Ciro Lomonte, candidato sindaco di Palermo, intervistato da «Europa Cristiana»

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Ciro Lomonte, candidato sindaco di Palermo alle elezioni amministrative del 12 giugno 2022, è una personalità di grande spessore culturale e civico. Architetto intensamente legato a Palermo, città nella quale vive e lavora e dalla quale si separa sempre a malincuore, quando per ragioni di forza maggiore lo allontanano per brevi periodi. Frequentò il liceo scientifico Cannizzaro, dove ha imparato molto, come dalla professoressa di filosofia, «che mi ha trasmesso dubbi salutari sul dubbio cartesiano».  Si innamorò dell’arte e dell’architettura per talento personale, ma grazie anche alla sua professoressa di disegno, che era nata a Tunisi, dove aveva studiato pittura con un allievo di Delacroix e in seguito si trasferì con la famiglia a Venezia, dove si preparò al concorso per la cattedra di disegno prendendo lezioni private dall’architetto Carlo Scarpa. All’età di 15 anni, Ciro Lomonte intraprese il suo incantevole viaggio alla scoperta di Palermo «che non si è ancora concluso». Nel tempo dei suoi studi universitari intrecciò una fitta rete di scambi fra studenti di Facoltà di Architettura europee, rapporti che diedero vita ad una serie di conferenze e convegni internazionali. Laureato con una tesi sul margine del centro storico di Palermo, ha lavorato e lavora in diversi ambiti, sia pubblici che privati, oltre a pubblicare diversi studi (qui un’antologia dei suoi testi) e contributi, oltre ad essere firma prestigiosa del periodico «Il Covile». 

Il 3 gennaio 2016 si svolse a Pergusa la prima riunione nazionale del Movimento Siciliani Liberi, che da allora raccoglie sempre più adesioni in tutta la Sicilia. Lomonte, che non aveva mai entrato in nessun partito politico, vi prese parte con entusiasmo e subito venne candidato sindaco del Movimento per le elezioni amministrative di Palermo del 2017. Accettò di candidarsi per contribuire al riscatto di una città «che, come l’intera Isola, è trattata al pari di un mercato da sfruttare senza concedere possibilità di sviluppo». Durante un discorso tenuto per la presentazione del libro sul Master in Storia e Tecnologie dell’Oreficeria, Sogni d’oro. Criticità ed eccellenze nella Sicilia postindustraile, Lomonte ha dichiarato: «C’è un’affermazione famosissima di Massimo D’Azeglio: “Pur troppo s’ è fatta l ’Italia, ma non si fanno gl’Italiani”. Viene citata di solito come se l’Unità fosse un bene assoluto, realizzata nel migliore dei modi possibili, con l’unica eccezione (incomprensibile a chi fa questa citazione) dell’assenza di senso patriottico nei popoli (per es. quello siciliano) costretti a convivere secondo ideali non condivisi. Alcuni studiosi, celebrando i 150 anni dell’epilogo unitario del Risorgimento, hanno sottolineato che la verità è un’altra: “Esistono gli Italiani. Ancora oggi si tratta di fare l’Italia”. Gli italiani avevano, da prima del 1860, la coscienza di essere un popolo con radici comuni. L’Italia è stata trasformata in uno Stato unitario con violenza brutale e con falsità di vario genere, in uno dei peggiori modi possibili, calpestando l’identità delle varie componenti della sua gente. In modo particolare quella delle differenti nazioni meridionali». In molti non conoscono la storia siciliana perché «la leggono filtrata dalle lenti dei vincitori di quella istituzione astratta, napoleonica, centralista, che è lo Stato unitario». Ciro Lomonte è un amante dei libri e ha nel cuore particolarmente Il Gattopardo, che definisce «la quintessenza della palermitanità e non per le tesi ad effetto più stancamente ripetute come slogan. Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha quella cura maniacale dei particolari più minuti che è propria di questo popolo quando ama davvero qualcosa».

Nel 2018 è stato eletto primo Segretario Nazionale di Siciliani Liberi, partito che è stato già inserito nel registro dei partiti del Parlamento Italiano ed ammesso come componente del gruppo Alleanza Libera Europea al Parlamento Europeo. Oggi  ha deciso di correre nuovamente come candidato sindaco di Palermo e come candidato consigliere comunale alle amministrative del 12 giugno prossimo. «Europa Cristiana», attenta non solo alle sacre identità dei popoli, ma anche alle vivaci e intramontabili identità regionali, di cui l’Italia è orgogliosamente ricca e protagonista, lo ha intervistato. 

Architetto, perché ha deciso di candidarsi come Sindaco di Palermo?

Spero che i lettori mi credano: per circa un anno e mezzo ho partecipato a riunioni e avviato consultazioni per trovare un candidato all’altezza della sfida. Avevo in mente il profilo ideale della persona che servisse al governo della capitale della Sicilia. E non ero io.

Personalmente sto facendo un sacrificio. Però mi è stato chiesto, sia dal mio partito, sia da Italexit e dal Popolo della Famiglia (con i quali abbiamo composto una lista di ribelli), sia da esponenti della società civile. Ad un certo punto mi è sembrato che rifiutare sarebbe stata una viltà. L’idea di fondo è una sindacatura completamente estranea al sistema della partitocrazia italiana, che ha letteralmente devastato Palermo in questi anni. È troppo comodo lamentarsi per cinque anni e poi defilarsi al momento del dunque. Abbiamo sentito il dovere di offrire la possibilità ai Palermitani di alzare la testa e risentirsi “Fieri di essere Palermitani”. Questa risposta non può venire dalla destra e sinistra “convenzionali” e neppure dal centro. Questo penso lo sappiano tutti a Palermo.

Sto ripetendo nella campagna elettorale che è importante votare per me anche come consigliere comunale. È questo l’obiettivo minimo che ci prefiggiamo. Bastano cinque consiglieri battaglieri per contribuire alla rinascita della capitale siciliana o per bocciare proposte che la mortifichino ulteriormente.

Lei si propone come candidato del movimento «Siciliani liberi», ma da chi e da che cosa la Sicilia deve essere liberata?

La Sicilia di oggi è una colonia interna dell’Italia, non giriamoci intorno. Peraltro la colonia di un Paese, a sua volta, in aperto declino, che ha perso la propria sovranità sostanziale, prono al turpe impero della globalizzazione. Colonia di colonia potremmo dire, che è una delle peggiori condizioni. E non sembri un’affermazione romantica. L’oppressione della Sicilia, la quasi impossibilità dei giovani di trovare un lavoro nella loro Terra, la difficoltà estrema per chiunque faccia impresa o professione, una certa cappa di povertà, emarginazione, degrado, si sentono quasi nell’aria, si tagliano a fette. La Sicilia va liberata dal bisogno, in cui è artificialmente tenuta, restituendole le sue risorse naturali; va liberata dai complessi di inferiorità che mortificano la sua cittadinanza, erede di uno dei più grandi popoli della storia mondiale; va liberata da una classe politica, e in parte dirigente, di “ascari”, collaborazionisti dei colonizzatori, che deve tutta la propria fortuna personale di mantenuti al bisogno e alla disperazione di una società intera. C’è un tappo di sudditanza e di parassitismo da fare saltare. La Sicilia deve riprendere il filo della propria storia e ridiventare un paese libero e, soprattutto, normale.

Come è possibile che 10,5 miliardi di euro vengano ogni anno sottratti alla Sicilia? Quale meccanismo perverso sta alla base di questa ingiusta privazione? Esiste un “malaffare” siciliano legato ai cosiddetti clientelismi?

La Sicilia è impiccata alla corda della sua stessa “Autonomia”, applicata in modo distorto e usata come cappio. Abbiamo fatto una guerra civile per conquistare questa Autonomia e che cosa è diventata? Si è tradotta in pratica nella traslazione sul contribuente siciliano della quasi totalità della spesa pubblica, senza nessuna perequazione, né per i livelli essenziali di prestazioni, né per la spesa infrastrutturale. Attenzione, non è l’accollo delle spese a Regione e Comuni che contestiamo. In un quadro di Autonomia responsabile è giusto che sia così, sia pure con le perequazioni previste dalla Costituzione. Il punto è che il contraltare doveva essere l’attribuzione alla Regione (e ai Comuni) di TUTTO (o quasi) il gettito tributario che maturava nel territorio della Regione. Ed è qui che avviene il grande furto. Lo Stato trattiene circa un terzo delle imposte dirette riscosse in Sicilia e circa due terzi di quelle indirette, più la totalità del gettito maturato in Sicilia ma per esigenze amministrative riscosso altrove; però, a fronte di questo furto, accolla alla Regione la totalità della spesa pubblica, con l’eccezione di forze armate, polizia, professori e pochissimo altro. Di fatto, dal lato della spesa, siamo un paese indipendente, mentre da quello dell’entrata siamo “italiani”. In pratica la Sicilia è un paese tributario. Basti pensare che la spesa sanitaria pro capite della Lombardia è il 50% in più di quella siciliana, ovvero che la Sicilia detiene il poco invidiabile primato del più alto contributo pro capite tra tutte le regioni “al risanamento della finanza pubblica erariale”, in omaggio al Fiscal Compact. Quanto ai “clientelismi”, certo, ci sono, ma un po’ è anche un falso problema. Le poche risorse residue sono “appaltate” ai tentacoli dei partiti italiani, i quali cercano di indirizzarle ai “clientes” che li votano, in modo da perpetuare il blocco sociale. Ma sono briciole. Funziona così: le briciole sono spartite a chi vota i partiti italiani, una minoranza, mentre la maggioranza dei Siciliani non va più a votare, sfiduciata da tutti.

Lei parla del malaffare, che esiste e alligna dove ci sono povertà, malgoverno e ingiustizie. È importante fare una precisazione. La mafia è parte integrante del sistema di potere dello Stato Italiano e strumentale allo sfruttamento coloniale della Sicilia. Diceva Rocco Chinnici: «prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente, premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione non era mai esistita, in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia». Falcone e Borsellino hanno provato a cambiare le cose e sono stati uccisi per questo, come Chinnici prima di loro.

Numeri impressionanti (nel 2017 si contavano 10.649 siciliani emigrati) parlano di un’emorragia di giovani laureati fuoriusciti dalla Sicilia. Intanto la disoccupazione avanza inesorabilmente, quali sono i dati ufficiali e come affronterebbe questi problemi se dovesse fare ingresso a Palazzo Pretorio come Primo Cittadino?

L’esodo dei giovani è praticamente equivalente ad un lento genocidio. Il Comune può indirizzare tutte le proprie risorse disponibili per favorire l’insediamento produttivo e l’autoimpiego. Veniamo da un’amministrazione che ha messo le multe a chi metteva i tavolini fuori o dalla persecuzione dei locali che non chiedevano il green pass. Palermo era una città di tante professioni, di arti e mestieri. Gli esempi possono essere tantissimi. Si pensi soltanto al distretto degli argentieri. Il Comune deve raccordarsi con queste realtà produttive, ascoltarne i bisogni, promuoverle, insieme ad eventi che attirino nella nostra città persone da tutto il mondo. Però voglio anche essere franco: la chiave per una soluzione strutturale passa per l’affrontare finalmente la “Questione Finanziaria Siciliana”, che si decide tra la Regione e lo Stato. Il Comune può e deve fare la propria parte, con interventi mirati. Non è certo sparando l’addizionale IRPEF al massimo che si crea un ambiente favorevole al lavoro. Ma quello che può fare il Comune è resistenza e inventiva. Non siamo una città-stato.

C’è anche il fenomeno preoccupante dello spopolamento da denatalità. È urgente una fiscalità che integri un principio di equità non solo verticale (paga di più chi guadagna di più), ma anche orizzontale (quante persone vivono di quel reddito che viene tassato?). Palermo sia una città a misura della famiglia, con le agevolazioni fiscali previste dalla legge. Un luogo dove sia possibile mettere al mondo tutti i figli che si vogliono, educarli nel migliore dei modi, usufruire di servizi di alta qualità, accompagnarli alla scelta del lavoro più congeniale alle loro attitudini, liberi dall’ossessione di emigrare.

Lei è studioso, uomo di cultura oltre che noto architetto, potrebbe indicare alcuni libri degni di attenzione che parlano della Sicilia e che ha ultimamente apprezzato?

In questo periodo mi sono confrontato con alcuni testi veramente interessanti, dai quali sembra emergere un nuovo risveglio dell’autocoscienza dei Siciliani. Ne cito solo alcuni.

C’è l’importante fatica di Massimo Costa, Storia istituzionale e politica della Sicilia. Un compendio, Amazon Fulfillment, Wroclaw 2019. Fa chiarezza su molti luoghi comuni della storiografia ufficiale, quella dei “vincitori”, quando tratta le epoche della nostra Patria.

C’è la ponderosa tesi di laurea in Giurisprudenza (quasi 900 pagine) di Federico Chiarelli, REgioni/RAgioni indipendentiste in Europa: Sicilia e Catalogna (2020).

C’è il convincente e documentato racconto di Angelo Russo, La partigiana sicula, Edizioni Carthago, Reggio Calabria 2021.

C’è la riedizione del manifesto di Antonio Canepa (il giovane professore universitario che guidò l’EVIS, l’esercito di liberazione dell’Isola, e fu ucciso in un agguato dai contorni inquietanti), La Sicilia ai Siciliani. Un’analisi critica sul testo cardine dell’indipendentismo siciliano, Magenes, Milano 2021.

C’è il sorprendente romanzo di Michele Di Pasquali, L’Ascaro. La Sicilia ai Siciliani, Medinova, Roma 2021. Delinea in modo convincente il quadro psicologico dei traditori della propria Terra, quei siciliani che – per necessità, per opportunismo, per paura, per emergere o per altri motivi ancora – si prestano ai perfidi giochi dello Stato Italiano, colonizzatore e prevaricatore.

C’è lo studio attento di Nicolò Lentini, Giovan Battista Naselli, Arcivescovo di Palermo fra Regno delle Due Sicilie e Unità d’Italia, Edizioni Ex Libris, Palermo 2021, che descrive l’opera di quell’Arcivescovo di Palermo che dovette fronteggiare l’occupazione di Palermo da parte di Garibaldi.

Che cosa pensa dello “sbarco” di Garibaldi e i danni che ne sono derivati?

Con Garibaldi si compie la conquista “massonica” della Sicilia e si completa l’annientamento geopolitico della Sicilia, che era avviato però da più di 40 anni. La catastrofe storica della Sicilia è il 1816, quando il secolare Regno di Sicilia, uno stato parlamentare sin dal Medio Evo, fu cancellato con un tratto di penna. Garibaldi arriva in una Sicilia esausta da quattro rivoluzioni indipendentiste (per tornare libera, non per unirsi all’Italia) e, letteralmente, la prende per stanchezza e con l’inganno. I danni sarebbero stati immediati, perché anche chi aveva riposto nella Spedizione speranze di riscatto sociale, come i contadini di Bronte, ebbe subito a ricredersi. Ma il vero danno, strutturale, è quello che ancora oggi paghiamo. Allora diventammo colonia interna, e da questa condizione non ci siamo ancora ripresi. Ma nessun male, nessuna agonia, può essere per sempre. Il momento del riscatto prima o poi dovrà venire.

Perché, secondo il Suo punto di vista, è un bene preservare le identità dei popoli e quindi anche le identità regionali d’Italia?

Un popolo senza identità, un popolo senza radici, non è una Nazione, è un’anonima “popolazione”, un aggregato statistico, una massa. L’identità culturale nazionale o locale è una struttura sociale intermedia che depotenzia la tirannia dei vertici e potenzia il rispetto della persona umana. È garanzia di libertà, e con essa di benessere. È anche il diritto di sentirsi “a casa propria”, senza questa fredda, anonima e disumana “cittadinanza del mondo” di derivazione illuministica. Diffido delle costruzioni razionali di società “ideali” che vogliono fare violenza sulla storia dei popoli. Per noi, oltretutto, l’identità siciliana, senza offesa, è “nazionale”, non “regionale”.

Questa è una delle ragioni per cui abbiamo contribuito alla nascita di Autonomie e ambiente, una federazione di gruppi politici presenti in molti dei territori aggregati violentemente e mortificati nelle proprie peculiarità dal processo unitario risorgimentale, un percorso presentato come “liberazione”, in realtà mefitico per la sua natura centralista, statalista, irrispettosa.

Siamo anche contenti di essere stati ammessi all’interno dell’EFA (European Free Alliance, Alleanza Libera Europea), il quarto raggruppamento parlamentare per numero di deputati a Strasburgo. A breve anche i Giovani Siciliani Liberi saranno accolti nella federazione giovanile dell’EFA.

 

Sede del Comune di Palermo, chiamato Palazzo Pretorio, noto anche come Palazzo delle Aquile, in piazza Pretoria

 

Che cosa pensa della globalizzazione economica e finanziaria?

È lo stadio terminale di uno sviluppo del capitalismo finanziario senz’anima. La mercificazione di tutto. Se c’è un “male assoluto” del mondo in cui viviamo, lo identifico proprio nella globalizzazione e nella sua ideologia disumana. Purtroppo non tutti sanno riconoscerne i frutti avvelenati, di solito ben edulcorati e accompagnati da un regime di propaganda. La globalizzazione è anche un regime totalitario travestito da ordinamento liberale. I suoi corifei portano avanti un’agenda terrificante, che noi stessi qualche anno fa liquidavamo come “complottismo”, e che invece si sta tragicamente disvelando sotto i nostri occhi, giorno dopo giorno. Molto significativo lo stemma di una delle loro consorterie, la società “fabiana”, di cui non a caso fa parte il Ministro italiano della “Salute”: il lupo travestito da agnello. Ma non bisogna cadere nel tranello di considerarli invincibili. Sono fragili. Il loro potere è fondato sulla disinformazione sistematica, che può essere combattuta anche con mezzi economici.

Tra l’altro, l’avvento dell’era della globalizzazione, almeno dalla Caduta del Muro di Berlino, ma lungamente preparata, con una drammatica accelerazione in questi due anni, ha reso del tutto obsolete le categorie politiche novecentesche della “destra”, della “sinistra”, etc. Oggi la lotta è tra globalismo disumano e sovranismo umanista, ed è una guerra mondiale.

Il santo cardinale John Henry Newman soggiornò per un periodo in Sicilia e qui fu conquistato dalla bellezza e dalla sacralità delle sue chiese, sia monumentali che rurali. Con il Suo occhio esperto e con la Sua puntuale e costruttiva critica accademica verso le chiese di fattura moderna e i barbari adeguamenti liturgici, potrebbe indicare quale filosofia sta alla base delle bellezze sia profane che sacre della magistrale architettura siciliana?

John Henry Newman, allora giovane pastore anglicano, fece un viaggio in Sicilia nel 1834, a trentatré anni. Aveva bisogno di conferme – che passassero attraverso i sensi – su quel suo travaglio interiore che lo spingeva a tornare a casa, alla fede cattolica, una conversione che giunse a maturazione qualche anno dopo. Si rese conto che la devozione popolare dei Siciliani non era affatto ingenua, non era superstizione, non era esuberanza irrazionale, non era idolatria. Era ed è un senso gioioso della filiazione divina. Proprio ciò che dovette infastidire Goethe nel suo viaggio del 1787, verificando che qui l’illuminismo esoterico non riusciva a sovvertire una cultura plurimillenaria.

Il governo inglese non la prese bene. L’impero britannico aveva le sue mire sul Mediterraneo. Aveva già sottratto Malta al Regno di Sicilia dopo le guerre napoleoniche. Aveva acconsentito alla soppressione illegittima del Regno parlamentare di Sicilia e la sua fusione con Napoli sotto il cappello del non meglio identificato Regno delle Due Sicilie (pur figurando Napoli al Congresso di Vienna fra gli Stati sconfitti, mentre la Sicilia sedeva al tavolo dei vincitori). Tante questioni si intrecciavano fra di loro negli obiettivi di Londra: egemonia economica, influenza politica, ideologia di un mondo capovolto. Non si poteva tollerare pertanto la conversione di un uomo dalla statura tanto elevata e lo spirito di emulazione che avrebbe potuto provocare. Dava fastidio persino Lead, kindly light (Guidami, luce gentile), l’inno composto nel viaggio di ritorno dalla Sicilia. Newman difese la piena libertà che viene dalla scoperta della Verità, per es. nella sua Lettera al duca di Norfolk. Ma, nei disegni di alcuni potenti, i Siciliani non dovevano più e non devono tuttora esercitare alcun benefico influsso sugli altri esseri umani. È così che è cominciato un genocidio mascherato.

Sottolineiamo che esiste un’arte siciliana, con peculiarità proprie. Le storielle delle dominazioni, del sincretismo, dell’importazione dei linguaggi, non reggono alla prova degli studi più seri. È un’arte festosa, incarnata, dalle tinte calde e brillanti, imprevedibile. Ispira ottimismo. Come nell’etnia così nella creatività: ci sono produzioni locali originali e c’è attenzione agli altri centri di elaborazione, i cui portati vengono riletti in chiave siciliana. Tutto ciò si riscontra in modo specifico nell’arte sacra dei duemila anni di civiltà cristiana.

Lavoro da decenni alle migliorie di chiese moderne ed antiche. Sono stato costretto, con sofferenza, a studiare il concretizzarsi delle metamorfosi della gnosi (la gnosi spuria) nell’architettura “sacra” contemporanea. Sono convinto che l’arte siciliana degli ultimi due millenni contenga in sé gli antidoti alle derive dei nostri giorni. La sapienza consumata dei costruttori siciliani si è misurata nei secoli con la natura dell’Isola, un continente dai paesaggi estremamente variegati. Qui si succedono senza soluzione di continuità spiagge, dirupi sul mare, boschi, gole, pianure, valli, vulcani, declivi e balze rocciose. Per i nostri antenati questo era l’Eden irrorato dalla grazia, a cui attingevano a piene mani per cercare di ovviare al male, mentre si incamminavano verso la meta finale, la vita eterna. Gli artisti e gli artigiani locali amavano la mimesi della natura. In quella capacità di far collaborare magistralmente testa, occhi, mani e cuore, c’è una fede che si fa cultura, la concezione creaturale dell’unione fra carne e spirito, la gioia filiale manifestata nell’uso di colori vivaci, la gara con le estrose forme offerte dalla creazione.

Come affronterebbe, una volta giunto al governo della città, i temi della cultura e del turismo?

I due temi sono in realtà quasi un unico tema, perché il turismo a Palermo, una delle principali città d’arte del mondo, è cultura. La cultura di Palermo va intanto liberata dalla politica e dalla ideologia falsa della città “senza identità”, della “accoglienza” (di chi?), delle “culture”. Bisogna scoprire la differenza fra “multiculturalità” pretestuosa e integrazione ospitale. Palermo è ricchissima di cultura propria e di identità, che sia letteraria, di arti visive, di spettacolo, di gastronomia, di sartoria. È un capitolo infinito. La più grande ricchezza di Palermo sono i Palermitani che amano Palermo, e sono tantissimi. Oppressi dalla Palermo orlandiana vanno intanto aiutati e liberati. Questa cultura però deve poi potersi tradurre in reddito. E in questo può agire il turismo. Ma il turismo ha bisogno di tre ingredienti fondamentali: mobilità esterna (cioè facilità di raggiungere, via aerea, la nostra città), mobilità interna (il “traffico”, reale maggiore problema di Palermo), servizi e decoro urbano. Palermo può diventare gioiello, ma si torna sempre là. Faremo quello che potremo, ma a livello regionale e statale si devono ricordare che Palermo è una Capitale, ed ha bisogno delle attenzioni di una capitale. E nel tour delle capitali europee, Palermo può diventare una tappa d’obbligo.

Va precisato che il turismo di massa, di per sé, può essere deleterio. Bisogna invece favorire la moda del viaggio consapevole, favorito dalle relazioni umane, alla scoperta di una Terra che ha molto da raccontare e quel che racconta è radicalmente bello. Fino al 1816. Anche il dopo ha il suo fascino, ma in quanto storia di resistenza e ribellione. Che oggi ricomincia ad avere le sue voci autorevoli.

 

 

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