Minima Graeco-Latina. La presenza delle lingue classiche nel lessico religioso, filosofico e politico occidentale

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Giove Tonante, scultura (100 a.C. circa)

Introduzione

 

È risaputo che il mondo occidentale è debitore in larghissima misura, dal punto di vista linguistico, alla civiltà classica latina, o per discendenza diretta, poiché le lingue romanze sono la trasformazione del latino parlato nelle regioni centro-meridionali (Italia, Francia, penisola Iberica) dell’Impero romano d’Occidente, o per influsso più generalmente culturale (principalmente nel Medioevo e grazie alla civiltà cristiana) sulle altre lingue della parte nord-occidentale del nostro continente, cioè in particolare quelle germaniche (inglese, tedesco, fiammingo, lingue scandinave…). Accanto al latino, tuttavia, anche il greco antico ha fatto la sua parte nella “costruzione” del lessico intellettuale europeo, sia agendo direttamente sulla Chiesa, e la civiltà, bizantina (e quindi sulle Chiese orientali sia cattoliche che greco-scismatiche), sia cooperando col latino, al quale diede calchi e prestiti che, partendo in genere dal campo della filosofia e della letteratura, sono poi anch’essi entrati nel lessico religioso oltre che, almeno alcuni di essi, anche in quello quotidiano.

Non è dunque chi non veda come la nostra civiltà occidentale sia debitrice, partendo proprio dal lessico, alle radici culturali e linguistiche rappresentate dalla civiltà greco-romana, che – insieme a quella ebraica – ha anche forgiato, grazie sempre al Cristianesimo, tutto il nostro mondo occidentale[1].

È quindi nostra intenzione, dopo aver visto i grandi filoni della matrice linguistica latina dell’italiano, sviluppare ora un discorso, semplice (ma non banale) e quindi alla portata di (quasi) tutti, relativo alla analisi dei principali termini greci e latini che hanno contribuito allo sviluppo armonico ed ordinato del nostro mondo, sia nel campo filosofico-politico (non dimentichiamo che per i greci ed i romani la politica era parte dell’etica, e non scienza autonoma, come si è invece ritenuto da Machiavelli in poi) che in quello – molto più importante – della religione cristiana[2].

 

Premessa metodologica

 

La lingua greca e quella latina appartengono al ramo occidentale (o europeo) delle lingue indo-europee (o ariane, o ancora ario-germaniche, definizioni, queste, cadute in disuso dopo l’esperienza del nazismo e della Seconda Guerra mondiale), così come anche molte altre dell’Europa, antica e poi moderna (lingue celtiche, germaniche e slave). Il modello di partenza è dunque il cosiddetto «indo-europeo comune», non una lingua storicamente parlata, ma, appunto, una sorta di modello linguistico necessario, ricostruito artificialmente attraverso il metodo comparativistico, che consiste nell’individuare elementi comuni tra lingue che, in tal modo, dimostrano la loro parentela. Tali affinità presenti nelle radici lessicali e negli schemi morfologici di declinazione e coniugazione permettono dunque la “ricostruzione” laboratoriale di una ipotetica lingua antenata di tutte quelle appartenenti alla stessa grande famiglia (nel caso di specie quella indo-europea, appunto). Sul piano invece concretamente storico, la testimonianza insieme più antica (dal VI/V secolo a.C.) e più ampia di una lingua indo-europea è costituita dal sanscrito, cioè l’antica lingua sacra e letteraria dell’India. I suoi vocaboli costituiscono dunque il modello di partenza (senza tuttavia che si instauri un rapporto diretto di discendenza etimologica) per moltissimi termini greci, e poi latini.

 

«A Jove principium…» (Virgilio, Egloga III, v. 60) dicevano i latini; e noi dunque incominciamo la nostra rassegna dal nome della Divinità.

Mentre l’ebraismo, per salvaguardare anche in questo modo il proprio rigido monoteismo, non ha mai voluto profferire «il nome (a shem) di Dio», limitandosi a definirlo o con perifrasi («Io sono colui che è»; Es. 3,14) oppure con formule – se mi si consente il termine – “minori”, come per esempio «Signore» (Adonái), evitando di pronunciare il divino tetragramma con cui il Suo nome era indicato nelle Scritture (JHWH), la politeistica civiltà greca ha invece sia definito il nome «generale» o «comune» della divinità (theós; θεός; dio) che quello «proprio» del re (o padre) degli altri dei, cioè Zeus (Ζεύς).

Questo minimo esempio ci dà modo di inferire come lo studio, e quindi la successiva conoscenza, di una lingua possa essere un utilissimo strumento per la conoscenza della civiltà stessa che l’ha espressa ed usata, poiché è chiaro che gli usi e le consuetudini e le norme (in sintesi la “storia”) di un popolo riflettono il suo modo di pensare (e quindi conseguentemente di parlare). La glottologia e la linguistica storica possono rivelare dunque non solo la loro intrinseca bellezza, oserei dire “matematica” (in quanto scientificamente organizzata ed espressa), che nasce cioè dal loro studio “fine a se stesso”, ma anche quella estrinseca e, per dire così, “storico-culturale”, fatta di ciò che esse ci possono suggerire a proposito della civiltà che proprio “quella” lingua (e non un’altra) usò. Per usare definizioni create da Pascal (in religione proto-modernista, sì, ma d’ingegno…), queste due scienze partecipano sia dell’ésprit de géometrie che dell’ésprit de finesse.

Queste prime riflessioni generali ci permettono anche di azzardare un giudizio sulla nostra “civiltà” contemporanea: la sua decadenza deriva anche dal fatto che i popoli non riescono più ad esprimere la loro cultura con la loro lingua atavica, ma devono ricorrere sempre più frequentemente a lingue allogene[3] ed allotrie[4]. L’esempio più evidente è costituito dall’inglese, lingua ormai universalmente veicolare per eccellenza.

 

Entrando ora in argomento, il termine theós è accostato all’i(ndo) e(europeo) *dhuesó-s («spirito vitale, vita»)[5] da cui anche il latino bestia («essere vivente»), mentre per Zeus si può indicare l’i.e. *djēus («cielo, giorno luminoso»), cfr. sanscrito dyāúh («cielo»).

In entrambi i casi, tuttavia, il concetto comune di partenza è quello della luce/vita.

Altra osservazione: mentre il monoteismo ebraico, con la definizione di «Colui che è», insiste sulla “pensabilità” astrattamente assoluta di Dio, immateriale ed eterno, il politeismo greco arcaico, che ancora non ha sviluppato la capacità di astrazione ideale, propria della ellenicità classica, fissa la figura della divinità in categorie tangibili o quantomeno concretamente intelligibili quali il cielo, e la sua luminosità, e lo spirito (cioè la vita).

Passando ora al latino, accostabile a theós è deus, anticamente *deiuos (da cui poi divus, «divino»), mentre Zeus diventa Juppiter attraverso la forma arcaica Dies (cioè in realtà Deus) Piter (= Pater), in cui il termine dies collegabile anch’esso all’i.e. *djēus (cfr. Zeus) significherà, nel latino classico, «giorno», inteso però non tanto come determinazione di durata temporale, quanto come «luce del giorno, luminosità diurna». Questo al nominativo ed al vocativo, mentre gli altri casi della declinazione si presentano come sviluppo della forma Jov– (cfr. italiano Giove)[6] sempre dalla radice indoeuropea *djēus (in cui dj– è da pronunciarsi come j– francese di jour).

I greci ed i romani, in seguito e specialmente per influsso cristiano, hanno mutuato, come calco semantico[7], la forma ebraica Adonái («Signore») utilizzando i termini che nella loro lingua avevano quel medesimo significato: il greco Kýrios (Κύριος; < sanscr. çúra-h, «forte, valoroso»), che in età bizantina, pronunciato al vocativo Kirie (con il suono -i- invece che con quello -ü-, cioè il cosiddetto «iotacismo»), entrò nella liturgia della S. Messa nella formula Kirie eléison/ Κύριε ἐλέησον («Signore, abbi pietà»); il latino Dominus (< domus, «casa», dal sanscr. dámuna-h), cioè letteralmente «il padrone (di casa)».

 

 

 

[1] Non mi risulta – con buona pace dei neo-teologi e di altri “guru” della attuale società “politically correct” – che altre civiltà, da quelle africane a quelle andine ed amazzoniche o a quelle polinesiane, abbiano dato il medesimo apporto (o comunque un apporto, ancorché minore…) allo sviluppo della nostra civiltà occidentale ed alla elaborazione del suo pensiero.

[2] Preliminarmente è opportuno segnalare che i vocabolari etimologici di riferimento sono gli antichi, ma sempre validi, Emile Boisacq, Dictionnaire éthymologique de la langue grecque; Paris-Heideberg 1916 (Heidelberg 19502), per il greco, e per il latino Alfred Ernout-Alfred Meillet, Dictionnaire éthymologique de la langue latine; Paris 1932 (19594; rist. riveduta 1985).

[3] Allogeno, dal greco ἀλλογενής (alloghenès), «straniero», «di altra stirpe».

[4] Allotrio, dal greco ἀλλότριος (allòtrios), «estraneo».

[5] In linguistica ed in glottologia quando una forma è preceduta da asterisco ciò significa che tale forma è ipotizzata, ma non attestata da documenti scritti.

[6] Ricordiamo che le parole italiane (così come nelle altre lingue romanze) derivano non dal nominativo, ma dall’accusativo (o dall’ablativo) della parola latina (per cui Giove < Jovem, e non da Juppiter).

[7] In linguistica si parla di «calco semantico» quando una lingua si appropria di forme di un’altra utilizzando tuttavia termini propri, mentre parliamo di «prestito» quando si prendono termini di una lingua straniera o lasciandoli nella loro forma originaria o, tutt’al più, adattandoli alla grafia della lingua di arrivo. Esempio della prima categoria è l’italiano «fine settimana» ricalcato sull’inglese weeh end, della seconda termini come «film» (prestito, rimasto identico, dall’inglese) o «paltò» (adattamento dal francese paletot) o «pastiglia» (dal francese pastille, di contro all’italiano originario «pasticca»).

 

 

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