Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane

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La quasi totalità dei termini con cui solitamente designiamo cose importanti nascono maggiormente generici ed umili; sarà, poi, il crescere di valore e, conseguentemente, di considerazione generale dell’oggetto a determinare, per restrizione enfatica[1], l’accresciuta nobiltà della parola che lo designa, fino a farle perdere, in alcuni casi, il significato originario. Quando, invece, l’importanza del nome è già parametrata a quella dell’oggetto cui si riferisce o, addirittura, sproporzionata in senso accrescitivo, la “gloria” di ciò di cui stiamo parlando è effimera, se non falsa e completamente usurpata.

Questa è una delle tante osservazioni contenute nel «saggio polemico rivolto contro […] i fabbricatori di costituzioni a tavolino, gli autori di artificiose costruzioni intellettuali, gli ideologi rivoluzionari che, disprezzando la lezione della storia dell’esperienza, avevano preteso di elaborare un modello puramente astratto delle strutture sociali e politiche»[2] di Joseph de Maistre, Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane, Edizioni Fiducia, Roma 2021, pp. 80, € 15,00. Questo libro, nonostante l’esiguità della mole, è giustamente divenuto la base di dottrina della «Costituzione materiale», il punto di partenza per l’affermazione dei diritti della Storia, conculcati dalla pretesa di racchiudere l’anima ed il futuro di un popolo in un documento scritto. Tale sacrosanto tributo ha, però, avuto, come “effetto collaterale”, quello di far sì che molti si siano “ispirati” al libro anche senza averlo letto. Opera meritoria hanno, quindi, fatto le Edizioni Fiducia nel ripubblicare quest’opera e nel farlo “isolatamente”, non, ad esempio, nel contesto delle opere politiche dello stesso de Maistre, in modo da poterne meglio apprezzare la ricchezza filosofica, etica e, in alcuni tratti, spirituale. L’aspetto politico e giuridico, di filosofia del diritto si dovrebbe più precisamente dire, rimane centrale dal punto di vista contenutistico, ma viene supportato da una serie di considerazioni apparentemente distanti, che, però, unicamente con la loro giustapposizione, da un lato rendono l’argomentazione più difficilmente attaccabile, anche quando, a prima vista, appare dura, ma, dall’altro, aprono a riflessioni che esulano dall’ambito politico-giuridico e lasciano il lettore edificato per la profondità dei concetti e, allo stesso tempo, compiaciuto per la godibilità e la brillantezza dello stile. E tutto questo, dedotta l’Introduzione, in 64 pagine!

Per tornare all’iniziale discorso sul rapporto tra parole e concetti espressi, «i nomi più rispettabili hanno, in tutte le lingue, un’origine comune. Il nome non è mai proporzionato alla cosa, ma è sempre la cosa nobilitare il nome. Bisogna che il nome, per così dire, germini, diversamente è falso. Qual è il significato originario della parola trono? Sedile, o anche sgabello. Che cosa significa scettro? Un bastone per appoggiarsi. Ma il bastone dei re fu presto distinto da tutti gli altri, e questo nome, nel suo nuovo significato sussiste da tremila anni»[3].

La questione dell’origine più plebea dei nomi rispetto agli oggetti che indicano, su cui l’Autore si dilunga (si fa per dire) per alcuni capitoli, non è una curiosità “linguistica”, ma è una costante concettuale o, meglio, la conseguenza di una legge di natura, che trova anche applicazione nell’origine oscura ed avvolta nel mistero della stragrande maggioranza delle case regnanti e delle famiglie della più alta nobiltà, argomento anche questo mirabilmente e sinteticamente trattato nel testo. La legge, cui si accennava, è quella che prevede che le cose grandi nascano piccole e, progressivamente, crescano in dimensioni, potenza e nobiltà. Risulta di ogni evidenza che, se, nel momento in cui nasce e, quindi, acquisisce il nome, la cosa è “piccola”, la parola che la designa non può che rispecchiare questa “piccolezza”; se, viceversa, non lo facesse, sarebbe lo strumento tecnico di una frode, vale a dire quella di tentare di attribuire una nobiltà inesistente ad un oggetto che (ancora) non la possiede. E de Maistre sottolinea come questo inganno iniziale sia destinato all’insuccesso e come la grandezza millantata dal nome “fasullo” non possa durare nel tempo.

Se volessimo porre la questione su un piano ancora più generale, potremmo trarre la conclusione che l’umiltà altro non sia che la realistica presa d’atto di ciò che ciascuno di noi e ciascuna nostra opera siano veramente. La mancanza di questa virtù fondamentale, prima ancora di essere inganno verso gli altri (orgoglio), è inganno verso se stessi (presunzione); e dall’errore conseguente a tale sequenza di inganni non può conseguire nulla di nobile ed elevato, ma neppure qualche cosa che possa durare nel tempo, poiché la realtà, prima o dopo, si afferma sempre, quanto meno con la distruzione della menzogna.

Da quanto detto, consegue che le grandi imprese destinate a durare nel tempo non sono mai frutto di un umano disegno, ma solo della provvidenziale volontà divina; il ruolo degli uomini posti all’origine di tali opere, lungi dall’essere quello di concepirne o, anche solo, intravederne la grandezza, è quello di compiere umilmente e con costanza il proprio dovere di stato al servizio di quella pianticella, di cui ignorano la natura, le possibilità di sopravvivenza e, soprattutto, il destino futuro.

Louis-Félix Amiel (1802-1864), Pipino il Breve (1837)

Il dovere di ogni uomo e, quindi, tutta la sua grandezza possibile risiede nello svolgimento del proprio compito, anche sociale, nel luogo e nelle condizioni in cui la Provvidenza lo ha posto. Ogni ascesa sociale duratura non sarà altro che la formalizzazione di una realtà di fatto: compiere il proprio dovere di stato può comportare l’esigenza (mai la determinazione personale) di assumersi responsabilità e doveri che sorpassano il proprio ruolo formale, assunti, lo ripetiamo, unicamente per meglio adempiere ai propri obblighi; quando questa assunzione assume il necessario carattere di stabilità, sempre per poter adempiere ai propri doveri, può divenire necessaria anche una sua formalizzazione. Uno degli esempi più chiari di quanto vogliamo affermare si ha nella successione della dinastia carolingia a quella merovingia: quando, nel 751, Pipino III, detto il Breve, (714-768) cinge la corona dei Franchi, la sua famiglia esercita le funzioni rege da un tempo tanto lungo da averla fatta percepire come Casa regnante de facto, tanto che il loro potere si trasmetteva per via ereditaria esattamente come sarebbe avvenuto per dei veri e propri sovrani. Ecco che, quando Pipino depone dal trono Childerico III, detto l’Idiota o il Re fantasma (714-755), non si tratta di vera e propria deposizione, ma di formalizzazione della realtà: non sono stati i Carolingi ad appropriarsi della regalità, ma i Merovingi a consegnarla loro, pretendendo, però, in maniera innaturale, di mantenerne gli onori; paradossalmente sono gli ultimi sovrani Merovingi ad usurpare il trono che spetta ai Carolingi fin da quando ne esercitano in maniera stabile e pubblica le funzioni, assumendosene tutti gli oneri.

Il ruolo dell’uomo non è mai quello di artefice del disegno che è chiamato a realizzare, ma quello di pennello nelle mani del divino pittore. A differenza di quello materiale, però, lo strumento umano non è inerte, ma è chiamato ad usare la propria ragione per comprendere, prima di tutto, quale sia il suo compito (non il disegno complessivo) e, successivamente, come realizzarlo. Se il lavoro, intendendo, ovviamente, questo termine nel senso più lato possibile, verrà realizzato con questa umiltà e questa costante determinazione, la grandiosa bellezza dell’opera sarà “retroattiva”: voltandosi indietro e contemplando quanto compiuto, l’uomo si accorgerà di avere realizzato un’opera non sua ed incomparabilmente superiore a quanto egli avrebbe anche solo potuto immaginare.

E questo non vale solo per le singole persone, ma anche per le famiglie, i popoli e gli Stati.

 

 

[1] Per restrizione enfatica, deve intendersi la figura retorica che utilizza un termine generico per indicare un significato più specifico, restringendo, quindi, il concetto in maniera assolutamente arbitraria, con esclusione dalla qualifica più generica di tutti coloro che non posseggono quella più specifica. Esempio classico è l’affermazione «chi si comporta in questo modo non è un uomo», che richiede, quindi, per far parte dell’umanità, caratteristiche etiche evidentemente non essenziali ad essere parte integrante del genere umano. La restrizione enfatica, normalmente, pone il concetto più ristretto ad un livello, intellettuale, etico o spirituale, più elevato rispetto a quello generico.

[2] Introduzione di Roberto de Mattei, in Joseph de Maistre, Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane, Edizioni Fiducia, Roma 2021, p.7.

[3] Joseph de Maistre, Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane, Edizioni Fiducia, Roma 2021, LVI, pp. 69-70.

 

 

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