Fate a Bordighera, altra cosa rispetto al fantasy digitalizzato, politicamente corretto e neopagano

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L’epoca romantica appare quella in cui la letteratura fantastica è uscita dai limiti delle tradizioni popolari per affermarsi come genere: la narrazione che mescola realtà e fantasia, visionarietà e concretezza, ha preso un posto centrale nella cultura occidentale, abbellimento o fuga che fosse dalle nuove tendenze tecnologiche e capitalistiche della società. Soprattutto nelle culture del nord, britannica e tedesca in particolare, il “regno delle fate”, la fiaba, la leggenda, ponendosi in continuità con il patrimonio nazionale riscoperto ed oggetto di raccolte e di studi, hanno ampliato le prospettive artistiche, anche nei settori musicali e delle arti visive. La fiaba, proprio nel momento dell’avviarsi di processi sociali che ne avrebbero inaridito le fonti e i modi della trasmissione orale, diveniva una forma del narrare che animava la natura e l’esperienza umana di dimensioni “altre”, senza per questo venire pregiudizialmente in contrasto con la dimensione spirituale e metafisica. Ponendosi a metafora, a simbolizzazione dei misteri del cosmo e dell’animo umano, la letteratura fantastica arricchiva di nuove intuizioni l’atteggiamento contemplativo dell’artista, non più nelle forme dell’allegorismo settecentesco, ma in una nuova fervida creazione: sub-creazione, la definirà Tolkien, rivendicandola come dono e risorsa tipicamente umana, e come tale facente parte dell’armonia e dell’ordine del creato. [1]

Con la fantasia l’Uomo può assistere effettivamente al dispiegarsi e al molteplice arricchimento della creazione. Tutte le narrazioni si possono avverare, pure alla fine, redente, possono risultare insieme simili e dissimili dalle forme che avevamo dato loro, proprio come l’Uomo, finalmente redento, sarà simile e dissimile, insieme, rispetto all’uomo caduto a noi noto.

Una tappa di cosciente acquisizione e convinta espressione di tale ricchezza è data dall’opera di George MacDonald (1824-1905), scrittore scozzese, che lo stesso Tolkien pose come suo ispiratore, nel dare egli stesso seguito alla “sub-creazione” fantastica nelle dimensioni ed epicità che sappiamo. Il libro in cui MacDonald dà la sintesi e insieme la premessa della sua opera seguente è Phantastes: A Fairie Romance for Men and Women (1858),[2] in cui viene evocata con visionaria potenza la vita misteriosa che animerebbe le forme e i fenomeni della natura: fate, elfi, gnomi, giganti, cavalieri, personificazioni di fiori, alberi, rocce, spiriti elementari della terra, dell’aria, del fuoco, delle acque, un mondo completo e drammatico esiste in contiguità con l’umano, ad esso riproponendo l’eterna opposizione tra il bene e il male. L’arte ha la potenza di evocare questo mondo, attraverso la narrazione -parole, musica, arti visive-, lo rende credibile, emozionante, morale: quindi “reale”. Quella di Anodos, protagonista di Phantastes, è in esso un’immersione completa, tanto che nel finale vi è una morte al mondo “altro”, col ritorno alla dimensione umana e la percezione dell’eternità.

 

George MacDonald, 1862

 

Una vita illuminata dalla fede

George MacDonald era pastore della Chiesa Congregazionista, ma questo, se dà misura della sua spiritualità, non definisce la sua vita e i suoi interessi. In effetti la sua esistenza è essa stessa un romanzo. Discendente del clan dei Glencoe, la sua famiglia, numerosa e di stretta osservanza calvinista, non aveva mezzi per sostenerlo negli studi, ove prediligeva i corsi scientifici naturalistici e quelli letterari. Nel 1842 si impiegò presso privati per il riordino di una ricca biblioteca, il che gli permise ampie letture formative, da Dante a Shakespeare ai romantici tedeschi. Abbracciato il sacerdozio, ebbe in cura nel 1851 una parrocchia nel Sussex, ove si distinse come predicatore appassionato ma alquanto eterodosso per i Congregazionisti, tanto che infine si dimise, trovandosi senza mezzi di sussistenza per la famiglia che si era nel frattempo formata. Si trasferì a Manchester, dove portò avanti la sua attività letteraria, incoraggiato e sostenuto dalle società operaie e da amici che credevano in lui. Sono gli anni in cui scrive Phantastes, l’opera a cui attualmente è più legata la sua identità di autore. Si trasferirà in seguito a Londra, ove la sua produzione letteraria si fa ampia e di crescente successo: romanzi, libri per l’infanzia, racconti, testi teologici, sermoni. Nel 1879, consolidata la sua situazione economica, poté farsi costruire una casa ove il clima fosse favorevole per la sua salute malferma: il luogo sognato e prescelto fu Bordighera, la “Casa Coraggio”[3], ove passava quasi tutto l’anno, componendo le sue opere, e che divenne punto d’incontro d’illustri visitatori e semplice gente del luogo, della comunità inglese e degli amici italiani. Tra letture, canti religiosi, recite teatrali, tra gli incanti della Riviera dei fiori, come non pensare ad un convegno di fate, alle magie di Phantastes?

Negli ultimi anni la salute declinante, poi la morte della moglie, lo spinsero al rientro in Inghilterra presso i figli, ove morì nel 1905. Le sue ceneri e la tomba della moglie sono però nel cimitero inglese di Bordighera.

 

George MacDonald, Phantastes a faeríe romance, illustrazioni di Arthur Hughes, edizione 1905

 

Ammirato e amato

L’aura che distingue MacDonald è l’eccezionale seguito e risonanza che ha avuto la sua personalità e la sua opera presso scrittori a lui contemporanei e successivi. Numerosa, varia e prestigiosa è infatti la lista di autori, soprattutto inglesi e americani, che l’hanno indicato come loro personale riferimento culturale e biografico, e come precursore del genere fantastico più moderno. In particolare C.S.Lewis (1898/1963) argomentò la propria stima e ammirazione per MacDonald e la sua opera a soggetto morale e teologico. Parlando di Sermoni non detti scrisse:

Il mio debito verso questo libro è grande quasi quanto un uomo può averlo  nei confronti di un altro: e quasi tutti i ricercatori seri a cui l’ho presentato riconoscono che ha dato loro un grande aiuto, a volte un aiuto indispensabile verso l’accettazione stessa della fede cristiana (…) Non ho mai nascosto il fatto che lo consideravo il mio maestro; anzi, credo di non aver mai scritto un libro in cui non citassi lui.

Quanto alle fiabe, l’autore di Cronache di Narnia riferisce:

«[Un giorno, prendendo una copia di] Phantastes presso una bancarella di una stazione ferroviaria, ho iniziato a leggere. Poche ore dopo, sapevo di aver attraversato una grande frontiera».

Lewis Carrol scrisse la sua prima storia di Alice nel 1863, chiamata allora Alice’s Adventures Under Ground; la sottopose per una valutazione a George MacDonald, con la cui famiglia era in rapporti di amicizia. Insieme ritennero che la prova migliore sarebbe stata farla leggere alla moglie Louise e ai figli piccoli. L’esito fu entusiastico e spinse Carrol a proporre la fiaba per la pubblicazione e poi ad allungarla. Per parte sua, Carrol fece molti ritratti fotografici dei bambini MacDonald.

 

Lewis Carrol con Louisa MacDonald e quattro dei suoi figli, 1862

 

Quanto a Chesterton, ebbe a dichiarare di considerare George Mac Donald come uno dei tre o quattro più grandi uomini del XIX secolo. Egli scrisse nell’introduzione alla biografia scritta dal figlio Greville MacDonald:

Ma in un certo senso un po’ particolare io posso davvero testimoniare un libro che ha segnato la mia intera esistenza, che mi ha aiutato a vedere le cose in un certo modo sin dall’inizio; una visione delle cose che anche una rivoluzione così reale come un cambiamento di appartenenza religiosa ha sostanzialmente solo coronato e confermato.(…) S’intitola “La principessa e il folletto” ed è di George MacDonald.

Più complesso il rapporto con Tolkien, il cui testo Sulle fiabe prende le distanze dalla fiaba vittoriana e rivendica una libertà inventiva che va oltre gli elementi allegorico-edificanti. In effetti Tolkien tenne a differenziarsi da Lewis e dalla fiaba d’intento moralistico, per “subcreare” un mondo completo in cui l’eterno scontro tra il bene e il male è messo in scena con un’invenzione narrativa ed una visionarietà senza precedenti. Ma proprio in questo si può trovare un’influenza di MacDonald che, se era interessato e impegnato nella riflessione teologica e morale, valorizzò nello stesso tempo l’autonomia estetica della sua opera a soggetto fiabesco.

L’arte delle fate

Arthur Hugues, illustrazione al libro Phantastes a faeríe romance, edizione 1905

 

Phantastes fu ripubblicato nel 1905 con le illustrazioni, capitolo per capitolo, di Arthur Hugues (1832-1915), noto pittore appartenente alla Confraternita dei preraffaelliti e amico personale dell’autore. Ma nell’ambito di quella fairy art che fiorì nell’epoca vittoriana, esistono altri artisti la cui visionarietà sembra corrispondere a quella di MacDonald. Ci riferiamo in particolare a Richard Doyle (1824-1883), le cui opere evocano il mondo delle fate con vitalità e verosimiglianza, senza sdolcinatezze, come se l’artista avesse il privilegio di una vista più acuta o, come Anodos, accedesse per misteriose vie al mondo delle fate.

 

Richard Doyle, Sotto le foglie della sponda

 

Richard Doyle, L’albero incantato, 1868

 

Una sensazione ancor più vertiginosa è comunicata dalla pittura di Richard Dadd (1817-1886), la cui opera è da inserirsi nella categoria dell’”art brut[4]. La minuzia, il movimento, l’iperbole fantastica, unita ad una tecnica raffinatissima, rappresentano “l’altro mondo” in un modo iperrealistico e perciò inquietante.

Anodos vive in 21 giorni (tempo durante il quale era scomparso, gli dicono poi le sorelle) innumerevoli avventure, con fate dei fiori e delle rocce, elfi, mostri, alberi benefici e alberi minacciosi, cavalieri di re Artù, ombre e spiritelli luminosi: un’intera vita nel “paese fatato”; e quello della relatività del tempo e dello spazio, delle dimensioni parallele, è motivo tipico della fantascienza. L’arte del racconto, l’arte visuale sono doni umani per i quali si subcreano mondi immaginari, che ci incantano, ci arricchiscono e qualcosa ci insegnano. Si può dire lo stesso del fantasy digitalizzato politicamente corretto e neopagano?

 

 

[1] J.R.R.Tolkien, “Sulle fiabe”  in Albero e foglia (ed.Rusconi 1976). Per l’antropologia della fiaba, vedi anche “Giuseppe Sermonti, scienziato e filosofo della fiaba” in Europa Cristiana 1/5/2022.

[2] La più recente edizione italiana col titolo Le fate dell’ombra, Bompiani 2003.

[3] Purtroppo solo una targa resta oggi a segnare il luogo dove si trovava la casa.

[4] L’art brut – di cui il Museo a Losanna- è l’arte non istituzionale, che nasce spontaneamente ma potentemente da una condizione individuale; è tipica (ma non esclusiva) di persone con patologie psichiatriche (in passato internati nei manicomi), come fu il caso di Richard Dadd.

 

 

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