Il Vescovo Antonio Maletsky e 9 compagni, martiri russi per mano dei comunisti

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Si è tenuta il 21 maggio 2021 la X Sessione del Tribunale diocesano che sta riorganizzando il processo di beatificazione dei nuovi martiri cattolici russi del XX secolo. La sessione era presieduta dall’arcivescovo Mons. Paolo Pezzi della Gran Madre di Dio di Mosca. La riorganizzazione è stata dovuta al fatto che il processo di beatificazione ha visto ridursi il numero di Servi di Dio da quindici a dieci, per una serie di concause che andiamo a prendere in esame.

Ora, il processo riguarda la causa di beatificazione quali potenziali martiri dei «Servi di Dio Mons. Antonio Maletsky, Vescovo titolare di Donizana, Amministratore apostolico di Leningrado, e 9 compagni, uccisi in odio alla Fede».

Il capogruppo dunque è secondo la denominazione attuale il vescovo Anthony Maletsky, nato il 17 aprile 1861 a Pietroburgo da famiglia di antica nobiltà, secondogenito di Vladislav, capitano dell’esercito imperiale russo. Ricevette la sua prima educazione in famiglia e poi venne iscritto al ginnasio della comunità luterana presso la chiesa di Sant’Anna. Secondo la testimonianza dei suoi coetanei era un ragazzo molto vivace. In seguito, ormai vescovo, amava raccontare episodi della sua vita giovanile che avrebbe profondamente segnato tutta la sua futura esistenza. Un giorno aveva mancato di rispetto ad un vecchio, guardiano di casa, chiamandolo stupido. Il padre, avendolo saputo, chiamò il figlio e gli impose di mettersi in ginocchio, chiedere perdono e baciare la mano del guardiano. Questo fatto lasciò un segno indelebile nella sua coscienza: con questa lezione il padre gli aveva insegnato ad amare tutte le persone. Terminata la scuola, per volere del padre entrò nel corpo dei Cadetti. Ma la carriera d’ufficiale non lo attraeva. Abbandonò la scuola militare ed a diciannove anni entrò nel seminario cattolico di Pietroburgo. Nel 1884 venne ordinato sacerdote dal metropolita di Mogila Aleksandr Gintovt, che gli assegna il posto di vicario nella parrocchia di Sant’Antonio a Vitebsk, in Bielorussia. Dopo un anno è nominato vicario della cattedrale di Minsk, odierna capitale bielorussa.

Diventato sacerdote, si dedicò soprattutto ai poveri, prima in Bielorussia, poi in Lettonia e, finalmente, a Pietroburgo nella chiesa di San Stanislav. Qui, impressionato dalla tristissima condizione in cui vivevano le famiglie povere, prende la decisione di consacrare la propria vita ai ragazzi diseredati. Per questo motivo si reca a Torino per mettersi alla scuola di Don Bosco, dei salesiani da lui fondati, onde apprendere il giusto metodo educativo. Ritornato a Pietroburgo affitta un locale e, con l’aiuto di alcuni amici, organizza un asilo per ragazzi che di anno in anno diventano sempre più numerosi. Nel frattempo, accanto all’asilo nascono laboratori artigianali di falegnameria e legatura di libri.

“Io sarei ben lieto – scrive nel suo diario – di accogliere tutti in questo unico istituto cattolico. Il nostro sogno sarebbe di giungere ad un tale sviluppo simile a quello che si trova a Torino. Con chi occorre lavorare particolarmente, in chi seminare i fondamenti della fede e della morale se non fra i giovani?” Col tempo la vecchia residenza non è più sufficiente: nel 1896 in collaborazione con la Società di beneficienza della parrocchia di S. Caterina, compera la casa n. 19 sulla via Kirillov, rione di Peskov. Dopo breve tempo viene costruita una cappella dedicata al Sacratissimo cuore di Maria. Ai laboratori già esistenti si aggiungono quelli di meccanica, fucinatura e fonderia.

Dai materiali di archivio si apprende che in questo istituto i figli delle famiglie povere polacche, estoni e tedesche imparavano non soltanto un mestiere, ma anche un’ottima formazione. Secondo le pagelle, oltre alle normali discipline, studiavano la lingua latina, la storia antica, il canto, il disegno e perfino la danza. Molti figli di famiglie povere riuscivano così a frequentare l’università di Pietroburgo.

I poveri di Pietroburgo amavano molto il Padre. Incontrandolo sulle vie di Pietroburgo, quasi tutti, indipendentemente dalla professione di fede, lo salutavano levandosi il cappello. Egli cercava instancabilmente aiuto per i suoi poveri. Raccontano che nessuno di quelli che incontrava osasse rifiutarsi dall’aiutarlo. Secondo il ricordo di quelli che l’ebbero conosciuto, “egli non temeva nessuno e batteva alla porta di tutti”. Nel 1905 riuscì a raccogliere il denaro necessario alla compera di un terreno nel bosco dove costruì un sanatorio per i bambini di salute cagionevole. I ragazzi più grandi potevano passare le vacanze fra i boschi, mentre i bambini gracili erano ricoverati nel sanatorio per tutto l’anno, curati dalle monache, superiora delle quali era suor Paola, la sorella del Padre.

Nel 1912, grazie all’aiuto straordinario di Michail Kerbedz, venne costruita una grande casa di cinque piani sempre per la formazione dei giovani.

Ma il turbine spietato della rivoluzione bolscevica distrusse tutto quello che con tanta passione era stato costruito: i possedimenti della chiesa, le case di proprietà della “Società benefica” presso la Chiesa di S. Caterina. Tutto venne nazionalizzato e le istituzione educative dichiarate fuori legge. Dopo alcuni anni iniziò il calvario di padre Anthony.

Nel 1921 l’arcivescovo Ioann Cepljak lo nominò rettore del seminario clandestino che egli resse fino al suo primo arresto del 1923. Nel marzo 1923 infatti, assieme ad altri quattordici sacerdoti cattolici ricevette l’ordine di presentarsi a Mosca. Padre Anthony venne accusato di attività controrivoluzionarie nella causa denominata “Cepljak – Butkevich” e condannato a tre anni di reclusione. Grazie alla vasta campagna di proteste sollevata nei paesi europei, molti condannati vennero liberati prima dello scadere della pena. L’arcivescovo Cepljak, la cui condanna a morte era stata commutata a dieci anni di prigione, venne allontanato dall’Unione Sovietica. Padre Anthony fu liberato nel 1925. Ritornato a Pietroburgo, venne nominato parroco di Santa Caterina e vicario generale della diocesi di Mogila.

A causa della persecuzione contro la chiesa cattolica in URSS, la Santa sede fu costretta a riorganizzare la struttura ecclesiastica: al posto dei decanati vengono istituite cinque amministrazioni apostoliche, una delle quali, quella di Leningrado, venne affidata a padre Anthony Maletsky. Il 13 agosto 1926 Michel d’Erbini lo ordinò segretamente vescovo e gli consegnò una rilevante somma di denaro per le necessità dei sacerdoti e soprattutto per organizzare il seminario clandestino. Nell’ottobre 1926 si aprì clandestinamente il seminario con otto studenti. Dopo pochi mesi il seminario venne scoperto e liquidato dai sovietici

“Io sono stato ordinato vescovo – scriverà in seguito Mons. Maletsky – in tempi terribili. È triste pensare che ora a Piter (Leningrado) non c’è nessuno che ci possa aiutare. Mi è rimasto uno, Gesù Cristo”. Certamente non era un tempo facile. Avevano arrestato tutti i sacerdoti ed era rimasto soltanto il vescovo sessantacinquenne, costretto a celebrare la Santa Messa in una chiesa e correre subito dopo in un’altra per assicurare a tutti la divina liturgia.

Nel 1927, per non provocare reazioni all’estero con un processo pubblico, il partito comunista propose al vescovo di andare di propria volontà al confino, altrimenti l’avrebbero costretto con la forza. Nel maggio seguente lo costrinsero a firmare un documento in cui accettò di andare in esilio di propria volontà. Il vescovo si trasferì segretamente ad Archangel’sk. Preoccupati per l’improvvisa scomparsa del vescovo, i fedeli inoltrarono alle autorità cittadine un documento dove si proclamava l’innocenza del proprio pastore e nello stesso tempo se ne chiedeva l’immediata liberazione. Le autorità risposero che «Il cittadino Maleckij non è stato arrestato e neppure esiliato». La notizia giunse agli orecchi del vescovo il quale, a proprio rischio, decise di ritornare dall’esilio.

A Leningrado non cessò di essere sottoposto regolarmente a minacce e perquisizioni, ma tutto questo non fermò l’attività del vescovo. Riorganizzò in qualche modo il seminario clandestino e ordinò due sacerdoti, sempre clandestinamente. Nel febbraio 1929, prevedendo un prossimo arresto, ordinò segretamente vescovo padre Teofil Matuljanis e lo nominò suo vicario.

Il vescovo Maletsky venne nuovamente arrestato nel febbraio del 1930. Accusato di attività antisovietica e di tenere rapporti con l’estero, fu condannato a tre anni di confino da scontarsi nella Siberia Orientale. Dall’esilio scriveva: «Vivendo in un’izba fra monti altissimi, coperti di boscaglia, dove gli orsi si muovono lungo i bellissimi argini del fiume Angara, c’è la possibilità di entrare in rapporto con Dio nell’assoluta solitudine. Io desideravo, al termine della mia vita, di ritirarmi nel silenzio di un monastero. Ho trovato quest’angolo, ma molto lontano, lontano da tutti, anche dal servizio parrocchiale tanto caro al mio spirito. Non c’è qui neppure un cattolico … Sia fatta la volontà di Dio. Vivo come fossi in un monastero».

Da più di tre anni condivideva il tetto con un altro esiliato nel villaggio Dubinino, nelle vicinanze di Bratsk. La popolazione buriata del luogo amava il vecchio vescovo che amichevolmente chiamavano nonno. Ma la dura esperienza dell’esilio alla fine ebbe il sopravvento sulle forze del vescovo, che si ammalò gravemente ed ormai altro non aspettava che la morte.

Finalmente nel febbraio 1934 l’ambasciata polacca ottenne che il vescovo potesse lasciare l’URSS. Una parte del viaggio per giungere alla stazione di Irkutsk, dovette farlo a piedi. Una persona che lo vide giungere alla stazione dove avrebbe preso il treno, conferma di aver trovato il vescovo, affamato, stremato di forze che non sapeva dove si trovava e se fosse stato veramente liberato. Giunto a Leningrado Mons. Maletsky si rifiutò decisamente di abbandonare la città e il gregge lui affidato. Riuscirono a convincerlo quando gli fecero capire che era necessario far sapere al Santo Padre di persona la situazione in cui si trovava la Russia.

A Varsavia il vescovo, ridotto agli estremi, fu trasportato a braccia direttamente dal vagone all’ospedale, dove morì il 17 gennaio 1935. Il suo corpo venne solennemente sepolto nella cattedrale di Varsavia. In seguito venne deposto nella cripta dei vescovi ausiliari di Varsavia al cimitero di Povonzk.

Oltre a lui, sono parte del processo di beatificazione il prelato Konstantin Budkevich (1867-1923), i sacerdoti Jan Troygo (1881-1932), Pavel Khomich (1893-1941), Francis Budris (1882-1937), Anthony Chervinsky (1881-1938), madre Ekaterina Sienskaya OPL (al secolo Anna Abrikosova; 1883-1936) e la laica Camilla Krushelnitskaya (1892-1937). Questi furono tutti martirizzati durante la persecuzione bolscevica.

La Congregazione per le Cause dei Santi ha approvato l’inserimento nel gruppo dei Servi di Dio il vescovo Karol Slivovsky (1855-1933) ed il sacerdote Anthony Dzemeshkevich (1881-1938).

I sacerdoti Epifaniy (Igor Alexandrovich) Akulov (1897-1937) e Potapiy (Peter Andreevich) Emelyanov (1884-1936), nonché suor Rosa del Cuore di Maria OPL (Galina Entkevich; 1896-1944)), inizialmente inclusi nel processo, hanno perso il loro status di Servi di Dio in quanto evidentemente è risultato con dimostrabile il loro martirio in odio alla fede.

Invece i sacerdoti della Congregazione Mariana Andrei Tsikoto (1891-1952), Janis Mendriks (1907-1953) e Fabian Abrantovic (1884-1946) sono stati esclusi dal processo in Russia, mentre il loro percorso verso la beatificazione continua a cura della loro Congregazione in Polonia, così come succede per il pallottino Stanislaw Shulminsky (1894-1941).

La riorganizzazione del processo in Russia consente di agevolare e completare il processo di beatificazione di quei Servi di Dio che vivevano e operavano nel territorio dell’odierna Russia e la cui venerazione privata è ben nota e sostenuta nelle parrocchie cattoliche. Entro pochi anni sarà dunque possibile completare la fase diocesana del processo e trasferire la causa alla Congregazione per la Canonizzazione dei Santi.

 

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