La pseudo-rivoluzione del linguaggio: braccio (lessicalmente) armato della lotta alla nostra civiltà cristiano-occidentale

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Stiamo assistendo, da qualche anno a questa parte, come forma estrema del tentativo di demaschilizzare la lingua partendo da una non meglio chiarita lotta per la “pari opportunità” lessicale, ad un atteggiamento parossistico (e in alcuni casi ridicolo al punto da sfiorare la farsa) tendente alla trasformazione della nostra lingua, almeno per il momento, nel suo aspetto morfologico-semantico. E ciò in una forma sempre più massiccia e veloce (motus in fine velocior…), a tal punto che in alcune situazioni sembra davvero che la réalité dépasse la fiction, ovvero che “la realtà vada aldilà di ogni immaginazione”.

Un qualche sentore se ne era già avuto negli ultimi decenni del secolo scorso, a cominciare dai tardi anni Settanta, quando in Inghilterra si pensò di sostituire la parola man (uomo), usata come suffisso in vocaboli composti indicanti attività e professioni, col più generico ed ovattato person, al fine di non urtare la sensibilità delle donne che, esercitando appunto alcuni di questi mestieri e professioni, venivano ad essere segnate, con infamia, non tanto col marchio “di Caino” quanto con quello “di Adamo”. E così rail-man (ferroviere) doveva diventare rail-person e mail-man (portalettere) mail-person e via suffissando.

In realtà poi (come è possibile evincere dalla consultazione di un moderno vocabolario inglese) rail-man, per il ferroviere maschio, lasciò il posto a rail-woman per la donna. Evidentemente l’intenzione voleva essere quella, ma per il momento si soprassedette e ci si accontentò della diversificazione morfologica maschile/femminile, di eliminare (solo semanticamente, almeno per il momento) ogni riferimento preciso e diretto sia al maschile che al femminile, creando così una sorta di “melassa” lessicale in cui l’equiparazione assoluta avrebbe dovuto portare alla indifferenziazione più totale, quasi una prefigurazione simbolica dell’androgino semantico.

Dovremmo dunque inferire che all’italiano vada un po’ meglio che non all’inglese, dato che la rivoluzione lessicale, sulla spinta del femminismo radicale, da noi è databile all’incirca all’inizio del nuovo secolo (e millennio), applicata con tanto di veline ingiuntive e coercenti a giornalisti, personale della scuola (vedansi le circolari, soprattutto quelle ministeriali) e ad altre categorie a “stretto contatto con il pubblico”. Essa lascia ancora sopravvivere il maschile ed il femminile, ma alcune frange più avanzate del politicamente (e filo “gender”) corretto hanno già avanzato la proposta di “asterischizzare” la desinenza (per es.: bambin*), in modo tale che ciascuno vi applichi la vocale di sua scelta, che potrebbe – per assurdo – anche non esistere, lasciando così la persona nell’indifferenziazione più totale.

Tuttavia un altro fronte si dovrebbe aprire: se è vero che assistiamo alla femminilizzazione di termini che, seppur grammaticalmente maschili, si sono sempre utilizzati per entrambi i generi (e questo è il solo caso in cui mi permetto di usare “genere”, al posto di sesso, dato che si parla di grammatica) – e quindi si vuole “sindaca”, “assessora”, “ministra”, e via dicendo –, dovrebbe essere altrettanto vero che termini che appaiono come femminili, ad es. elettricista, camionista, poeta, visto che ciò che urta le delicate orecchie delle femministe politicamente corrette sono le vocali, dovrebbero venir “maschilizzati” quando si tratti di uomini. Dunque elettricista o poeta saranno donne, mentre “elettrecisto” o “poeto” saranno uomini.

Ma non è così: lo pseudo-femminile in -a va bene, mentre lo pseudo-maschile in -o/-e non altrettanto. Chi piega la grammatica all’ideologia dovrebbe tener conto – razionalmente – di ogni supposta “stortura” linguistica e cercare di raddrizzarla per par condicio: Giacomo Leopardi, che si dilettava (come si sa) a scrivere poesie, ed era maschio, dovrebbe essere definito “poeto” (anzi meglio “poete”, rispettando l’etimologia greca).

Lasciando ora da parte ogni celia e tornando seriamente al nostro discorso, la grammatica esige razionalità, che si esprime anche attraverso la cosiddetta “analogia” (ce lo insegnano già i grammatici antichi greci e latini, tra cui un certo signor Caio Giulio Cesare, i cui “affari” andavano anche aldilà della pura e semplice politica) di contro al suo avversario, la “anomalia”. E dunque, la lingua italiana che conosce, per trasformare un sostantivo maschile nel suo equivalente femminile, alcune desinenze, deve usare tale metodo secondo le regole della tradizione (dell’uso e letteraria) e, soprattutto, dell’analogia. Tali desinenze per trasformare il maschile in femminile sono[1]:

-a, usata in genere per indicare uno stato naturale, come per gli animali (gatto/gatta) o gli esseri umani visti nella loro qualità essenziale (bambino/bambina), oppure in casi in cui il femminile sia già presente nell’etimo latino del vocabolo (maestro < magistrum; maestra < magistram);

-essa, per i termini che indicano una condizione acquisita: professore/professoressa; avvocato/avvocatessa…;

-trice (dal maschile in -tore), per indicare ruoli, funzioni o azioni svolti o ricoperti dalla persona (ciò che i latini chiamavano nomen agentis): educatore/educatrice, istitutore/istitutrice; eccezione solo apparente è dottore/dottoressa, e non “*dottrice”, in quanto la 2a -t- di dott-ore fa parte del tema e non della desinenza (< lat. doctorem).

Venendo ora al caso di specie di cui stiamo trattando, e su cui i “politicamente corretti”, assistiti da torme di giornalisti o veramente convinti o al più asserviti o anche solamente desiderosi di mantenere il cadreghino (o più banalmente la pagnotta), insistono con pervicacia degna di miglior causa (cioè i casi come: “sindaca, assessora”, “ministra” e via dicendo), dobbiamo preliminarmente osservare che, poiché tali termini (come anche, per es., “preside, console, presidente, giudice”) indicano più la carica ricoperta che non la persona che la riveste, non è a rigore necessario segnare il femminile rispetto al maschile: potremmo addirittura parlare di una sorta di “neutro” (come in latino e greco; tedesco ed altre lingue moderne), con la differenza però che, mentre il neutro delle lingue classiche indicava ciò che non era né maschile né femminile, nel nostro caso esso indicherebbe ciò (la carica istituzionale) che può essere sia maschile che femminile; in tal caso allora invece che “neutro” (né l’uno né l’altro) dovrebbe meglio chiamarsi “utro” (sia l’uno che l’altro). Se poi, fondandosi sul fatto che tali cariche un tempo erano appannaggio quasi esclusivamente di uomini e che solo da poco tempo anche le donne si sono affacciate in numero sempre maggiore sulla scena amministrativa e politica, e per di più – secondo le femministe – in un mondo ancora potentemente “maschilista”, qualcuno voglia dire che per conseguenza ideologica (per salvaguardare la dignità della donna!) l’uso dovrebbe ormai ammettere anche la forma femminile, ammettiamo pure che ciò possa avvenire, ma sempre secondo le regole della tradizione e della analogia: sindaco/sindachessa[2], assessore/assessoressa[3].

L’assurdità della eventuale pseudo-rivoluzione al femminile di una lingua non si fermerà, tuttavia, al livello morfologico-lessicale, ma porterà anche ad uno sconvolgimento sintattico-locutivo. Non si dovranno più usare, vale a dire, formule quali “procedere a passo d’uomo” o “ad altezza, a misura d’uomo”, ignorando che l’italiano “uomo” proviene dal latino homo, che, a differenza di vir, non significa specificamente “maschio”, ma più genericamente, ed ampiamente, “essere umano”[4]. Anche l’esclamazione “che barba!”, in riferimento ad un discorso o ad uno spettacolo particolarmente noioso, non potrà più avere corso legale, ma dovrà essere sostituito – immagino – con forme, sempre tricologiche, assegnabili però ad entrambi i sessi (pardon: generi!), quali “che peluria!” o “che capelli!”. Così si dovranno accuratamente evitare termini che siano caratteristicamente legati ad attività, mestieri o funzioni, almeno un tempo, tipicamente maschili o che in tali attività abbiano avuto la loro origine etimologica: non più “lavativo”, nel senso metaforico di “individuo con poca voglia di impegnarsi”, perché nato nell’ambiente militare[5]. Guai al mondo, poi, usare espressioni che abbiano ancora un retrogusto (anche se metaforicamente) di “lessico settoriale di casa chiusa”, ove la femminilità era angariata e vessata dal maschio padrone e predatore: mai più “fare una marchetta” (cioè, fuor di metafora, “scrivere un articolo giornalistico o un programma radio-televisivo talmente e smaccatamente elogiativo da trasformarsi in pubblicità occulta”) o parlare di “quindicina” o ancora di “prestazione” o la formula “fare flanella” per indicare il “camminare oziosamente, bighellonare”. La “demaschilizzazione” proseguirà poi col bando di “sul filo del rasoio”, trasformabile – chissà – in “sul filo della ceretta”.

Ciascuno poi si senta pure libero di immaginare quante situazioni esemplificative di tale trasformazione potrà ipotizzare…

Concludendo. Aldilà del fatto che forme quali sindaca o assessora possano essere ridicole[6], ciò che è più grave in questa sorta di “rivoluzione grammaticale” è che essa è null’altro se non un ennesimo strumento di una rivoluzione ben più ampia e mortifera; rivoluzione che, partita ai suoi albori con l’illuminismo ed il giacobinismo, proseguita col liberalismo, il comunismo e la rivoluzione sovietica, dopo aver concluso il suo primo ciclo col cosiddetto “Sessantotto”, sta ora, in questa fase che noi stiamo vivendo, tentando di colpire i sostenitori della retta ragione in vari punti che, pur sembrando essenzialmente formali, sono invece assolutamente e completamente sostanziali: la lingua, appunto, la liturgia, la moda, le arti visive e la letteratura, che, una volta “rinnovate”, dovranno essere le “teste di ponte” per passare alla disintegrazione dei loro “correlativi sostanziali”, cioè il ruolo (anche sessuale) della persona, la famiglia, il senso religioso, la civiltà intera – insomma – in tutti gli aspetti che essa ancora mantiene saldamente ancorati ad una visione naturale e razionale della vita.

 

 

[1] Per una trattazione completa del fenomeno cfr. L. Serianni, Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria; Torino 1988, pp. 89-94.

[2] Alcuni paladini di forme quali “sindaca” fondano il loro rifiuto della forma analogicamente corretta “sindachessa” sulla convinzione (esclusivamente e pregiudizialmente personalistica) che essa sarebbe “irridente” rispetto al ruolo della donna. Una simile convinzione, basata su illazioni personali e non su dati concreti (allora sarebbe irridente anche “professoressa”…), è un vero e proprio “processo alle intenzioni” dei parlanti, oltre che un’offesa alla loro (dei parlanti, s’intenda) intelligenza.

[3] Con un passo ancora più ardito sulla strada sia della etimologia che della analogia qualcuno ipotizza addirittura un femminile “*asseditrice”, ma – per arrivare a ciò – dovremmo pensare ad un maschile “*asseditore”, derivato cioè dal tema del presente (ad + sedeo), e non, come invece è, da quello del supino (ad + sessum), così come “professore” da pro + fessus (dal tema del supino), e non “*profatore” (< pro + fateor, tema del presente) o “dottore” da doctum e non da doceo (> *docitore). Per evitare la Scilla del ridicolo “politicamente corretto” rischiamo di cadere nel Cariddi del risibile (perché non storicamente corretto) “tradizionalmente corretto”.

[4] Allo stesso modo del greco ánthropos (άνθροπος) che, volendo infatti significare “essere umano”, pur presentando una desinenza tipicamente (ma non esclusivamente) maschile (-os), può ricevere – a seconda del suo valore – sia l’articolo maschile (ο) che quello femminile (η), assumendo così il significato di “essere umano maschio” o quello di “essere umano femmina”. Inoltre, un antico brocardo giuridico recita: Hic et haec homo, cioè “la parola ‘uomo’ vale questo e questa” (cioè per il maschio e per la femmina). E ancora un passo del Digestum giustinianeo afferma: Hominis appellatione tam foeminam quam masculum contineri nemo dubitat (il cui senso mi pare evidente anche senza doverlo tradurre).

[5] L’origine del termine è infatti questa: il soldato che non aveva voglia di lavorare “marcava visita” – altra locuzione che bisognerà evitare – guadagnandosi così normalmente, visto che la sua malattia era fasulla, la somministrazione di un clistere (in italiano arcaico detto appunto “lavativo”). Da qui, per metonimia, il nome di “lavativo” passò dalla cura al curato.

[6] Forme ridicole ed insulse non tanto e non solo per il fatto che lo dica io (o qualunque altra singola persona), ma perché contrastano (ed offendono) la regola basilare della grammatica, che è l’analogia. Così facendo si oppongono anche – cosa ben più grave – alla regola basilare dell’agire umano che è il pensare (e conseguentemente il parlare e lo scrivere) secondo logica e ragione, alias secondo natura. Ricordiamo poi che per i greci il termine lógos (λόγος) voleva significare sia “discorso” che “ragione”, poiché per essi nessun discorso non poteva provenire se non da un ragionamento preventivo; in altre parole: prima di parlare (o scrivere) bisogna pensare.

 

 

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