I Ferrero di Cocconato e la Villa Tesoriera di Aymo, tesoriere “degli Stati di qua dai Monti”

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In tempi recenti si è aperto un dibattito – se ne è avuta qualche eco giornalistica – sulle innumerevoli opinioni, teorie e sciocchezze che per molti anni – e anche ai giorni nostri – si sono dette e pubblicate sulla Torino “magica”, “esoterica” “del mistero”.

Numerosi luoghi, famiglie e personaggi, sono stati associati a leggende, talora letteralmente campate in aria che, pur con approcci diversi, tentavano di ancorare la città a dimensioni presuntamente magiche, tra magia nera, bianca e riti arcani. Superfluo dire che neppure i Savoia, singoli rappresentanti della Casa o dinastia in blocco, si sono salvati da riletture all’insegna di un loro interesse per l’occulto e i riti, per così dire misterici. È lecito chiedersi se la pretesa Torino magica, prima di essere “di moda”, non sia stata propagandata anche per fare da paravento a quelle che furono le sue vere generalizzate vocazioni, in campi completamente opposti, per esempio sul piano religioso e della carità o su quello della concretezza del progresso e degli sviluppi sociali ed economici.

 

 

Tra i diversi luoghi a cui si è preteso di associare qualche fenomeno paranormale vi era, in particolare in tempi ormai assai lontani, pure il parco della Tesoriera, cui fu talora attribuito il nome, tanto per cambiare, di “giardino del diavolo” (giardin del diau, che ben faceva eco al più celebre e non meno ridicolo mito connesso al portone del diavolo di palazzo Levaldigi). Secondo vecchi racconti, quasi stratificatisi in una leggenda urbana, nei suoi viali si verificavano misteriose apparizioni. Parecchi abitanti della zona erano pronti a giurare di avere visto più volte, nottetempo, un cavaliere che, giungendo dalla villa, vagava, senza pace e senza meta «[…] avvolto in un mantello nero come pece (che l’avrebbe reso invisibile nell’oscurità, se non avesse avuto una bordura rossa come fuoco)».

Piaceva pensare, a una certa voce pubblica, che quella presenza notturna non fosse di questa terra. Sin dai primi momenti la fantasia popolare si sbizzarrì nel tentativo di attribuire all’apparizione un’identità. Erano ancora lontani gli anni delle interpretazioni razionali. Si faceva un nome, in special modo, quello di Aymo Ferrero, signore di Cocconato, tesoriere generale del Re. Vale a dire colui che aveva fatto costruire la villa (che, proprio dalla carica del suo committente e primo proprietario, aveva tratto la denominazione che tuttora conserva).

La presenza nella storia di Torino del ramo dei Ferrero a cui Aymo apparteneva non fu irrilevante, ma sarebbe oggi quasi del tutto dimenticata se non fosse per questa villa, la cui edificazione e proprietà però furono associate erroneamente a una famiglia omonima, ma ad essa estranea. Solo nel 1985 fu fatta chiarezza, grazie a uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista «Studi Piemontesi» (volume XIV, fascicolo 2, Torino, Centro Studi Piemontesi).

I Ferrero di Cocconato (utile individuarli col predicato anche con riferimento alle generazioni anteriori e successive all’acquisizione di porzioni di questo feudo) ebbero un ruolo peculiare nella storia torinese, poiché detennero la gestione delle finanze della città per un periodo lungo, circa mezzo secolo, a cavallo tra Sei e Settecento, che incluse momenti estremamente difficili in termini generali, compresi gli anni del conflitto franco-sabaudo con sullo sfondo la Guerra di successione spagnola e l’assedio del 1706.

Il cognome Ferrero è tra i più diffusi in Piemonte; lo portavano famiglie verosimilmente del tutto diverse tra loro già nei secoli XV e XVI; esso, del resto, può derivare dalla professione di fabbro o simili e anche per questo il fatto che possa essere esistito un solo capostipite per tutti i rami non pare per nulla probabile (e, se anche ciò mai corrispondesse alla realtà storica, sarebbe praticamente impossibile, in relazione alla enorme diffusione, individuarlo). La linea che ebbe la signoria di Cocconato – a partire dal 1697 – era originaria del Carignanese (anche se parecchi studiosi hanno espresso, erroneamente, pareri diversi) e apparteneva alla locale nobiltà. Si deve annotare che la regione carignanese e quelle ad essa contigue furono tra quelle in cui le famiglie Ferrero furono più prolifiche e ramificate.

I Ferrero del Carignanese espressero, nel corso dei secoli, un gran numero di amministratori della città di Carignano – per vari aspetti importante e anche per la presenza di un castello in cui i Savoia risiedevano di tanto in tanto con la propria corte –. La famiglia diede i natali a parecchi militari, uomini di legge, sacerdoti oltre a diversi personaggi di maggiore rilievo come, ad esempio, Giovanni Michele, che fu, nei primi anni del Seicento, gabelliere generale di Savoia e Giovanni Battista, che fu procuratore generale dell’Ordine Agostiniano in Roma.

Col passare del tempo le alterne fortune conducono a una diversificazione sociale in Carignano tra le famiglie di questo stesso cognome: ne sono annoverate tra i nobili, i notabili e la popolazione rurale. Almeno nel caso dei carignanesi presumere che tutte discendessero da uno stesso capostipite è ammissibile, come lo è il fatto che la distinzione tra i diversi rami e linee sia stata determinata dalla grande crescita demografica della famiglia, con conseguente progressiva parcellizzazione dei beni ed esercizio di attività differenti.

Il primo dei Ferrero carignanesi che venne a stabilirsi a Torino, approssimativamente tra il 1605 e il

1615, fu Aymo (o Aymone), il quale acquistò un nobile palazzo in città, nell’isolato di San Vincenzo (che dovrebbe corrispondere pressappoco a quello attualmente compreso tra le vie Bertola, Monte di Pietà, Viotti e Roma). Egli esercitava l’attività di “fondichiere”, gestiva, vale a dire, un commercio all’ingrosso di droghe (la mercatura al minuto era vietata ai nobili, pena la derogazione – perdita del proprio “status” – ma non lo erano le attività “in grosso”, purché non direttamente esercitate).

Amministrando al meglio la propria attività mercantile e mettendo a segno alcune proficue operazioni, Aymo riuscì ad arricchire notevolmente il suo patrimonio, di modo che lasciò basi finanziarie più che solide ai figli, svolgendo un ruolo determinante ai fini dell’affermazione della famiglia nell’ambito della società torinese e piemontese. Carlo nel 1674 fu nominato dall’amministrazione civica di Torino tesoriere della città, non senza qualche contrasto, in quanto vi erano parecchi pretendenti. Come tesoriere di Torino, rivestì anche la carica di Ricevidore del Monte di San Giovanni Battista. Nella realtà locale la funzione era tra le più incisive. Il tesoriere aveva, infatti, doveri importanti e delicati. In primo luogo spettava a lui organizzare e gestire la riscossione di tutti i redditi della città (il criterio con cui ciò avveniva era però assai diverso da quello odierno: il titolare della tesoreria, in pratica, si impegnava, con garanzie sul proprio patrimonio o fidejussioni prestate da terzi, a versare comunque il totale ammontare dei redditi stimati); in secondo luogo doveva inventariare e farsi carico di tutti i beni mobili di proprietà comunale, doveva provvedere al pagamento di debiti, censi, stipendi, spese ordinarie e straordinarie, poteva fare prestiti col denaro pubblico. Doveva, inoltre, in giorni prestabiliti della settimana, sovrintendere personalmente, onde sottolineare il controllo pubblico ed evitare frodi, alla vendita di quella parte della molitura che, prodotta nei mulini comunali, spettava alla città. Un’altra incombenza che gli era attribuita era quella di provvedere al pagamento delle balie che si occupavano dei trovatelli sino al compimento dell’ottavo anno di età.

Carlo svolse al meglio il suo compito e per questo, «[…] a contemplatione dei molti suoi meriti e della sua lunga e fedele servitù […]», ottenne, nel settembre del 1692, per il proprio figlio secondogenito, Emanuele Filiberto, la «sopravvivenza nella carica di tesoriere». Meno di due anni dopo moriva.

Emanuele Filiberto, come previsto, prese il posto del padre, insediandosi nella tesoreria civica il 15 novembre 1694, con uno stipendio complessivo di lire 1450 di Piemonte, comprese lire 500 come tesoriere del Monte.

Tutto pare andare per il meglio. Possiede un palazzo prestigioso nel centro di Torino, due vigne con villa e cascina sulla collina torinese, è beneficiario degli interessi di alcuni mutui a censo piuttosto cospicui. Nel 1708 compra beni feudali in Cavoretto, probabilmente medita di acquistare anche un feudo, per garantire definitivamente a se stesso e ai propri discendenti una considerazione che solo alla nobiltà “feudale”, con esercizio di qualche diritto giurisdizionale, veniva concessa.

Il mestiere del tesoriere è però tutt’altro che facile. Nel 1715, alla chiusura dei conti del suo pluriennale

esercizio, viene dichiarato debitore verso il Comune torinese e verso il Monte di San Giovanni Battista di oltre centomila lire, per l’epoca una cifra enorme. Non vi sono, ciò nonostante, indizi di disonestà o infedeltà: non si pone in dubbio la sua correttezza, anzi, egli si trova in difficoltà anche perché ha dovuto anticipare per conto dell’amministrazione civica varie somme che non è ancora riuscito a recuperare dai singoli debitori della città. Per saldare il suo debito è costretto a ricorrere ad alcuni prestiti e deve di conseguenza impegnare il palazzo e le vigne di Torino. Esce da quest’esperienza duramente provato, di sicuro non propriamente ridotto sul lastrico ma, comunque, assai impoverito. Si ritira quindi a vita privata e di lui si perde ogni traccia. Dal suo matrimonio con Anna Maddalena Coglietti aveva avuto otto figli, quattro femmine e altrettanti maschi, qualcuno dei quali forse ebbe discendenza.

Ma veniamo al personaggio più conosciuto della famiglia, a colui che legò più saldamente il proprio

nome alla storia della città, fratello primogenito dello sfortunato Emanuele Filiberto, Aymo Ferrero. Questo nacque probabilmente in Racconigi intorno al 1663. Iniziò la propria carriera verso il 1685 affiancando il padre nella tesoreria civica, occupandosi in particolare del Monte di San Giovanni.

Probabilmente si pensava che sarebbe toccato a lui e non al fratello continuare l’attività paterna, ma nel 1692 riuscì a fare un altro notevole salto di qualità, con la nomina a «Tesoriere generale dei redditi ordinari e straordinari degli Stati di qua dai Monti», di gran lunga più importante (come attesta anche uno stipendio annuo di lire seimila). Nel 1697 acquistò parte del feudo di Cocconato. Con il trascorrere degli anni giunse a rivestire nella società della capitale sabauda una posizione di primo piano; Vittorio Amedeo II, tra l’altro, pareva accordargli una piena fiducia e il suo favore. All’inizio del Settecento, Aymo accarezzò l’idea di insignorirsi anche di Cavoretto, luogo in cui possedeva come il fratello beni feudali; nel 1705 acquistò il diritto di nominare i sindaci della comunità, ponendo così una potenziale ipoteca anche su una futura acquisizione della giurisdizione feudale che, certo, rientrava tra i suoi obiettivi.

Nel 1706 era priore della confraternita del Suffragio; nello stesso anno ospitò nel proprio palazzo un principe reale di Danimarca di passaggio da Torino. Nell’ambizioso disegno che aveva preordinato le scelte “importanti” della sua vita figuravano ormai molti successi. Per coronare i suoi giorni e per rendere durevoli nel tempo la fama e il prestigio del proprio casato, mancava però un legittimo discendente. Dal suo primo matrimonio con Giovanna Maria Cisaletti, appartenente a una cospicua casata canavesana, non ne aveva avuti. Nel gennaio del 1713 sposò in seconde nozze Clara Teresa Gay, assai più giovane di lui, figlia di Francesco Gerolamo, «munizioniere generale delle polveri».

Proprio intorno a quell’epoca diede il via alla costruzione della Tesoriera. Nel 1715 l’edificio era ultimato; all’inaugurazione presenziò (e non era cosa comune) il Re stesso.

Tempi difficili sono però alle porte: venticinque anni di servizio come tesoriere generale non l’hanno

in realtà arricchito; bastano alcune operazioni finanziarie sbagliate, un parziale coinvolgimento nel dissesto del fratello e le spese sostenute per l’edificazione della villa e l’acquisto e la realizzazione del suo vasto parco per gettarlo in difficoltà economiche. Quando muore, nel 1718, si dibatte, quindi, in mezzo a seri problemi ed è, inoltre, amareggiato per non avere potuto dare altra vita al proprio sangue. Dopo la sua morte la moglie, per potere far fronte ai creditori, dovette alienare molte proprietà, ivi compresa la Tesoriera.

Fu forse l’inquieto epilogo della vita di Aymo Ferrero che contribuì a suggestionare la contemporanea fantasia popolare e ad alimentare la credenza che fosse il suo fantasma ad apparire di notte nei pressi della villa, come se fosse ad essa indissolubilmente legato. Ma il vecchio tesoriere, la cui reputazione non fu mai compromessa dalle difficoltà finanziarie, come si poteva dire anche il fratello, intanto riposava in pace, nel sepolcro gentilizio dei Ferrero, eretto nella chiesa della confraternita di San Maurizio. Nei ceti dominanti del suo tempo era fortissimo in particolare un desiderio, quello di lasciare una memoria di sé e degli antenati, vale a dire di “lasciare una traccia” del proprio passaggio terreno. Egli poteva, in fin dei conti, pensare di esserci riuscito; poteva quindi credere, anche grazie alla splendida dimora che aveva voluto, che il suo nome avrebbe valicato i secoli, restando – attraverso i muri – nella memoria della città.

 

 

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