlo.
Proto, bersagliato da calunnie e ingiurie anche dopo le dimissioni, si dedicò come preannunciato a pubblicare a Napoli e a Nizza il testo della Mozione, a diffonderlo e prepararne le traduzioni per l’estero, mentre nel distretto di Casoria si scatenavano per la sua sostituzione grotteschi intrighi durati anni.
A Roma il testo della Mozione fu pubblicato integralmente dall’Osservatore Romano nel gennaio 1862 e poi in estratto. Nel corso dello stesso anno fu pubblicato a Parigi, Londra, Bruxelles e Vienna.
Negli anni susseguenti si affiancarono alla Mozione, confermandone la correttezza e lungimiranza, altri testi d’inchiesta e di denuncia sulla situazione del meridione, e al passaggio del secolo il testo integrale fu pubblicato dal settimanale socialista La Colonna e poi da «Il Mattino», «col rispetto e con la venerazione che conquistano ineffabilmente le grandi Verità e le profezie che trovano una piena conferma nei fatti».
Nonostante questo successo di stima, e la citazione del Duca di Maddaloni in vari saggi su singoli aspetti della questione meridionale, le celebrazioni del Centenario, sancendo la narrazione ufficiale della vicenda unitaria, si risolsero in una nuova riduzione a silenzio della Mozione, troppo precoce e militante per essere integrata e resa innocua, e troppo istituzionale (o peggio aristocratica) per essere ammessa nella memoria delle lotte popolari e di classe. Così la Mozione, il suo contenuto, la sua vicenda esemplare e il suo autore stesso, non ebbero accesso all’ufficialità storica, della scuola, della divulgazione, e nemmeno della toponomastica. Carenza non emendata nella ricorrenza del 150°, se non con iniziative di associazioni e di singoli.
Nel tempo il Duca ebbe a riflettere certo amaramente sulla sua esperienza politica, maturando una profonda revisione dei suoi stessi orientamenti, come trapela da un suo ironico epigramma:
M’hanno chiamato liberale onesto,
e nol fo per mostrarmi più modesto,
ma per parlar preciso veramente,
io sono liberale penitente.[4]
Ma sulle valutazioni e considerazioni anche autocritiche del Duca torneremo, perché esse ebbero a riversarsi nella sua opera letteraria e nella sua personale evoluzione spirituale.
(1 – continua)
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Mozione d’inchiesta parlamentare
nelle Province napoletane
presentata dal Deputato Proto Duca di Maddaloni nella seduta del 20 novembre 1861 della Camera dei Deputati del Regno d’Italia.
Testo integrale (sono state fatte alcune piccole correzioni confrontando con successive versioni a stampa).
Onorevoli Signori,
Deputato della destra, e però non accusato mai né sospetto di caldeggiare idee avverse alla monarchia costituzionale, od a quel pacifico andare, ch’è la ragion suprema ed obbiettiva, la idea archetipa di ogni reggimento; eletto da quel collegio istesso che l’anno 1848 mi deputava al Parlamento napolitano, e vincitore nell’agone elettorale, tuttoché con assai male arti facesse guerra alla mia candidatura la oscena setta dei piemontizzatori, a quei dì strapotente in questo mio infelicissimo paese; cittadino napolitano, e sin dalla prima età caldo e costante zelatore del bene e dell’onore della mia patria; avea fatto disegno di levar finalmente la voce contro le enormità di codesto governo in queste provincie meridionali, sì tosto sarebbersi riassembrati nell’aula parlamentare i rappresentanti della nazione. Ma troppi, e troppo gravi sono i fatti dei quali io deggio far parola, nè forse saprebbe esporli la mia inesperienza oratoria, nè alle Onoranze Vostre piacerebbe forse lo ascoltarli tutti quanti. E frattanto il male imperversa, e corre a rovina lo Stato, e l’ignominia piove a dirotto sul nostro capo; però io credo debito della mia coscienza e dell’onor mio lo affrettarmi a presentare questa Mozione d’inchiesta avvalorata delle ragioni che a ciò mi spingono, perché Voi non possiate dire di non aver saputo dello stato vero della nostra cosa, ed io, quando che sia, non possa venire accusato di essermi taciuto, o peritato innanzi al potere esecutivo; perché io non sia posto fra coloro che, tempo non tarderà, saranno additati come assassinatori, come patricidi del loro paese; perché i miei figlioli non abbiano un dì a vergognare di un nome che ereditai senza macchia.
Il Marchese Dragonetti, Senatore del Regno scrivendo testè delle nostre sventure, diceva il 1860 “figlio di un passeggiero entusiasmo, e che nel vero fu voto di sudditanza a re Vittorio Emmanuele, e non già di abdicazione della propria personalità.” Ed io, dove modestia il permettesse. aggiungerei alle parole di quell’illustre uomo di Stato che il plebiscito del 21 ottobre, non che di passeggiero entusiasmo, era anche figliuolo della temenza incussa agli abitatori di questa nostra contrada, non tanto dalla presenza delle già arrivate armi piemontesi, quanto dall’anarchia nella quale eravamo per cadere, e dalla quale credevamo il governo piemontese ci avesse a salvare.
Per i popoli, qualunque esso sia, è vitale bisogno un governo; perciocché l’assenza di esso è peggiore di ogni tirannide. I popoli del Napolitano (non c’inganniamo fra noi, non partiamo da falsi dati) sorpresi, affascinati da meraviglioso ardimento, stanchi di una signoria che contrastava loro le giuste aspirazioni di libertà e d’indipendenza italiana. accolsero amico il Garibaldi. Ma fastiditi ben tosto, di lui no, ma degli uomini che per esso reggevano, o meglio sgovernavano la pubblica cosa; e paurosi, ripeto, dell’anarchia, accettarono partito di darsi a Casa Savoja; ed oggi abborrenti dalla tirannide e dalla rapacità piemontese, ed inorriditi dall’anarchia, la quale sotto il Garibaldi era alle porte del regno ed oggi vi si è messa dentro a regnarvi ferocemente, darebbersi a qualsiasi uomo o demonio, il quale non il bene di queste contrade promettesse fare, ma sì il loro male minore. I popoli del Napolitano non volevano i piemontesi. ma il Governo Subalpino, aggraffando fortuna per la gonna, avrebbe dovuto esso fargli volere e rendergli necessari. A ciò non si perviene se non con i benefizi e il buon reggimento. Bisognava il Governo Subalpino tenesse parola, divenisse davvero ciò che aveva promesso sarebbe: un governo riparatore.
E che facevano invece gli uomini di Stato del Piemonte e i partigiani loro che qui nascevano? Hanno corrotto quanto vi rimanea di morale, hanno infrante e sperperate le forze e le ricchezze da tanto secolo ammassate; hanno spoglio il popolo delle sue leggi, del suo pane, del suo onore, e sin dal suo stesso Dio vorrebbero dividerlo, dove con Iddio potesse combattere umana potenza. Hanno insanguinato ogni angolo del regno, combattendo e facendo crudelissima una insurrezione, che un governo nato dal suffragio popolare dovrebbe aver meno in orrore.
II governo di Piemonte toglie dal banco il danaro de’ privati, e del danaro pubblico fa getto fra i suoi sicofanti; scioglie le accademie, annulla la pubblica istruzione, per corrottissimi tribunali lascia cadere in discredito la giustizia; al reggimento delle provincie mette uomini di parte, spesso sanguinosi ladroni, caccia nelle prigioni, nella miseria, nell’esilio, non che gli amici e i servitori del passato reggimento, (onesti essi siano o no, chè anzi più facilmente se onesti) ma i loro più lontani congiunti, quelli che non ne hanno che il casato; ogni giorno fa novello oltraggio al nome napoletano, facendo però di umiliare così nobilissima parte d’Italia; pone la menzogna in luogo di ogni verità; travolge il senso pubblico per le veraci idee di virtù e di onoratezza; arma contro ai Cittadini i Cittadini; e tutti in una vergogna conculca e servi e avversarii e fautori.
II governo piemontese trucida questa metropoli, che la terza è di Europa per frequenza di popolo, e la prima d’Italia per la bellezza di doni celesti, e la più gloriosa dopo Roma; questa metropoli onorata e serbata libera sin dagli stessi dominatori del mondo; questa stata sedia di tanti Re potentissimi che regnavano o proteggevano quasi tutti gli altri stati d’Italia, e sotto ai principi di Soave [gli Svevi] capitale dello impero; e dopo averla oltraggiosamente aggiogata alla sua Torino, alla più povera ed alla meno nobile delle città d’Italia, a Torino la cui istoria nelle istorie della Penisola occupa non più lunghe pagini che quelle dei feudi di Andria, o di Catanzaro, o di Atri, o di Crotone, ora le viene a togliere anche il misero decoro di una Luogotenenza, a strapparle anche quel frusto di pane che un contino od un generaletto di Piemonte potrebbero gittare dallo alto de’ sontuosi palagi dei suoi Re.
Quando io mi recava a Torino per vacare ai lavori parlamentari, per cercar col mio povero ingegno che cosa di bene potessi fare pel mio sventurato paese, per portare anch’io una pietra onde far puntello alla ruina della patria, fui a visitare il Conte di Cavour. E gli dicea provvedesse, pensasse a Napoli, non ponesse tempo in mezzo: che Italia dove volesse o potesse davvero unificarsi, non potrebbe ciò che con Napoli, per Napoli ed a Napoli. Però portasse sulla Plaga delle Sirene la sedia del nuovo Regno.
Ma non si deve andare a Roma? mi rispose domandando graziosamente quell’illustre, che certo era il più amabile spirito che io mi conoscessi. Ed io dissi lui, che per verità non credevo a Roma si anderebbe mai, e che per le mie opinioni religiose e conservatrici nol desiderava punto; che non avrei mai voluto Italia perdesse la sua maggior gloria, e tutta la società civile la pietra angolare ch’è il Papato. Dissi credere che il Pontefice Romano non potrebbe diventare il cappellano del Re d’Italia.
A Roma il Re d’Italia potrebbe prendervi sì la corona, ma non sedervi a’ piedi di tanta grandezza sovramondana; e dopo non brevi parlari (ne’ quali il nobile Conte diedemi bella prova delle sue piacevolezze) concluse egli che in fin delle fini ben comprendeva Italia non potrebbe governarsi da Torino; e dove Roma non si potesse avere, certamente Napoli, dove gravita il pondo della penisola, sarebbe la sua capitale. Però non è mestieri confessi come io, Torinese di Napoli, mi accontentassi facilmente di tali parole, ed a tali condizioni non mi spiacesse molto la unità d’Italia. Vedevo già Roma sedia santissima ed inviolabile della santissima maestà de’ Pontefici, la Chiesa libera in libero Stato, e Napoli divenuta metropoli di un regno di 24 milioni di uomini e sedia dei Re d’Italia, siccome fu de’ Romani Imperatori in antico. A tal prezzo raffreddavansi un tantino il mio amore per la confederazione italiana, per il peculiare progredimento e la grandezza delle singole parti della penisola..
Ma tomato in patria, vidi che il governo di Piemonte non cuciva ma tagliava, e più che tagliare strappava e lacerava alla impazzata: ed oggi che esso non può più baloccarci con la parola Roma; che ne’ gabinetti d’Europa è stabilito a Roma non potervisi andare oggi né mai, che fa ora il governo di Piemonte? Trasferisce a Napoli la sedia dello Stato? Rende a Napoli ciò che le ha tolto? Cessa dal frodarne le ricchezze, da lo spogliarla de’ suoi istituti e delle sue leggi e de’ suoi uomini, da lo insanguinarne le terre, dallo incendiarne le provincie? No! Il governo di Piemonte le toglie ora pur l’ombra della sua autonomia, il governo di Piemonte la diserta d’ogni reliquia di regimento, le toglie i ministeri, gli archivii, il banco del denaro de’ privati, i licei militari, fa di suscitare il municipalismo delle provincie contro il municipalismo dell’antica metropoli, senza addarsi che per ciò non ribellerà mai a Napoli le altre città del suo reame, ad essa congiunte per interessi e per gloria antichissimi, ma adescherà l’anarchia provinciale: dove di altra esca che della stessa dominazione piemontese avesse bisogno l’anarchia.
Ma abbiamo l’Unità! Diranno le Onoranze Vostre. E sia pure. Ma io ricordo che Italia era Una anche sotto Tiberio e gl’imitatori di lui. Aveva le forme liberali, un senato, una potestà tribunizia, due consoli, libertà municipali quant’hai voglia; e pure era serva, era misera, era cortigiana, era vile. Certo voi non la vorreste cosi. Voi non vorreste rinnovellato il tempo di Odoacre, sotto le cui orde barbariche anche era una l’Italia.
Bella unificazione è quella di una Contrada, cui si affoga in un mare di sangue, cui si crocifigge in un letto di miserie. E pure questo misfatto perpetrano gli uomini preposti oggi alla cosa pubblica: essi che spengono ne’ nostri popoli anche le dolci illusioni di libertà, che gli fan vedere come un reggimento costituzionale possa di leggieri diventar sinonimo di dispotismo, come all’ombra di un vessillo tricolore facilmente possa violarsi il domicilio, il segreto delle lettere e la libertà personale manomettere, e sin le orme stesse della giustizia, e gli accusati tenersi prigionieri ed ingiudicati lunga pezza, e mandare a morte senza neppur procedura di giudizio, per solo capriccio di un caporale o per sospetto, o per delazione di uno scellerato. Questi uomini ci danno da divedere come illusoria potesse tornare la libertà della stampa, libera a Napoli per i servi, non per gli amatori del pubblico bene, come si possa violar impunemente quando si voglia lo Statuto fondamentale, senza che vi sia uomo o potere che vi metta inciampo o che ne faccia querela.
E vulnerato hanno essi non una volta la Costituzione del 4 marzo 1848 [Lo Statuto Albertino]. La violarono la instituzione delle luogotenenze e poi l’abolizione di esse senza aver consultato le Camere che le consentivano; la violarono il concedere eccezionali poteri ai di loro uomini; la violarono la istituzione delle prefetture e la discentralizzazione di non poche facoltà del ministero, e per le quali, se timido il Prefetto, il governo cadrà nell’inerzia; se arrischiato, le provincie gemeranno sotto il dispotismo prefetturale, e violavasi finalmente quando testè cangiavasi il nome di ministro degli affari ecclesiastici in quello di ministro de’ culti, quasi che per lo statuto del 1848, diverso e non uno fosse il culto della monarchia di Savoia.
La loro smania di subito impiantare nelle provincie Napoletane quanto più si poteva delle istituzioni di Piemonte, senza neppur discutere se fossero o no opportune, fece nascere sin dal principio della dominazione piemontese il concetto e la voce piemontizzare. L’opera de’ fuorusciti, e massime di quelli che avevano vissuto a Torino, confermò troppo la sentenza del Machiavelli, che gli dicea “fatali alla cosa pubblica”, largamente mostrando essi come nel reggimento di queste provincie non fosse unità di sistemi nè di massime, non mezzi, non fini determinanti, non giustizia distributiva, ma invece espedienti di governo presi e dismessi secondo l’esigenza de’ casi personali, favori ed ire personali, sdegno della propria gente, non amore di patria, non il paese, ma una setta. Non indarno stettero unite otto secoli queste nostre contrade, e l’abitudine della loro autonomia, già divenuta coscienza di nove milioni di uomini, non si può cancellare dal loro animo con un tiro di penna di un dicastero di Torino, o con la grata compiacenza di un esule.
Le leggi sono espressioni della nazione e de’ bisogni de’ popoli, e questi (di opinione o di fatti che siano) nascono dal clima, dall’indole degli abitatori, dal loro civile progredimento, dalle loro condizioni religiose, economiche, politiche, dagli errori stessi, e dai pregiudizii delle plebi, i quali non perché pregiudizii ed errori, non vogliono andar rispettati. Tutto ch’è di un popolo è sacro, e chi per suffragio di popolo si tiene in sedia misconoscerà questa massima? Conciossiachè se per la natura delle cose e la varietà delle umane vicende, egli è impossibile che due popoli si trovino in pari condizioni materiali e civili, opera tirannica è il costringere l’uno nelle leggi dell’altro, perocchè le leggi senza i costumi vanno vote.
Quid leges sine moribus?
diceva il nostro cantor venosino, e veramente di questa loro inefficacia non può non nascere la ribellione e l’anarchia. Roma soggiogò il mondo, e le sue leggi tuttochè civilissime e sapientissime non furono ricevute dai nostri popoli d’Italia e da quei di fuori che ben tardi e come jus moribus receptum. E l’avvocato Mancini per bandire le leggi piemontesi, lesto venne da Torino, e non aspettando neppure il consentimento del Parlamento Italiano, gran numero di esse pubblicava per decreto Luogotenenziale il 17 febbraio, la vigilia stessa dell’apertura di esso Parlamento. E di altre (approvate in massa) faceva inserire un indice nel Giornale uffiziale dello stesso giorno, però che al consiglio di Luogotenenza era mancato il tempo, non che di discutere, di leggerle; ed egli è per questo che quando nei giorni posteriori al 18 febbraio fu letto e poi dato a stampa il testo di esse, nacque, di santa ragione, nell’universale, la opinione che si pubblicassero leggi apponendovi l’anti-data.
E già l’avvocato Scialoja aveva pubblicato le rovinose leggi finanziarie con che capovolse il sistema delle entrate napoletane, ciò che né egli né i suoi superiori potevano fare. E queste arrischiate pubblicazioni nelle loro epigrafi non portan neppure la parola unificazione, ma sì quella anche più dura dell’annessione; nella pubblicazione di esse facevasi in tutto il novello regno zoppo ed acefalo; però che nella Lombardia attuavasi il solo Codice penale de’ Sardi, e la Toscana (tranne l’introduzione de’ giurati) continuò a reggersi colle antiche sue leggi. II Corpus juris del napoletano e massime il codice penale, e quello di penal procedura, per sentenza di tutti i giureconsulti di Europa è di gran lunga superiore a quello degli Stati Sardi. Mutare il buono per il mediocre, se può parer bello ai Ministri piemontesi, non parrà certo provvido ed opportuno espediente a nullo uomo di Stato, che logicamente ponderi i mali e le necessità di una unificazione di provincie.
Le leggi contro gli istituti cattolici in queste contrade superlativamente cattoliche, non poco valsero a confermar la taccia di miscredente, e di nemico di Santa Chiesa, che si aveva il Governo Sabaudo in queste provincie, siccome per tutt’Europa veramente; e l’abolizione dell’antica polizia ecclesiastica, e de’ concordati, misero il caos nella Chiesa del Napoletano. Arroge la persecuzione pazza e spudorata de’ più degni pastori, le violenze fatte al loro ministerio, la prigionia e gli esilii, senza neppur forma di processo, de’ più venerandi ministri del Santuario, e sin di un Principe della Chiesa [l’arcivescovo di Napoli Sisto Riario Sforza], carissimo ai napoletani per virtù e per benefizi, e la morte data a non pochi di essi nelle insurrezioni provinciali, e gli scherni e gli oltraggi gittati a piene mani al sacerdozio, alla Chiesa Cattolica ed al suo Capo visibile, dai sicofanti della rivoluzione piemontese, ed il vedere i teatri fatti scuola d’immoralità, di miscredenza, di ateismo, e cangiato in postribolo tutto, e la propaganda eterodossa che il governo (sì, il dirò pure) non che lasciar correre a sua posta, assai perfidamente spalleggia e manoduce, tali ire hanno accese e messo tale barriera tra l’una parte e l’altra della Nazione, che dove fosse ancor tempo di guerre religiose, ed una riformazione, od una scisma fosse creduto possibile, già da più mesi il sangue cittadino avrebbe polluto le nostre vie ed i templi, per propugnare la fede dei nostri padri, e mortificare gli orditi de’ novatori.
Ma questo non è tempo di religiose riformazioni. Roma è sul punto di guadagnare, non di perdere nello imperio delle nazioni; né noi crediamo possibile distruggere in Italia l’unica e naturale unità della penisola, l’unità della sua fede, culla e palestra di ogni italiana grandezza. No, noi non siamo uomini di fondar nuova Chiesa, noi che non ancora sapemmo fare una legge comunale! Quel Giovanbattista Vico, del quale tanto ipocritamente onorasi oggi la memoria, teneva somma ventura di un paese la unità di religione. Tiberio dettava leggi per castigare la impudicizia e la irreligiosità de’ teatri ed il governo piemontese si mostrerà anche più turpe di Tiberio? Fu un ministro piemontese [si riferisce a Michele Pironti] che testè scrivendo ai vescovi d’Italia, sacrilego, osava minacciare uno scisma, ove essi non parteggiassero per la rivolta, e non si separassero dal Successore del Maggior Piero.
Furono i piemontizzatori che sfecero la Università Napolitana, però che le università sono ne’ professori, e questi furono tutti destituiti per dar luogo ad uomini, i quali (tranne l’illustre Roberto Savarese, e non so quale altro) non sono già uomini di scienza, ma di parte. Furono i piemontizzatori che sottrassero l’insegnamento pubblico alla necessaria vigilanza dell’Episcopato; ed essi scacciarono dall’Università Napoletana la facoltà di teologia, senza la quale non è Università, e di cui sono accomodati gli studii protestanti e scismatici e quelli di tutte le religioni e delle loro sette. Ahimè! Era la Università di Napoli, la scuola dell’Aquinate e del Vico, quella che dovea ateizzarsi prima in Europa? Ed uomini della nostra terra erano designati a porgere tanto scandalo al mondo civile?
Certo non felice era sotto ai Borboni lo stato dello insegnamento superiore; ma pure non s’insediavano nella Cattedre che uomini di gran riputazione: un Galluppi, un Lanza, un Flauti, un De Luca, un Bernardo Quaranta, un Macedonio Melloni, il quale, tuttochè esule di Parma ed in voce di gran liberale, fu chiamato qui e deputato a non poche faccende politiche; ed il Melloni era raccomandato al governo borbonico da Francesco Arago repubblicano ardentissimo.
E peggiorato è anche l’insegnamento secondario. Sette licei sono in piena dissoluzione, perocché diretti da uomini inesperti, e non di rado illetterati ed immorali. E l’istruzione elementare non progredisce passo. I comuni mancano quasi tutti di scuole ad onta dei tanti ispettori, sottoispettori, organizzatori, bidelli, scelti tutti tra i piemontizzatori, nè pochi venuti da Piemonte.
Per uomini del governo piemontese fu dato lo scandalo singolare della dissoluzione della famosa Accademia napoletana delle Scienze e di Archeologia, e l’Istituto di belle arti venne abolito con un decreto di Luogotenenza. Ira di parte gl’istigava a ciò, ed in questo hanno gloria di aver sorpassato i Del Carretto, i Peccheneda, i Mazza, gli Ajossa [ministri e direttori della polizia del regno borbonico] che non consigliavano a cacciar dal sodalizio de’ dotti quegli di opinioni contrarie al reggimento assoluto, il Borrelli, il Capocci, il Bozzelli, il quale venne nominato socio dell’accademia appena reduce dall’esilio, e quando spesso sostenuto e braccheggiato dai cagnotti della polizia. Fu tenuta scelleratezza il vedere tolto l’Osservatorio Astronomico al Capocci, dopo la rivoltura del 1848. Si diceva a Napoli e fuori: che ci ha a che fare la politica con l’astronomia? E pure il pauroso governo della reazione permetteva al Capocci liquidasse la sua pensione di giustizia, ed a lui sostituiva il de Gasparis astronomo, per certo non men peritissimo del Capocci.
Ma io non verrò facendo qui il parallelo degli uomini e de’ fatti del governo borbonico e del nostro. Questo farò altrove, se giova, e pregovi frattanto notar solamente che il bilancio del ministero d’istruzione pubblica nel napoletano sotto ai Borboni presentava la spesa di Ducati 378.442,92, e dopo la rivoluzione, la spesa di Ducati 543.499,61; e malgrado l’aumento di Ducati 165,056,69, la pubblica istruzione, non che peggiorare, perisce.
Tutto disfacendosi per sistema, cercasi distruggere la Zecca di Napoli, ch’è la prima dopo quella di Londra e di Vienna, superiore anche alla Zecca di Parigi; e sottomettesi a vergognoso processo lo antico reggente di essa, ed il Presidente della gran Corte de’ Conti, nè pochi altri gravi ed onesti uffiziali per dar ragione del valore della moneta napoletana, moneta eccellente di tanto, che come esce di regno, vien rifusa. Nè forse sapevasi in Piemonte come la Zecca di Londra mandasse a Napoli le sue monete per farne il saggio?
Ma questo è provvisorio, mi si risponderà, e così ad un provvisorio sopperendo per solito altro provvisorio, e spesso di gran lunga peggiore, testé per il governo de’ luoghi di pena mandavasi da Torino il Regolamento e bandi per li bagni fatto a tempo di re Carlo Felice, e segnato dal primo segretario di guerra e marina des Geneys; ed il quale regolamento ricorda ancora i tempi in cui i servi di pena erano costretti al remo, e che però rimanda anche più addietro il già vecchio sistema penitenziario del napoletano. La bella appendice che potrebbe fare il Gladstone alle sue lettere [contro i Borbone], ove leggesse questi regolamenti e bandi per li bagni del de Geneys!
E per le finanze che cosa vi dirò io? Nell’anno 1860 il reame di Napoli pagava un esercito di 100 mila uomini, un’armata che era la prima tra le marinerie di secondo ordine, una lista civile, ed una rappresentanza all’estero: e questi quattro rami costavano una spesa annuale di Ducati 16.203.625,02. Ed oggi che queste provincie non pagano più né esercito, né armata, né corte, né corpo diplomatico, le loro entrate non bastano neppure alle spese degli altri rami di pubblico servizio?
Le entrate napoletane nel bilancio del 1860 erano prevedute per la somma di Ducati 30.135.442. Questa cifra, so ben io, non poteva essere più la stessa nell’anno 1861, sendo partita da Napoli la Sicilia; epperò veniva necessariamente ridotta di tutta la quota che la Tesoreria dell’isola paga a quella delle provincie continentali, in Ducati cioè 4.157.525; e però le entrate delle Provincie napoletane nell’anno 1861 andavano ridotte alla somma di Ducati 25.977.917. So ben io come a questa prima riduzione bisognasse aggiungere altre, come la modificazione delle tariffe doganali, la restituzione dei dazii di consumo alla Città di Napoli, la diminuzione del prezzo dei sali, ed altre, e per le quali le entrate trovansi ridotte a Ducati 22.407.659.
E frattanto l’aumento di spesa de l’anno 1861 sul 1860, è di Ducati 4.126.799,87, fra i quali figurano per aumenti di soldi Ducati 1.578.894,18, e Ducati 602.000, per aumento di pensioni di giustizia ed interessi del debito pubblico, e Ducati 1.945.905,69 per aumento di spese di servizio. Ma dove si considera che nel detto aumento per le spese di servizio i soli lavori delle regie ferrovie figurano per Ducati 1.302.000, e che questa somma va depennata per essere state vendute codeste ferrovie: e se d’altra banda ci facciamo a notare come le pensioni di giustizia per i funzionari pubblici messi al ritiro fossero aumentate di altri Ducati 440.000 a tutto marzo 1861, e che il debito pubblico è cresciuto anch’esso di altri Ducati 500.000, ne inferisce che quasi tutto il disavanzo nasce dallo aumento dei soldi del debito pubblico e di pensioni a funzionari messi al ritiro per cedere ad altri il loro posto, per pagare i facitori della presente rivoltura.
Questo fatto è ben lo specchio che riflette la oscena opera degli uomini preposti alla pubblica cosa, e nella dilapidazione dello erario del Napoletano chi non saprebbe affigurare la ragione delle sventure che per noi sì durano?
E dopo tanto sperpero della pubblica pecunia, è egli ricco il popolo? Ha pane, ha lavoro, supremo bisogno delll’umanità? Intere famiglie veggonsi accattar l’elemosina; diminuito, anzi annullato il commercio, serrati i privati opificii per concorrenze subitanee, intempestive, impossibili a sostenersi, e per lo annullamento delle tariffe e per le mal proporzionate riforme; né d’altro in fatto di pubblici lavori veggiamo fare, se non lentamente continuarsi qualche branca di ferrovia, o metter pietre inaugurali di opere, che poi non veggonsi mai continuare.
E frattanto tutto si fa venir di Piemonte, persino le cassette della posta, la carta per i Dicasteri, e per le pubbliche amministrazioni, chè non vi ha faccenda nella quale un onest’uomo possa buscarsi alcun Ducato, che non si chiami un piemontese a disbrigarla. A mercanti di Piemonte dànnosi le forniture della milizia, e delle amministrazioni, od almeno delle più lucrose; burocratici di Piemonte occupano quasi tutti i pubblici uffizi, gente spesso ben più corrotta degli antichi burocratici napolitani, e di una ignoranza, e di una ottusità di mente, che non teneasi possibile dalla gente del mezzodì. Anche a fabbricare le ferrovie si mandano operai piemontesi, i quali oltraggiosamente pagansi il doppio che i napolitani; persino a facchini della dogana, a carcerieri, a birri si mandano piemontesi, e donne piemontesi si prendono a nudrici nell’ospizio dei trovatelli, quasi neppure il sangue di questo popolo più fosse bello e salutevole.
Questa è invasione, non unione, non annessione! Questo è un voler sfruttare la nostra terra, siccome terra di conquista. Il Governo di Piemonte vuole trattar le provincie meridionali come il Cortes od il Pizzarro facevano nel Perù e nel Messico, come i Fiorentini nell’agro Pisano, come i Genovesi nella Corsica, come gl’inglesi nei regni del Bengala. Ma esso non le ha conquistate queste contrade; esso le ha abindolate, perciocché, non è soggiogare un paese, il prepararsene l’ausilio per cospirazioni, od il corrompere e lo squassare la fede dello esercito, ed il comperarne i condottieri, ed i consiglieri del principe indurre al tradimento.
Soffrite pur, gliel diciamo, il governo piemontese fa a Napoli come quel parassito che, invitato a desco fraterno, ne porta via gli argenti. E questa sua avarizia non è di lieve momento nella opinione invalsa nell’universale, che la signoria Subalpina sia fuggevole, però che non cape nel senso popolare il pensiero, che si distrugga la casa nella quale si voglia far stanza.
Lo scioglimento dell’esercito borbonico fu poi il più grave delitto del governo piemontese, perciocché per esso sperperandosi follemente un gran nerbo di forza italiana facevasi sempre più fiacco il nuovo regno, e serviva meravigliosamente al talento dei politici austriaci, che mal vedevano l’esercito delle provincie meridionali si aggiugnesse a quello delle subalpine. Ed ingiusta, e dirò più, bugiarda è la brutta taccia di codardia che il Barone Ricasoli insultando al vinto (al tradito dirò meglio) davagli nella sua famigerata nota circolare del 24 agosto; perciocché diversamente dicevano di esso esercito, ed il Garibaldi, ed il Cialdini, e perché i ministri di Piemonte (cerchino pure nel profondo della loro coscienza), se da una ragione erano sospinti allo scioglimento di quelle armi, ben era da quella tema che esse incutevano loro; sì della tema che un giorno, sbriacato del passeggiero entusiasmo, vergognando della servitù, scotessero il giogo piemontese, e volgessero le armi contro all’esercito settentrionale, e ristaurassero il trono napolitano.
II governo di Piemonte sciolse l’esercito napolitano, perciocchè dove quello fosse stato ancora in sulle armi, non potrebbe far così aspro governo delle nostre provincie. Ed esso oggi lo ingiuria ne’ suoi atti diplomatici? E vuole far una l’Italia? E ne oltraggia così la maggior parte; però che dar del codardo ad un esercito, egli è schiaffeggiar la Nazione ond’esso venne descritto.
E di que’ pochi uffiziali che non lasciavansi poltrire nell’ozio od invilirsi nella miseria o suicidarsi, come fece taluno di essi per non veder perire dalla fame i figliuoli, che cosa ha fatto il governo piemontese? Ha rispettato i gradi che guadagnò loro il valore guerresco, e quella fede verso il loro Re che tanto saggiamente si onora dall’onorato esercito subalpino, e senza la quale non è esercito? No, il governo di Piemonte doveva favorire le promozioni dei suoi conterranei. Re Ferdinando I di Borbone rispettò i gradi guadagnati dai suoi sudditi nello esercito murattiano che combatteva contro ai legittimi diritti della sua corona. L’Austria rispettò tutt’i gradi guadagnati dai suoi sudditi della Lombardia in combattendola sotto le bandiere di Napoleone il Grande, ed il governo di Piemonte non ha saputo imitare neppure la generosità dell’Austria!
Né egli è a dire ch’esso così governavasi a riguardo dell’esercito napoletano per abborrimento di chi osteggiava l’Unità Italiana, o per deficienza di valore che trovasse negli uffiziali napolitani; perciocché, egli è da un alto personaggio del Reame che io ho udito a dire essere Egli ammirato del valore napoletano, trovar la napoletana artiglieria superiore di molto alla piemontese; e perché lo aver fatto cosi per sordida malizia, bene il dimostra il modo che ha tenuto contro all’armata, a quella marineria napoletana che impedì a re Francesco II il respingere i mille del Garibaldi e che diedesi mano e piedi legata al Piemonte. Il che Dio le perdoni e la storia.
Essa fu sciolta, fu riordinata, secondo che mi si dice, al peggio, e con un tiro di penna vennero cancellate tutte le sue tradizioni, certamente più antiche e gloriose di quelle della così detta Marineria Sarda. In questo nuovo ordinamento, gli uffiziali della flotta napoletana avrebber dovuto essere i primi, e sono divenuti gli ultimi, e venner privati de’ soldi goduti per sovrani decreti, dei gradi meritati per pubblici esami, o per fatti di valore, del diritto di liquidar essi medesimi o le loro vedove la pensione per cui avevano lunghi anni rilasciato il 2 e 1/2 per cento de’ loro averi.
Io non entrerò già difensore degli uffiziali dell’esercito napoletano che ad istigazione della setta unitaria, e degli stessi diplomatici piemontesi, abbandonarono le bandiere il giorno della battaglia per starsi a Napoli neutrali, o peggio per combattere contro al loro Re ed ai loro fratelli d’arme. Ma il governo piemontese, che non ha riconosciuto i gradi conceduti ai valorosi difensori di Gaeta, perocché difendevano ciò che è sacro per ogni uomo di onore, di qualunque parte, di qualunque nazione esso sia, la Religione della loro Bandiera, bene avrebbe dovuto, non che rispettare quelli guadagnati dai disertori dell’esercito borbonico, levare a cielo le loro persone, e far loro l’apoteosi. Ma non ha fatto così, e però esso fu malvagio o verso gli uni o verso gli altri. Ma gli uni e gli altri sono napoletani e sappiano che non vi ha d’uopo di altra colpa per dispiacere a ministri piemontesi.
E forse fu anche per ragione politica lo sfacimento del Collegio Militare della Nunziatella, la miglior scuola politecnica d’Italia, e quello della nostra Accademia di marina onde uscivano i Caracciolo, i Bausan, i de Cosa? Ma che dico io di un governo che strappa dal seno delle loro famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati ufficiali sol per sospetto che nudrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegali a vivere nella fortezza di Alessandria, o in altra inospite terra del Piemonte? Che dirò io degli uffiziali deportati all’isola di Ponza? Loro delitto fu il militare per la corona, allora che re Francesco II ancora combatteva per essa sulle riviere del Volturno e del Garigliano, o fra le mura di Gaeta, e lo averlo seguitato a Roma nell’infortunio? Accomiatati dalla maestà di Lui, si restituirono a Napoli credendo sacra la guarentigia dell’Imperatore dei Francesi, e le promesse di Re Vittorio Emanuele. Il piroscafo La Costituzione fu spedito apposta a Civitavecchia per imbarcarli a portarli in seno delle loro famiglie; ma appena afferrato a Napoli furono circondati da un battaglione di bersaglieri, e così condotti nel Castello del Carmine. Ivi furono ritenuti prigionieri 17 giorni, e quindi deportati all’isola di Ponza. Sono discorsi sei mesi, e quei miseri gemono ancora su quello scoglio selvaggio. I soli siciliani ebbero facoltà di ripartire; ma tutti i napoletani che furono o militari o uffiziali di Segreteria non poterono essere vendicati in libertà, ed incredibile a dirsi, non hanno che la misera sovvenzione di un carlino al giorno (quaranta centesimi e mezzo) coi quali non è possibile cibarsi salutevolmente. Muoiono della fame. Chieggion lavoro, né lo si vuol concedere loro. Vi ha gentiluomini che sonosi offerti anche a vangare la terra per buscarsi pane più sufficiente. Però sono essi trattati peggio che i galeotti. E perché mai? Qual delitto hanno commesso eglino, perché il governo piemontese abbia a spiegar tanto lusso di crudeltà? Perché abbia a torturare con la fame e con l’inerzia e la prigione uomini nati in Italia come noi?
Ma più che stolta ed ingiusta, fratricida ed immanissima tornava la dissoluzione dello esercito napoletano. perocché essa diede agio ai soldati di esso di riassembrarsi e di affortificar 1’ira di un popolo conculcato, che da per ogni dove insorge per la indipendenza della nazione napolitana contro la signoria subalpina. Lo esercito napoletano, tradito da’ suoi generali, voleva mostrare al mondo che non era esso traditore né codardo, e si ragunava ne’ monti, e benché privo di armi e di condottieri, piombava terribile contro ad un esercito non reo della sua oppressione. II sangue di questa guerra fratricida piombi su quelli che l’accesero, ed esso li affogherà; perocché rei di meglio che ventimila uomini spenti, quali nella lotta, quali fucilati perché prigionieri o sospetti od ingiustamente accusati; e di tredici paesi innocenti dati in preda al sacco ed al fuoco. Essi colpevoli dello aver fatto nascere e fecondato la insurrezione, essi credettero poterla vincere con il terrorismo, e con il terrorismo crebbe l’insurrezione, e così corrompesi anche quel solo di buono che avevasi il Piemonte, l’esercito piemontese; conciossiaché misero quell’esercito che la necessità della guerra civile spinge ad incrudelire ed abbandonarsi a saccheggi e ad opere di vendetta.
La mente mi si turba e tremami la destra in pensando le immanità, che faranno terribilmente celebre la storia di questa rivoltura, e le quali io mi propongo descrivere in altra opera, avvalorandole de’ documenti opportuni, sittosto le ire saranno calme. Gl’imbelli che perirono in questa guerra passarono di gran lunga gli armati, ed infinite le famiglie che scorrono prive di pane, di tetto, per la campagna, e ricoverano come belve negli antri e nei sotterranei, e infiniti gli orfani che cercano indarno de’ loro genitori morti nelle fiamme del borgo natio, o passati per le armi da’ piemontesi, o periti in luride prigioni, dove a migliaia stivansi i sospetti decimati dalle febbri e dalle altre infermità che ingenera un aere putrido e rarefatto.
I delitti perpetrati in questa guerra civile ci farebbero arrossire della umana spoglia che vestiamo. Gente della nostra patria vien passata per le armi, senza neppur forma di giudizio statario [processo sommario] sulla semplice delazione di un nemico, pel semplice sospetto di aver nudrito o dato asilo ad un insorto. Soldati piemontesi conducono al supplizio i prigionieri negando loro i supremi conforti della fede; né a pochi feriti venne ricusata l’opera del cerusico, cosicché furono lasciati morire nelle orribili torture del tetano. Testé a Caserta furono fatti prigionieri due dei così detti briganti, e da due giorni si teneano in carcere digiuni. Gridavano essi pane! pane! E niuno rispondeva loro. Finalmente fu schiuso il doloroso carcere, e quando quei miseri fecersi alla porta credendo ricevere alimento, furono presi e condotti nella corte e fucilati.
Si fece un’amnistia. Era un contadino di Livardi per nome Francesco Russo, il quale ferito nell’anca, viveva da più giorni tranquillo presso la consorte e i figliuoli, sotto alla fede dell’indulto. Gli amici di lui dicevangli si celasse, non si credesse alle proclamazioni del Pinelli [generale piemontese]; ma egli non voleva sentir parola e rispondeva non esser possibile che un militare di onore rompesse fede; e mentre che questi detti ei forniva, soldati piemontesi entrarono nella sua casa, e condottolo a Nola, il fucilarono.
Si bandì risparmiarsi la vita a chi presentavasi; ed un contadino dell’agro nolano per nome Luigi Settembre, soprannominato il Carletto, presentatosi a preghiera de’ suoi vecchi genitori, de’ quali era unica prole e sostegno, tosto venne immanemente fucilato, non altrimenti che fatto prigioniero nella pugna. I due genitori superstiti, uccisa dal rimorso la ragione, vagano ora dementi per la campagna.
II generale Manhes il cui nome fa orrore anche ai più duri partigiani della rivoltura francese, combattendo i briganti delle Calabrie non mandava mai a morte persona senza regolare processo. Ahimè! E verrà giorno che soldati italiani si dirà essere stati più immani del Manhes straniero! Presso Lecce facevansi prigionieri tredici soldati borbonici sbandati i quali non avevano che sette fucili. Si credeva alcuni di essi sarebbero risparmiati, ma no: furono tutti e tredici fucilati.
Testé a Montefalcione erano sostenuti ottanta insorti, e ne venivano passati per le armi quarantasette. Domata la insurrezione di Montefalcione cinquanta dei ribellati pensarono scampare alla strage rifugiandosi nel tempio. Ma i soldati piemontesi, rotte le porte, vi penetrarono, ed i miseri nella stessa casa di Dio furono scannati. Nel Gargano infiniti carbonieri [operai nelle miniere di carbone] furono presi per briganti, e morti issofatto tra le loro consorti e i figliuoli, accanto alle loro stesse fornaci. Molti di essi venivano condotti a Napoli come trofeo, e fu chiaro quelli essere miseri e pacifici villani! S’incendiano nella campagna tutti gli abituri de’ contadini, e le ville e le taverne in che possano ricoverare gl’insorti. Si tira addosso a tutti che portan farsetto di velluto, abito che credesi da brigante, e a data ora ogni contadino dee abbandonar il suo campo, pena la morte!…Ahimè. mercé questo Governo che ci asservisce, il soldato onde speravamo la franchezza d’Italia, è tenuto, nelle provincie napoletane, siccome maledetto, siccome nemico di Dio!
Nei vortici di fiamme che divoravano il vecchio ed adusto Pontelandolfo udivansi alcune voci di donne cantanti litanie e miserere. Certi uffiziali si avanzarono verso l’abituro onde veniva quel suono, ed apersero l’uscio, e videro cinque donne che scapigliate e ginocchioni stavano attorno di un tavolo su cui era una Croce con molti ceri ivi accesi. Volevano salvarle; ma quelle gridando: Indietro, maledetti! Indietro…non ci toccate, lasciateci morire incontaminate! si ritrassero tutte in un cantuccio, e tosto profondò il piano superiore e furono peste le loro ossa, e la fiamma consumò le innocenti. II giorno posteriore a tanto eccidio, all’incendio di due paesi, di Pontelandolfo e di Casalduni, l’uno di cinque, l’altro di settemila anime, leggevasi nel giornale ufficiale di Napoli il telegramma: Ieri mattina, all’alba, giustizia fu fatta contro Ponttelandolfo e Casalduni. No! Il diario di Nerone non avrebbe più cinicamente portato la novella di quegli orrori!
Ma io non istarò a fastidirvi più a lunga con il racconto delle mille ferità di tal sorta di che sono pieni gli stessi giornali ufficiosi ed ufficiali del Governo e le quali facevano, e fanno tuttora terribile la insurrezione delle provincie napoletane, né d’altronde capirebbe negli stretti limiti di questa mia mozione il novero dei truci episodi di una guerra civile, che dai monti di Calabria si stende nel Basilicato e nell’Apulia, e di colà nel Capitanato e nel Contado di Molise, e nel Beneventano, e nei monti di Avellino e nella Campania e negli Abruzzi, o de’ saccheggi e degli stupri e dei sacrilegi che precedettero gl’incendi paurosi di Auletta, di S. Marco in Lamis, di Viesti, di Cotronei, di Spinello, di Montefalcione, di Rignano, di Vico di Palma, di Barile, di Campochiaro, di Guardiaregia, e delle già dette Pontelandolfo e Casalduni, però che non è mestieri conoscere tutto per chiarire la Signoria piemontese immanissima.
Ed il governo piemontese fece crudele la guerra civile coi disperati e crudeli mezzi di combatterla, ed esso, cosi facendo, fa l’Unità, uccisa l’unione: però che un popolo così manomesso non dimenticherà mai le perpetrate scelleratezze, ed apporrà a tutta una provincia italiana i delitti di una setta, e così imperversando non sarà possibile neppure la Confederazione degli antichi stati della penisola.
In ogni angolo delle nostre provincie sorgerà un monumento di questi giorni nefasti. Ogni campo si troverà gremito di croci sepolcrali; ogni capanna ricorderà le stragi di questo tempo; ogni tempio adornerà un altare espiatorio che ricordi la guerra fratricida; ogni provincia mostrerà i ruderi di una o più città incendiate, e colà trarranno in pellegrinaggio i nepoti delle nostre vittime, e gli additeranno ai loro figliuoli siccome esempio terribile del dove possa condurre una Nazione il voler attuare pensieri innaturali od immaturi.
Il governo piemontese (siccome è avviso all’universale) rimoveva dal reggimento di queste provincie il generale Cialdini ed il Pinelli, però che comprese inutile anzi più micidiale tornare il terrorismo che la buona guerra. Ma un’altra cosa, per amor d’Italia, deh! faccia: sciolga la guardia nazionale mobile, però che la pestifera sua instituzione non è fatta per estinguere la guerra civile, ma per eternarla. Il dì che il governo di Piemonte se ne sarà andato con Dio, non riposeranno già queste provincie, ma troverassi il parente armato contro il figliuolo, ed il fratello contro il fratello, ed un Comune irrizzito contro l’altro, e le ire non quieteranno, e sarà mestieri altra forza che nel sangue degli uni e degli altri spenga la guerra intestina. Sappiamo a tutte queste accuse mi si risponderà il consueto: Ma come si fa? Tempi eccezionali vogliono eccezionali misure.
Ma io farovvi considerare che così dicendo scrivesi la difesa del Mazza, e del Campagna [ufficiali della polizia borbonica], le cui molestie diventano carezze giuggiole accanto alle ferità del Pinelli, del Galateri, del Negri, del General della Chiesa ecc… Anch’essi dicevan “Come si fa? II Piemonte cospira contro il reame, e noi dobbiamo frustrarne gli orditi.”
No, miei Signori, vi hanno leggi, vi son consuetudini che noi non possiamo violare senza oltraggiare le leggi stesse della natura, e la pubblica moralità dilaniare, senza scalzar le basi della società, la cui salute è di maggior momento alle genti che la grandezza del Piemonte o d’Italia. No, non credasi potersi fondare imperio sulla lubrica base del sangue, nella sedia dell’ingiustizia, o senza altra legge che quella della opportunità momentanea, o della sanguinosa e rapace necessità di Stato. No, il governo piemontese non fonda, ma distrugge. L’Austria dall’alto delle fortezze di Mantova e di Verona ci guata; e sapete perché non muove ad assaltarne? Perché noi ci suicidiamo: e veramente nuovo pazzo sarebbe quello che tirasse sul nemico nell’ora stessa che questi di per sé gettasi nel precipizio. E nel precipizio già avvalliamo noi, caduti in discredito fuori, e dentro divenuti esosi agli onesti.
Ed io mi ho il triste conforto dell’aver preveduto il danno, e di averne parlato alto da meglio che due anni. Allora che uscito una seconda volta in ingiusto esilio, venni, diciotto mesi or sono, a Firenze, e mi fu parlato dei vasti disegni di Unificazione, della prossima dissoluzione del reame napoletano, inorridii, gridai mercé, chiedeva arrivassero al che sarebbe di Napoli.
Mi fu risposto da taluno: Napoli starà peggio, ma noi staremo meglio. Fremetti a tali parole. Desiderai piuttosto si eternasse il mio esilio che il ritornare a prezzo della ruina della mia patria. Però non i piemontesi io ho in odio. Tolga Iddio che io abbia in animavversione popolo d’Italia e popolo probo e valoroso, se non dotato di spiriti elevati e peregrini. Ma quei napoletani io esecro, che qui conducendo i piemontesi, tradirono il Piemonte e la loro patria, e che, di continuo diffamandola, istigano il governo Subalpino a perpetrar lo spolio e la strage del loro paese. Io parlo per ver dire; io parlo per amor di patria, troppo forse siccome taluno unitario dicevalo, quasi che troppo potesse mai essere amore di patria, e qualunque sarà la vendetta della setta dei piemontizzatori, venga pure che io l’aspetto; però che peggior di ogni danno sarebbe sempre il rimorso e la pubblica maledizione.
E la maledizione pubblica è sul suo capo. Da per ogni dove sorge una voce che la condanna e la vilipende. Le città ed il regno sono divise in fazioni, ma le fazioni tutte si accordano nell’abborrire gli uomini di essa. E voi ben dovreste accorgervene, sapendo come non fosse qui giornale che possa esistere e voglia difendere la dominazione piemontese, dove non sia stipendiato e venduto.
Perché si spacci, una scrittura deve condannarla, colmarla d’ingiuria, di disprezzo. Se vien fuori opera di un propugnatore dei diritti del popolo e delle antiche ed imperiture nazionalità, tosto non se ne trova più copia, tutti correndo a leggerla avidamente; e se questa metropoli che le dice anatema, non insorge tutta quanta come un uomo solo contro alla Signoria piemontese, egli è perché vede che perisce, perché il generoso, l’indomito cavallo napoletano già da gran tempo fiutò il suo cadavere.
Sì, la è questa la verità delle cose, non quella che va strombazzando una stampa meretrice, il mendacio comprato a dieci o più mila franchi per mese. E a che valse al governo piemontese lo aver chiuso tutti gli aditi perché luce non possa uscire? A che vale lo aver compro i giornali più letti di Europa? Questi che l’anni scorsi, mentre sua fortuna rigogliava, maledicevano di esso, ne dicean perduti; ed oggi che è morituro, lo dice forte e vincitore? E pure non valsero ad ingannar persona.
Tutta Europa ora sa che n’è delle cose nostre, ed il nome del governo piemontese si oltraggia per ogni terra, L’oro che profondeva esso per abbindolare la opinione Europea, non ha ingannato che lui stesso, lui che non volendo far sapere verità, ha finito per non saperla egli medesimo, e che, rimasto al buio, simile ai ciechi della parabola, procede appoggiandosi ai ciechi. Gli è per i suoi errori che vien vilipesa la rappresentanza nazionale, tutta quanta creduta correa di esso. Un gentiluomo, già carissimo al popolo napoletano [si riferisce a Carlo Poerio], e del cui infortunio politico, nonché le provincie nostre ed Italia, tutta Europa dolorava, oggi perché partigiano del governo piemontese, caduto è in abominio dell’universale, ed i suoi amici per difenderlo deggiono dirlo imbecille, scemo dalla prigionia l’intelletto. Questo sì ne dia la misura della pubblica opinione, non il ciarlone favore di una gente compera o grulla, eterna fautrice del potere; di pochi disonesti che hanno per patria la cassa del tesoriere, sanfedisti di Savoia, che non è crudeltà cui non trovino valorosa, non disonestà che non dicano pudica, non ingiustizia che non proclamino proba; di pochi bellimbusti, troppo presto scappati dalla scuola, ed i quali accalappiati da furbi, e politicando per moda giudicano bello l’andar delle cose; perocché bella è la divisa della cavalleria piemontese, ed in good condition i cavalli.
Ed egli è per queste ragioni che io mi fo oso domandare le Onoranze Vostre vogliano votare una inchiesta parlamentare nelle provincie meridionali, ed avvisare però al che possa farsi per tenere in pace od in fede queste contrade. II governo piemontese pose mano ad ogni mezzo. Della Luogotenenza del Principe di Carignano io non parlo, perocché essa non fu che laido sperpero di pecunia ed uno scherno per il nostro paese, alloraché nel paese più grave d’Italia, (ché sotto l’ilare suo aspetto il popolo più serio e più superbo d’Italia è il napoletano), nella Galilea della Filosofia, mandavansi a’ ministeri gente più da spasso, che da lavoro. Ma sotto di essa Luogotenenza nasceva e cresceva la guerra civile, ed il Conte di Cavour mandava il Conte di S. Martino perché impiantando la legalità e la moralità, dove il ministero di Nigra e de’ suoi predecessori avevano posto l’arbitrio e la corruzione, potesse pacificare il paese. Ma la rivoltura era già rigogliosa, aveva già guadagnato gli animi e le cose, e la onestà e la esperienza del saggio amministratore non valsero punto. Egli si trovò solitario, perché gli onesti non accostavano l’inviato del Piemonte, e dei turpi non poteva valersi, né voleva.
Il Barone Ricasoli spedì il Cialdini perché col terrorismo domasse il già fuggente paese, e questi, tutto che chiamasse a lui di intorno tutte le frazioni della parte liberale, tutto che facesse spargere a torrenti l’uman sangue, né cosa niegasse che alla rivoltura piacesse, neppur feriva il segno, e lascia la reazione più forte che non era sotto il Carignano ed il S. Martino. Ora mandasi il General Lamarmora perché cerchi di ristabilire la legalità. Il nome di Lamarmora, il so, suona giustizia e fermezza: ma farà esso più o meglio che non fecero i suoi predecessori? Un uomo del Governo di Piemonte che ne’ scorsi mesi venne in queste provincie per avvisare al da farsi, diceva comprendere bene come il regno di Napoli non fosse domabile, ma che l’Italia doveva farsi quand même, e che però queste provincie sarebbonsi tenute come una Turchia.
Se questo è il pensiero de’ ministri piemontesi, badino che il guanto non sia fieramente rilevato dal paese mio e dall’Europa: dall’uno in nome dell’onore campestato e della sua indipendenza; dall’altra in sostegno dell’umanità conculcata. Badino, perché il giorno della Vendetta Divina non può tardare, né tarderà. Il destino delle nazioni non è nelle mani dei ministri ma in quelle di Dio! Il governo di Piemonte è superbo, né mai fu superbo che non cadesse misero e vile. Esso ha sparso il sangue fraterno, e su lui pesa la maledizione di Caino. Troppo, troppo sangue innocente grida vendetta contro di essi, troppi miseri dal fondo delle prigioni, dall’esilio, dalla povertà in che gemono, gli maledicono, e quando desiderano il puro aere del loro cielo, e quando veggonsi i figliuoli e la consorte e i vecchi parenti estenuati e mordonsi per rabbia le mani e per fame.
Avvisiamo al da farsi. Rinsaviamo. Salviamo da più lunghi mali questa patria. Cansiamo una invasione di stranieri, oggi, che la Francia ci abbandona a noi stessi, che Roma non potete più sperare, che il fantasma dell’Austria e della coalizione nordica ci sorge d’incontro minaccioso, che Italia al modo che si è pretesa farla, non par più possibile si faccia, che da non pochi è tenuto nullo il plebiscito, e da moltissimi, anche ammettendolo, non è tenuto più valido il poter nostro, come quello che alle condizioni di esso non più si conforma. II governo di Piemonte non può superare le difficoltà interne, e dove anche bastasse a ridurre in fede le provincie napolitane, sorgerà giorno che tutti ecciteranno gli spiriti d’Italia contro a questa egemonia piemontese, e per verità ciò che in sei mesi or sono, consigliava opportuno a fare Italia, cioè il trasferire a Napoli la sede della Monarchia, oggi nol saprei più suggerire, perciocché lealtà di gentiluomo mel difende. Il governo piemontese metterebbe in compromesso 1’antico senza poter più serbare il novello acquisto. Rinsaviamo dunque. II male è più radicale che non si pensa. Non ama Italia soltanto quegli che la vorrebbe una ed indivisibile, ma quegli più è suo amico che la vuole civile e concorde, piuttosto che barbara e discorde, ed una e morta, purché in deserto feretro di regina.
[1] Nel 2015 la Mozione è stata pubblicata in edizione critica a cura e con ampio saggio introduttivo di Giuseppe Pesce, a cui siamo tributari di puntuali notizie intorno alla Mozione stessa. Francesco Proto La Mozione d’inchiesta per le Province Napoletane al primo Parlamento d’Italia. Alessandro Polidoro editore Napoli 2015.
[2] Il termine «piemontizzazione», come illustra Giuseppe Pesce in Francesco Proto La mozione d’inchiesta op.cit. p.39 nota 1, è neologismo coniato in quegli anni, su cui scrisse un articolo anche Carlo Collodi.
[3] Giuseppe Pesce in op.cit. p.7
[4] Come non pensare ad Ernesto il disingannato, romanzo anonimo uscito a puntate nel 1873/74 sul giornale napoletano Il trovatore, in cui in forma di feuilletton si narrano le vicende del giovane ingenuo e idealista Ernesto, che viene strumentalizzato dalla cricca napoletana filounitaria e poi, resosi conto della realtà del potere instauratosi nella città, “si pente” e aderisce alla causa legittimista? Il romanzo è stato ripubblicato: Ernesto il disingannato a cura di Gianandrea de Antonellis, ed.Vincenzo D’Amico, Nocera Superiore 2017.