Il Maestro di coloro che sanno… Purgatorio XXV

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Gustave Doré (1832-1883), Canto tra le fiamme (1861) 

 

Ora era onde ’l salir non volea storpio[1];

ché ’l sole avea il cerchio di merigge[2]

lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio:

 

per che, come fa l’uom che non s’affigge

ma vassi a la via sua, che che li appaia,

se di bisogno stimolo il trafigge,

 

così intrammo noi per la callaia,

uno innanzi altro prendendo la scala

che per artezza[3] i salitor dispaia.

 

E quale il cicognin che leva l’ala

per voglia di volare, e non s’attenta

d’abbandonar lo nido, e giù la cala;

 

tal era io con voglia accesa e spenta

di dimandar, venendo infino a l’atto

che fa colui ch’a dicer s’argomenta.

 

Non lasciò[4], per l’andar che fosse ratto,

lo dolce padre mio, ma disse: «Scocca

l’arco del dir, che ’nfino al ferro hai tratto».

 

Allor sicuramente apri’ la bocca

e cominciai: «Come si può far magro

là dove l’uopo di nodrir non tocca?».

 

«Se t’ammentassi come Meleagro

si consumò al consumar d’un stizzo,

non fora», disse, «a te questo sì agro[5];

 

e se pensassi come, al vostro guizzo,

guizza dentro a lo specchio vostra image,

ciò che par duro ti parrebbe vizzo.

 

Ma perché dentro a tuo voler t’adage,

ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego

che sia or sanator de le tue piage[6]».

 

«Se la veduta[7] etterna li dislego»,

rispuose Stazio, «là dove tu sie,

discolpi me non potert’io far nego».

 

Poi cominciò: «Se le parole mie,

figlio, la mente tua guarda e riceve[8],

lume ti fiero al come che tu die.

 

Sangue perfetto, che poi non si beve

da l’assetate vene, e si rimane

quasi alimento che di mensa leve,

 

prende nel core a tutte membra umane

virtute informativa, come quello

ch’a farsi quelle per le vene vane[9].

 

Ancor digesto, scende ov’è più bello

tacer che dire; e quindi poscia geme

sovr’altrui sangue in natural vasello.

 

Ivi s’accoglie l’uno e l’altro insieme,

l’un disposto a patire, e l’altro a fare

per lo perfetto loco onde si preme;

 

e, giunto lui, comincia ad operare

coagulando prima, e poi avviva

ciò che per sua matera fé constare.

 

Anima fatta la virtute attiva

qual d’una pianta, in tanto differente,

che questa è in via e quella è già a riva,

 

tanto ovra poi, che già si move e sente,

come spungo[10] marino; e indi imprende

ad organar le posse ond’è semente.

 

Or si spiega[11], figliuolo, or si distende

la virtù ch’è dal cor del generante,

dove natura a tutte membra intende.

 

Ma come d’animal divegna fante[12],

non vedi tu ancor: quest’è tal punto,

che più savio di te fé già errante,

 

sì che per sua dottrina fé disgiunto

da l’anima il possibile intelletto,

perché da lui non vide organo assunto.

 

Apri a la verità che viene il petto;

e sappi che[13], sì tosto come al feto

l’articular del cerebro è perfetto,

 

lo motor primo a lui si volge lieto

sovra tant’arte di natura, e spira

spirito novo, di vertù repleto,

 

che ciò che trova attivo quivi, tira

in sua sustanzia, e fassi un’alma sola,

che vive e sente e sé in sé rigira.

 

E perché meno ammiri la parola,

guarda il calor del sole che si fa vino,

giunto a l’omor che de la vite cola.

 

Quando Lachesìs non ha più del lino,

solvesi da la carne, e in virtute

ne porta seco e l’umano e ’l divino:

 

l’altre potenze tutte quante mute;

memoria, intelligenza e volontade

in atto molto più che prima agute.

 

Sanza restarsi per sé stessa cade

mirabilmente a l’una de le rive;

quivi conosce prima le sue strade.

 

Tosto che loco lì la circunscrive,

la virtù formativa raggia intorno

così e quanto ne le membra vive.

 

E come l’aere, quand’è ben piorno[14],

per l’altrui raggio che ’n sé si reflette,

di diversi color diventa addorno;

 

così l’aere vicin quivi si mette

in quella forma ch’è in lui suggella

virtualmente l’alma che ristette;

 

e simigliante poi a la fiammella

che segue il foco là ’vunque si muta,

segue lo spirto sua forma novella.

 

Però che quindi ha poscia sua paruta,

è chiamata ombra; e quindi organa poi

ciascun sentire infino a la veduta.

 

Quindi parliamo e quindi ridiam noi;

quindi facciam le lagrime e ’ sospiri

che per lo monte aver sentiti puoi.

 

Secondo che ci affiggono i disiri

e li altri affetti, l’ombra si figura;

e quest’è la cagion di che tu miri».

 

E già venuto a l’ultima tortura[15]

s’era per noi[16], e vòlto a la man destra,

ed eravamo attenti ad altra cura.

 

Quivi la ripa fiamma in fuor balestra,

e la cornice spira fiato in suso

che la reflette e via da lei sequestra;

 

ond’ir ne convenia dal lato schiuso[17]

ad uno ad uno; e io temea ’l foco

quinci, e quindi temeva cader giuso.

 

Lo duca mio dicea: «Per questo loco

si vuol tenere a li occhi stretto il freno,

però ch’errar potrebbesi per poco».

 

‘Summae Deus clementiae’ nel seno

al grande ardore allora udi’ cantando,

che di volger mi fé caler[18] non meno;

 

e vidi spirti per la fiamma andando[19];

per ch’io guardava a loro e a’ miei passi

compartendo la vista a quando a quando.

 

Appresso il fine ch’a quell’inno fassi,

gridavano alto: ‘Virum non cognosco’;

indi ricominciavan l’inno bassi.

 

Finitolo, anco gridavano: «Al bosco

si tenne Diana, ed Elice caccionne

che di Venere avea sentito il tòsco».

 

Indi al cantar tornavano; indi donne

gridavano e mariti che fuor casti

come virtute e matrimonio imponne[20].

 

E questo modo credo che lor basti

per tutto il tempo che ’l foco li abbruscia:

con tal cura conviene e con tai pasti

 

che la piaga da sezzo si ricuscia.

 

 

[1] È qui sostantivo, e non aggettivo, col valore di «impedimento» e poi di «indugio».

[2] Dal latino meridies («mezzogiorno»), con la desinenza che presenta lo stesso fenomeno fonetico di «oggi» (< hodie). Da tale termine abbiamo anche «antimeridiano», cioè del mattino, e «pomeriggio/pomeridiano», cioè dopo il mezzogiorno.

[3] Da non confondere con «altezza», deriva dal latino artus («stretto») e vale dunque «strettezza».

[4] È sottinteso l’infinito «dire», ricavabile dal «disse» del verso successivo. Tale ellissi era consueta nell’italiano antico dopo il verbo «lasciare» (col valore di «tralasciare»).

[5] «Agro», letteralmente «acerbo, aspro» e poi per traslato «difficile», si inserisce in una metafora, di argomento “agricolo”, che occupa anche i versi successivi: oltre ad «agro», troviamo infatti «duro» (nel senso di «non maturo», e quindi di «poco chiaro») e poi «vizzo», letteralmente «floscio, molle» perché troppo maturo, e quindi, per traslato, «chiaro, evidente».

[6] La forma con il suono palatale della consonante (g) invece di quello velare (gh) si spiega con la pronuncia ecclesiastica (o romana, e quindi dotta) del latino plagae (letto appunto plage), mentre la pronuncia popolare prevedeva plaghae (e poi plaghe > piaghe).

[7] Cioè, quasi certamente, la vista eterna di Dio, cioè come la Provvidenza “vede” e prepara il succedersi degli eventi. Interpretazione alquanto complessa, che può spiegare la banalizzazione testuale, in alcuni mss., di «veduta» in «vendetta», «verità» e «virtude».

[8] Ancora un caso della figura retorica dell’hysteron-proteron: infatti, prima «si riceve», cioè «si capisce», e poi «si guarda», cioè «si custodisce» ciò che si è compreso.

[9] Forma verbale che, con epitesi dell’enclitica -ne, vale «ne va», ma chiaramente in collocazione di bisticcio con «vene», costituendo così la figura retorica della paronomasia (o annominazione).

[10] Dal latino sponga («spugna»; cfr. in anatomia la «spongiosa ossea»), divenuto maschile per incrocio con «fungo», anche perché si riteneva che la spugna fosse appunto un fungo (e alcuni mss. riportano infatti la lectio facilior «fungo»).

[11] Nel suo significato letterale (dal verbo latino explico, -are) di «allargare» (cfr. l’espressione, ancora in uso attualmente, «spiegare la vele»).

[12] Termine già usato da Dante nel Purgatorio (c. xi, v. 66), col significato di «essere che parla» (dal latino for, -ari, «parlare»), cioè «uomo», qui contrapposto agli animali, da cui l’uomo si distingue appunto grazie soprattutto alla parola.

[13] Traduzione letterale della formula latina della filosofia scolastica scias quod, con cui si concludeva in genere una spiegazione razionale. Il contesto dei vv. 37-108, tipicamente tomistico, è caratterizzato da una serie di latinismi dotto-filosofici: «cerebro» (< cerebrum, «cervello», da cui in italiano abbiamo «cerebrale»), «repleto» (< repletus, «riempito»), «ci affiggono» (< adfigo, -ere, «colpire»), cioè «ci colpiscono, ci toccano», anche se alcuni editori preferiscono la lezione «ci affliggono», cioè «ci addolorano, ci tormentano».

[14] Forma arcaica per «piovorno», cioè «piovoso».

[15] Due i possibili significati: «curva, torcimento», riferito alla piega circolare della cornice, oppure «tormento», riferito alla pena che le anime espiano in quest’ultima cornice.

[16] Forma impersonale ricalcata sul latino ventum erat a nobis, con il consueto complemento d’agente espresso con «per».

[17] Col significato di «non chiuso» e quindi «aperto completamente», a differenza del moderno «schiudere» col valore di «aprire in parte» (es. «schiudere la porta»), anche se tuttavia l’espressione «i fiori si schiudono» vale invero «sbocciano, si aprono del tutto».

[18] Quasi certamente dalla forma verbale impersonale «mi cale», cioè «mi importa» e non latinismo da caleo, -ere («riscaldare, accendere» di desiderio, da cui anche calidus > caldo).

[19] Uso, latineggiante, del participio predicativo dell’oggetto retto da un verbum sentiendi (o «di percezione»), in questo caso «vidi»: il senso della frase è dunque «vidi degli spiriti andare (o: che/mentre andavano)», come appunto il latino video te scribentem: «ti vedo che scrivi» o «ti vedo scrivere» o ancora «ti vedo mentre scrivi».

[20] La forma «imponne» non presenta la geminatio (raddoppiamento) della -n- per puri motivi di rima, ma è in realtà la forma verbale seguita dal pronome personale enclitico «impon(e)-ne», cioè «ci impone», con troncamento della desinenza -e.

 

 

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