John Flaxman (6 luglio 1755 – 7 dicembre 1826), Le due Corone, acquaforte (1807), libro Composizioni dell’inferno, purgatorio e paradiso, Londra (sec. XVIII, sec. XIX)
Imagini, chi bene intender cupe[1]
quel ch’i’ or vidi – e ritegna l’image,
mentre ch’io dico, come ferma rupe –,
quindici stelle che ’n diverse plage
lo ciel avvivan di tanto sereno
che soperchia de l’aere ogne compage;
imagini quel carro a cu’ il seno
basta del nostro cielo e notte e giorno,
sì ch’al volger del temo non vien meno;
imagini la bocca di quel corno
che si comincia in punta de lo stelo
a cui la prima rota va dintorno,
aver fatto di sé due segni in cielo,
qual fece la figliuola di Minoi[2]
allora che sentì di morte il gelo;
e l’un ne l’altro aver li raggi suoi,
e amendue girarsi per maniera
che l’uno andasse al primo e l’altro al poi[3];
e avrà quasi l’ombra de la vera
costellazione e de la doppia danza
che circulava[4] il punto dov’io era:
poi ch’è tanto di là da nostra usanza,
quanto di là dal mover de la Chiana[5]
si move il ciel che tutti li altri avanza.
Lì si cantò non Bacco, non Peana[6],
ma tre persone in divina natura,
e in una persona essa e l’umana.
Compié ’l cantare e ’l volger sua misura;
e attesersi a noi quei santi lumi,
felicitando sé di cura in cura.
Ruppe il silenzio ne’ concordi numi
poscia la luce in che mirabil vita
del poverel di Dio narrata fumi,
e disse: «Quando l’una paglia è trita,
quando la sua semenza è già riposta,
a batter l’altra dolce amor m’invita.
Tu credi che nel petto onde la costa
si trasse per formar la bella guancia
il cui palato a tutto ’l mondo costa,
e in quel che, forato da la lancia,
e prima e poscia[7] tanto sodisfece,
che d’ogne colpa vince la bilancia,
quantunque a la natura umana lece
aver di lume, tutto fosse infuso
da quel valor che l’uno e l’altro fece;
e però miri[8] a ciò ch’io dissi suso,
quando narrai che non ebbe ’l secondo
lo ben che ne la quinta luce è chiuso.
Or apri li occhi a quel ch’io ti rispondo,
e vedrai il tuo credere e ’l mio dire
nel vero farsi come centro in tondo.
Ciò che non more e ciò che può morire
non è se non splendor[9] di quella idea
che partorisce, amando, il nostro Sire;
ché quella viva luce che sì mea[10]
dal suo lucente, che non si disuna[11]
da lui né da l’amor ch’a lor s’intrea[12],
per sua bontate il suo raggiare aduna,
quasi specchiato, in nove sussistenze,
etternalmente rimanendosi una.
Quindi discende a l’ultime potenze
giù d’atto in atto, tanto divenendo,
che più non fa che brevi contingenze;
e queste contingenze essere intendo
le cose generate, che produce
con seme e sanza seme il ciel movendo.
La cera di costoro e chi la duce[13]
non sta d’un modo; e però sotto ’l segno
ideale poi più e men traluce.
Ond’elli avvien ch’un medesimo legno,
secondo specie, meglio e peggio frutta;
e voi nascete con diverso ingegno.
Se fosse a punto la cera dedutta
e fosse il cielo in sua virtù supprema,
la luce del suggel parrebbe tutta;
ma la natura la dà sempre scema,
similemente operando a l’artista
ch’a l’abito[14] de l’arte ha man che trema.
Però se ’l caldo amor la chiara vista
de la prima virtù dispone e segna,
tutta la perfezion quivi s’acquista.
Così fu fatta già la terra degna
di tutta l’animal perfezione;
così fu fatta la Vergine pregna;
sì ch’io commendo tua oppinione,
che l’umana natura mai non fue
né fia qual fu in quelle due persone.
Or s’i’ non procedesse avanti piùe,
‘Dunque, come costui fu sanza pare?’
comincerebber le parole tue.
Ma perché paia ben ciò che non pare,
pensa chi era, e la cagion che ’l mosse,
quando fu detto «Chiedi», a dimandare.
Non ho parlato sì, che tu non posse[15]
ben veder ch’el fu re, che chiese senno
acciò che re sufficiente fosse;
non per sapere il numero in che enno
li motor di qua sù, o se necesse
con contingente mai necesse fenno;
non si est dare primum motum esse,
o se del mezzo cerchio far si puote
triangol sì ch’un retto non avesse.
Onde, se ciò ch’io dissi e questo note,
regal prudenza è quel vedere impari
in che lo stral di mia intenzion percuote;
e se al «surse» drizzi li occhi chiari,
vedrai aver solamente respetto
ai regi, che son molti, e ’ buon son rari.
Con questa distinzion prendi ’l mio detto;
e così puote star con quel che credi
del primo padre e del nostro Diletto.
E questo ti sia sempre piombo a’ piedi,
per farti mover lento com’uom lasso
e al sì e al no che tu non vedi:
ché quelli è tra li stolti bene a basso,
che sanza distinzione afferma e nega
ne l’un così come ne l’altro passo;
perch’elli ’ncontra che più volte piega
l’oppinion corrente in falsa parte,
e poi l’affetto l’intelletto lega.
Vie più che ’ndarno da riva si parte,
perché non torna tal qual e’ si move,
chi pesca per lo vero e non ha l’arte.
E di ciò sono al mondo aperte prove
Parmenide, Melisso e Brisso e molti,
li quali andaro e non sapean dove;
sì fé Sabellio e Arrio e quelli stolti
che furon come spade a le Scritture
in render torti li diritti volti.
Non sien le genti, ancor, troppo sicure
a giudicar, sì come quei che stima
le biade in campo pria che sien mature;
ch’i’ ho veduto tutto ’l verno prima
lo prun mostrarsi rigido e feroce;
poscia portar la rosa in su la cima;
e legno vidi già dritto e veloce
correr lo mar per tutto suo cammino,
perire al fine a l’intrar de la foce.
Non creda donna Berta e ser Martino,
per vedere un furare[16], altro offerere,
vederli dentro al consiglio divino;
ché quel può surgere, e quel può cadere».
[1] Latinismo dotto (< cupit), col valore di desidera.
[2] La forma Minoi per Minosse è dotta, formata sull’esempio dei casi indiretti latini del nome Minos.
[3] Il senso del verso non è inteso in modo univoco: secondo alcuni esso significa che una corona dei beati gira in un senso (prima) e l’altra nell’altro (poi), mentre secondo altri le due corone girano nello stesso senso, ma una più velocemente (prima) e l’altra più lentamente (poi).
[4] Il verbo è usato con valore transitivo («circondava col suo giro»), mentre attualmente esso è usato normalmente con valore intransitivo («andare in giro»).
[5] L’ipotesi più probabile è che si tratti del nome proprio del fiume toscano Chiana, affluente del Tevere. Tuttavia alcuni commentatori lo intendono come nome comune («stagno, gora, acqua morta»), piuttosto comune in testi del tempo. La presenza dell’articolo determinativo sembra avallare comunque la prima ipotesi.
[6] Uno degli appellativi del dio Apollo, invocato nei canti in sua lode con questo nome, passato poi per metonimia ad indicare il canto celebrativo stesso.
[7] Il valore di prima e di poscia è controverso: secondo alcuni si intende prima e dopo la trafittura del petto di Gesù (quindi durante la vita, prima, e nella passione, poi); secondo altri invece si deve intendere, con valore più storicamente universale, l’umanità prima della Redenzione e quella dopo di essa.
[8] Col valore del verbo latino miror, -ari, cioè «ti meravigli».
[9] Col valore, consueto nel Paradiso dantesco, di «luce riflessa».
[10] Altro latinismo dotto, dal verbo meor, -ari, col valore di «passare», e poi di «penetrare, derivare».
[11] Neologismo dantesco, col significato di «non poter non essere Uno», indicando così l’unità assoluta e perfetta della Trinità divina.
[12] Consueto neologismo dantesco costruito con la preposizione in più, in questo caso, il numerale tre, col valore di «si fa terzo».
[13] Col significato, presente talora anche nel latino duco, -ere, di «»plasmare.
[14] Col valore filosofico del latino habitus (< verbo habeo, -ére): «atteggiamento» o «disposiziome» d’animo, naturale o acquisita.
[15] Desinenza arcaica per possa.
[16] Latinismo dotto da fur (ladro): rubare (cfr. anche la forma comune furto).