“Oratio dominica”, la preghiera di Gesù

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“Pater noster, qui es in coelis …” (Mt 6, 9)[1]

“… anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio” (Rm 8, 26 – 27).

“E ‘n sua volontade è nostra pace” (Par. I, 85)

di Carla D’Agostino Ungaretti

 

S. Paolo ha descritto perfettamente la condizione in cui si trova l’uomo quando questi si inginocchia di fronte a Dio. Anche i più dubbiosi e lontani da Lui a volte vorrebbero pregare, perché la solitudine esistenziale umana è talmente grande che anche essi a volte sentono l’insopprimibile bisogno di rifugiarsi tra le braccia di un Padre, chiunque Egli sia, ma sentono anche di essere talmente lontani dal vero “Padre”, sentono che Lui è talmente grande e misterioso che con le loro sole forze non ci riescono. La natura umana è sempre uguale, nonostante lo scorrere dei secoli, e anche al tempo di Gesù era possibile avvertire questa sensazione di smarrimento, tanto è vero che uno dei discepoli, vedendo pregare il Maestro e avvertendo l’intensità della preghiera di Lui, sentì il profondo desiderio di imitarLo e Gli disse: “Signore, insegnaci a pregare …” (Lc 11, 1). Tutti noi possiamo riconoscerci in quell’uomo e allora Dio (il vero Padre) non chiede di meglio che venirci incontro e, mostrandoci il Suo volto in Gesù, ci insegna come entrare in relazione con Lui, come ascoltarLo e come parlarGli.

Nel Discorso della montagna (Mt 6) Gesù ci spiega come dobbiamo pregare. Anzitutto ci dice cosa non dobbiamo fare: quando preghiamo non dobbiamo metterci in mostra davanti agli uomini, perché Dio ci conosce tutti, uno per uno, col nostro nome e in ogni relazione d’amore (come, a maggior ragione, in quella con Dio) la cosa più importante è la discrezione. La preghiera personale, quella di un figlio che parla con suo Padre, è necessaria e va fatta nel raccoglimento solitario. Lo stesso Gesù ogni tanto si appartava (Mt 14, 23; Mc 1, 35; Lc 5, 16) perché nessuno potesse distrarLo in quel Suo momento personalissimo di rapporto col Padre[2]. Tuttavia il momento personale di contatto con Dio non esclude affatto la dimensione comunitaria espressa nel Pater Noster anzi, solo entrando a far parte del “noi” dei figli di Dio possiamo elevarci fino a Dio “ut sint unum sicut nos”, come pregò Gesù nella preghiera sacerdotale all’inizio della Passione (Gv 17, 11; 17, 21).

Il Pater Noster, preghiera cristiana per eccellenza, ci è stato tramandato dagli Evangelisti Matteo e Luca, ma mentre Matteo situa quella che più tardi sarebbe diventata la preghiera domenicale nel Discorso della montagna e la formula in sette domande, Luca la pone sulla strada di Gesù verso Gerusalemme e la articola in quattro richieste. Non dobbiamo stupirci se i contesti sono diversi perché è naturale pensare che Gesù abbia insegnato le stesse cose in momenti e circostanze diverse e usando anche parole differenti, insistendo tuttavia sui punti fondamentali[3]. Gesù è un vero Maestro, perché insegna ai discepoli, con la parola e con l’esempio concreto, quello che fa Lui stesso. Quando prega, Lui inizia sempre con la parola “Pater!”, quindi ci insegna che il primo requisito della preghiera, modello concreto e universale, è la semplicità del figlio che parla con suo Padre, è la via verso la preghiera interiore che vuole conformarci a immagine del Figlio, come esorta chiaramente S. Paolo all’inizio del suo Inno cristologico: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2, 5).

Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole … perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate” (Mt 6, 7 – 8). E infatti il Pater Noster, sia in Matteo che in Luca, è una preghiera breve, ma è anche la più commentata di tutta la Bibbia. Se Gesù ha insegnato agli uomini a invocare Dio come Padre, lo ha fatto per instillare in loro la coscienza di essere figli di Dio e un figlio di Dio tratta Dio come si tratta il Padre, ossia con abbandono, sincerità e fiducia. Già i primi cristiani, “obbedienti alla parola del Salvatore e formati al suo divino insegnamento”, imperniavano la loro preghiera sulla semplice formula di Gesù, perché ognuno di noi nel suo rapporto personale con Dio può sentirsi accolto e amato. Il Papa Giovanni Paolo I ha ricordato che l’amore che Dio nutre per le sue creature è paragonabile all’amore materno, come aveva già profetizzato Isaia: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, / così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? / Anche se queste donne si dimenticassero, / io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49, 15); ma, intendiamoci bene, il termine “Madre”, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, è solo un’immagine, una metafora dell’amore di Dio, anche se particolarmente congeniale alla corporeità dell’uomo. Dio è “Padre”, come ci ha insegnato Gesù e come tale dobbiamo rivolgerci a Lui, non come madre, come vorrebbero certe aberranti ideologie moderne che vorrebbero portare le istanze femministe anche nel campo della Dottrina cristiana.

“Qui es in coelis …” Con queste parole Gesù ha voluto riaffermare con forza l’assoluta trascendenza di Dio, già percepita da Israele soprattutto dopo il ritorno dall’esilio babilonese. Dio supera totalmente il mondo naturale e, a differenza di tutti gli dèi pagani, è l’Essere superiore per eccellenza, è il “totalmente Altro” a tutti gli esseri, pur essendo presente nell’intimo più profondo delle Sue creature.

“Sanctificetur nomen tuum, / adveniat regnum tuum ”. Queste due implorazioni sono strettamente connesse l’una all’altra: la gloria di Dio ci deve stare a cuore più di qualunque altro bene al mondo e noi vogliamo che Egli sia conosciuto, amato, onorato e servito da tutta l’umanità, vogliamo che gli eretici riconoscano i loro errori, gli scismatici ritornino all’unità della Chiesa, i peccatori si pentano e i giusti perseverino nel bene. L’avvento del Regno di Dio è la realizzazione del Suo disegno salvifico nel mondo e si identifica con l’opera del Cristo.

“Fiat voluntas tua / sicut in coelo et in terra”. Come in cielo gli angeli e i santi si identificano in tutto con la volontà di Dio – come dice a Dante Piccarda Donati nel verso del Paradiso che ho citato in epigrafe –  così l’uomo, in terra, deve abbandonarsi incondizionatamente e volontariamente nelle mani di Lui, nella certezza che Egli conosce molto meglio di noi quale sia il nostro bene. Fare la volontà di Dio spesso è difficile e richiede una lotta, ma è anche la prova che siamo sinceri quando diciamo: “Venga il tuo Regno”. Infatti il Signore afferma: “Non chiunque mi dice “Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7, 21).

“Panem nostrum cotidianum da nobis hodie …”. Questa è la richiesta più umana. Quello stesso Gesù che insegnò a Marta di Betania che l’ascolto della Parola di Dio è “la sola cosa di cui c’è bisogno” (Lc 10, 42) e a tutti noi che “non dobbiamo affannarci di quello che mangeremo o berremo” (Mt 6, 25), sa bene che dobbiamo mangiare se vogliamo vivere, che il pane “è frutto della terra e del lavoro dell’uomo” – come recita la Liturgia Eucaristica nel Messale Romano – e la terra non dà frutto se non riceve in giusta misura sole e pioggia, eventi atmosferici che non dipendono da noi. E questo possiamo e dobbiamo chiederlo: se già i padri terreni danno cose buone ai figli quando le chiedono, a maggior ragione Dio non ci rifiuterà i beni che solo Lui può donare (Lc 11, 9 – 13). Comunque la Chiesa ha sempre detto che il “pane” di cui parla Gesù non è solo il pane materiale perché “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4, 4); perciò ci esorta a chiederGli soprattutto il sostentamento della nostra anima, la quale si nutre principalmente col pane della S. Eucaristia.

“ et dimitte nobis debita nostra, / sicut et nos dimittimus debitoribus nostris … “. Nella quinta domanda il termine “debito” ha chiaramente il significato di peccato e nella lingua aramaica parlata da Gesù la medesima parola era usata per indicare sia l’offesa che il debito. Il superamento della colpa è il problema centrale di ogni esistenza umana e tutte le religioni se ne sono occupate. La colpa chiama la ritorsione e si crea così una spirale di reciproche vendette in cui diventa sempre più difficile sfuggire al Male. Il Signore insegna allora che la colpa può essere superata attraverso il perdono e non attraverso la ritorsione. Dio è un Dio che perdona perché ama le sue creature, ma il perdono diventa efficace solo se l’uomo, da parte sua è capace di perdonare.

Il tema del perdono cristiano è uno dei più scottanti nella nostra Fede. Può una madre, il cui figlio sia stato assassinato, perdonare l’assassino? La risposta, secondo la logica umana, sembra essere solo NO. Io credevo una volta che il perdono consistesse soprattutto nel riuscire a depurare, per così dire, l’incancellabile ricordo dell’offesa ricevuta di qualunque carica emotiva, in modo di annullare l’impulso di vendetta. L’approfondimento del Vangelo e la grande catechesi di Benedetto XVI mi hanno fatto capire che questo non basta perché il Male agisce con una forza distruttiva che deve essere superata con altri mezzi. Il perdono ha un prezzo anche per l’offeso: “egli deve superare in sé il male subito, deve come bruciarlo dentro di sé e con ciò rinnovare se stesso, così da coinvolgere poi in questo processo di trasformazione, di purificazioni interiori anche l’altro, il colpevole e ambedue, soffrendo fino in fondo il male e superandolo, diventare nuovi”[4]. E’ il grande mistero della “metànoia” che pervade tutto il Vangelo, impossibile da ottenere con le nostre sole forze, perciò il riconoscimento dei nostri peccati è il principio di ogni conversione a Dio. Infatti come potremmo implorare da Dio il perdono delle nostre colpe se non siamo disposti a perdonare agli altri il male che ci è stato fatto? Ecco la necessità della quotidiana preghiera del Signore.

“ … et ne nos inducas in tentationem”. La sesta invocazione, fissata come tale dalla Vulgata di S. Girolamo, fu accettata e recitata dal popolo di Dio per quasi 1700 anni. Invece, nel XXI secolo – epoca di contestazione, di rifiuto dell’Autorità e di relativismo – essa genera scandalo in molti saccenti intellettuali i quali, credendo di saperne di più di un Santo come Girolamo, vorrebbero tradurla: “Fa’ che non siamo indotti in tentazione” perché “non può essere Dio a indurci in tentazione”. Questa obiezione, a una cattolica “bambina” come me sembra la scoperta dell’acqua calda, dettata solo dalla smania di modernizzazione che pervade la cultura del nostro tempo e purtroppo anche la retta Dottrina. Certo che Dio, Colui che ha creato l’uomo per amore, non può essere l’ “autore” della tentazione! Questa consapevolezza pervade sia l’Antico che il Nuovo Testamento. Giobbe già sapeva che “la vita dell’uomo sulla terra è tutta una tentazione” (Gb 7, 1) e Dio permette a Satana di metterlo alla prova, ma non lo abbandona e lo aiuta a superare la tentazione, così come permette al demonio di mettere alla prova Gesù nel deserto e nel Getsemani, ma non Lo abbandona perché Suo figlio, vero uomo oltre che vero Dio, incarnandosi deve poter condividere con gli uomini ogni esperienza umana, tranne quella del peccato, per operarne la redenzione. Perciò il Padre Gli manda un angelo a confortarlo e sostenerLo nella tentazione della disperazione (Lc 22, 42). Con quella sesta domanda noi chiediamo a Dio, da un lato la grazia di riconoscerci deboli e di non inorgoglirci della nostra presunta virtù sentendoci santi e, dall’altro, di tenerci sempre nelle sue mani senza addossarci più di quanto siamo in grado di sopportare. Siamo confortati in questo dalle parole di S. Paolo: “Quindi chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere … Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1Cor 10, 13).

“…sed libera nos a Malo”. L’ultima domanda riassume tutte le precedenti. Chiediamo al Signore di liberarci da tutto quello che il demonio ordisce contro di noi per averci in suo potere e da soli non potremmo sfuggirgli se Dio stesso non venisse costantemente in nostro aiuto. Un’altra possibile traduzione è: “liberaci dal Maligno”, o dal “Malvagio”, accettabile anch’essa perché, invece che al Male impersonale alluderebbe al Male “persona”, cioè al demonio.

Quanto è attuale questo pericolo! Se al tempo dei primi cristiani il culmine del “male” era rappresentato dal tributare all’Imperatore romano il culto che doveva essere riservato solo a Dio, oggi imperversano l’arroganza del mercato, il traffico di armi, di droghe, di esseri umani, le guerre in vaste aree del mondo, i genocidi, il terrorismo. Per di più la filosofia moderna, materialista e relativista, ci spinge continuamente a scordarci di Dio per inseguire il nostro tornaconto materiale qui e ora. E allora il Pater Noster, recitato continuamente nel segreto della nostra coscienza, ci aiuta a rimanere attaccati a Dio, ci conserva e ci rinforza nella fede, impedisce che ci smarriamo nel difficile cammino della vita, ci aiuta a sopportare le inevitabili tribolazioni.

Ancora una volta S. Paolo ci trasmette la sua fiducia: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? … Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? … né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezze, né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8, 31 – 39).

 

[1] Voglio precisare che in questa mia riflessione riporterò sempre i versetti della preghiera in latino perché, come amo il “Vetus Ordo Missae” così amo il Pater Noster, così come S. Girolamo lo tradusse dalla versione greca dei VII.

[2] Gli apostoli seguirono l’esempio del loro Maestro. Pietro salì sulla terrazza della casa in cui alloggiava a Giaffa per pregare da solo e lì ebbe una rivelazione (At 10, 9 – 16).

[3] Ovviamente la Chiesa ha accolto la preghiera domenicale nella sua formulazione più completa, quella appunto secondo Matteo.

[4] Cfr Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, Rizzoli, 2007.

 

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1 commento su ““Oratio dominica”, la preghiera di Gesù”

  1. Direi che a volte, per la fragilità della.condizione umana, non è così facile conformarsi alla Santa volontà di Dio; per questo ciò che dobbiamo sempre chiedere al Signore sono le grazie necessarie per accettarla. Senza questo soccorso ci è tutto più difficile, come ci è pure difficile resistere alle tentazioni e alle insidie del demonio che continuamente vuole attirarci dalla sua parte. In fondo molte delle nostre richieste al Padre fanno riferimento alla continua tentazione del nostro eterno nemico. “Spero la via eterna e le grazie necessarie per meritarla” diciamo nell’Atto di Speranza. Tutto Dio ci dona per riuscire ad essere degni del paradiso. Questa conquista sta dunque nella nostra fortezza e soprattutto nella nostra consapevolezza che se Egli ci è Padre, non può volere altro che il nostro bene.

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