Il Maestro di color che sanno… Paradiso IV

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Philipp Veit (13 febbraio 1793 – 18 dicembre 1877), Dante incontra Costanza d’Altavilla e Piccarda Donati, affresco, 1817-1827

 

Intra due cibi, distanti e moventi

d’un modo, prima si morria di fame,

che liber’omo l’un recasse ai denti;

 

sì si starebbe un agno intra due brame

di fieri lupi, igualmente temendo;

sì si starebbe un cane intra due dame[1]:

 

per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo,

da li miei dubbi d’un modo sospinto,

poi ch’era necessario, né commendo.

 

Io mi tacea, ma ’l mio disir dipinto

m’era nel viso, e ’l dimandar con ello,

più caldo assai che per parlar distinto.

 

Fé sì Beatrice qual fé Daniello,

Nabuccodonosor levando d’ira,

che l’avea fatto ingiustamente fello;

 

e disse: «Io veggio ben come ti tira

uno e altro disio, sì che tua cura[2]

sé stessa lega sì che fuor non spira.

 

Tu argomenti: «Se ’l buon voler dura,

la violenza altrui per qual ragione

di meritar mi scema la misura?».

 

Ancor di dubitar ti dà cagione

parer tornarsi l’anime a le stelle,

secondo la sentenza di Platone[3].

 

Queste son le question che nel tuo velle[4]

pontano[5] igualmente; e però pria

tratterò quella che più ha di felle[6].

 

D’i Serafin colui che più s’india[7],

Moisè, Samuel, e quel Giovanni

che prender vuoli, io dico, non Maria,

 

non hanno in altro cielo i loro scanni

che questi spirti che mo t’appariro,

né hanno a l’esser lor più o meno anni;

 

ma tutti fanno bello il primo giro,

e differentemente han dolce vita

per sentir più e men l’etterno spiro[8].

 

Qui si mostraro, non perché sortita

sia questa spera lor, ma per far segno

de la celestial ch’à men salita.

 

Così parlar conviensi al vostro ingegno,

però che solo da sensato apprende

ciò che fa poscia d’intelletto degno.

 

Per questo la Scrittura condescende

a vostra facultate, e piedi e mano

attribuisce a Dio, e altro intende;

 

e Santa Chiesa con aspetto umano

Gabriel e Michel vi rappresenta,

e l’altro che Tobia rifece sano.

 

Quel che Timeo de l’anime argomenta

non è simile a ciò che qui si vede,

però che, come dice, par che senta.

 

Dice che l’alma a la sua stella riede,

credendo quella quindi esser decisa

quando natura per forma la diede;

 

e forse sua sentenza è d’altra guisa

che la voce non suona, ed esser puote

con intenzion da non esser derisa.

 

S’elli intende tornare a queste ruote

l’onor de la influenza e ’l biasmo, forse

in alcun vero suo arco percuote.

 

Questo principio, male inteso, torse

già tutto il mondo quasi, sì che Giove,

Mercurio e Marte a nominar trascorse.

 

L’altra dubitazion che ti commove

ha men velen, però che sua malizia

non ti poria menar da me altrove.

 

Parere ingiusta la nostra giustizia

ne li occhi d’i mortali, è argomento

di fede e non d’eretica nequizia.

 

Ma perché puote vostro accorgimento

ben penetrare a questa veritate,

come disiri[9], ti farò contento.

 

Se violenza è quando quel che pate[10]

niente conferisce a quel che sforza,

non fuor quest’alme per essa scusate;

 

ché volontà, se non vuol, non s’ammorza,

ma fa come natura face in foco,

se mille volte violenza il torza.

 

Per che, s’ella si piega assai o poco,

segue la forza; e così queste fero

possendo rifuggir nel santo loco.

 

Se fosse stato lor volere intero,

come tenne Lorenzo in su la grada,

e fece Muzio a la sua man severo,

 

così l’avria ripinte per la strada

ond’eran tratte[11], come fuoro sciolte;

ma così salda voglia è troppo rada.

 

E per queste parole, se ricolte

l’hai come dei, è l’argomento casso

che t’avria fatto noia ancor più volte.

 

Ma or ti s’attraversa[12] un altro passo

dinanzi a li occhi, tal che per te stesso

non usciresti: pria saresti lasso.

 

Io t’ho per certo ne la mente messo

ch’alma beata non poria mentire,

però ch’è sempre al primo vero appresso;

 

e poi potesti da Piccarda udire

che l’affezion del vel Costanza tenne;

sì ch’ella par qui meco contradire.

 

Molte fiate già, frate, addivenne

che, per fuggir periglio, contra grato

si fé di quel che far non si convenne;

 

come Almeone, che, di ciò pregato

dal padre suo, la propria madre spense,

per non perder pietà[13], si fé spietato.

 

A questo punto voglio che tu pense

che la forza al voler si mischia, e fanno

sì che scusar non si posson l’offense.

 

Voglia assoluta[14] non consente al danno;

ma consentevi in tanto in quanto teme,

se si ritrae, cadere in più affanno.

 

Però, quando Piccarda quello spreme,

de la voglia assoluta intende, e io

de l’altra; sì che ver diciamo insieme».

 

Cotal fu l’ondeggiar del santo rio

ch’uscì del fonte[15] ond’ogne ver deriva;

tal puose in pace uno e altro disio.

 

«O amanza del primo amante, o diva»,

diss’io appresso, «il cui parlar m’inonda

e scalda sì, che più e più m’avviva,

 

non è l’affezion mia tanto profonda,

che basti a render voi grazia per grazia;

ma quei che vede e puote a ciò risponda.

 

Io veggio ben che già mai non si sazia

nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra[16]

di fuor dal qual nessun vero si spazia.

 

Posasi in esso, come fera in lustra[17],

tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:

se non, ciascun disio sarebbe frustra.

 

Nasce per quello, a guisa di rampollo[18],

a piè del vero il dubbio; ed è natura

ch’al sommo pinge noi di collo in collo.

 

Questo m’invita, questo m’assicura

con reverenza, donna, a dimandarvi

d’un’altra verità che m’è oscura.

 

Io vo’ saper se l’uom può sodisfarvi

ai voti manchi sì con altri beni,

ch’a la vostra statera non sien parvi».

 

Beatrice mi guardò con li occhi pieni

di faville d’amor così divini,

che, vinta, mia virtute diè le reni[19],

 

e quasi mi perdei con li occhi chini.

 

 

[1] Dal lat. dama o damna (daino).

[2] Dal valore originario del lat. cura (preoccupazione) si passa, come qui, a quello di «interesse, brama».

[3] Quasi certamente Dante non conosceva l’opera di Platone direttamente (non sapendo egli il greco), ma neppure in traduzione latina, se non il dialogo del Timeo, nella traduzione di Calcidio (iv sec.) e per quanto riportato da Cicerone nel Somnium Scipionis e da Macrobio (iv/v sec.) nel suo commento a quest’ultima opera.

[4] È infinito latino sostantivato (dal verbo volo), tipico del linguaggio scolastico.

[5] Col valore di «premere», come già in Purg. xx, v. 74 (episodio di Carlo di Valois che, metaforicamente, apre la pancia di Firenze premendola con la lancia).

[6] Latinismo (< fel) per «fiele», usato per metonimia nel senso di «veleno» e poi, per estensione, «pericolo».

[7] Col termine Serafino si intende, per metonimia, il più elevato essere angelico, quello – appunto – che più si india (neologismo dantesco), cioè «penetra nella mente di Dio».

[8] È lo Spirito Santo, cioè la persona della Trinità che indica Dio come Amore.

[9] Non è sostantivo (i desidéri), ma forma verbale di 2a persona singolare (tu desìderi).

[10] Latinismo (dal verbo patior) per il più comune patisce, così come (quattro versi dopo) face (< facit) per fa.

[11] Costruzione latineggiante, < tractae erant, per erano state tratte, cioè «allontanate».

[12] Non nel senso moderno del verbo (passare attraverso), ma in quello di «mettersi di traverso», cioè «essere di ostacolo».

[13] Col valore del latino pietas, cioè «senso religioso».

[14] È la volontà assoluta, in cui l’aggettivo mantiene il valore del latino absolutus, cioè «sciolto, senza legami»

[15] Con l’immagine metaforica della fonte, del fiume e dell’ondeggiare (cioè, il muoversi delle onde) Dante riprende la metafora, assai comune ancora nel linguaggio odierno, del desiderio di sapere equiparato alla sete, che l’acqua (cioè la spiegazione o l’insegnamento) soddisfa.

[16] Col significato – che Dante ritiene corretto – di «illumina». Lo stesso errore è presente anche nel De vulgari eloquentia a proposito del volgare illustre: Dante crede infatti che il verbo illustrare derivi dal latino lux (luce, e quindi «far luce, illuminare»), mentre esso proviene dal latino (in)lustro, cioè «faccio visita», per cui illustre non è chi illumina, ma chi è famoso in quanto visitato.

[17] È la «tana», dal lat. lustrum. Tale forma è femminile, ricalcata però sul neutro plurale latino (lustra).

[18] Dal suo significato concreto di «germoglio, pollone» si passa a quello metaforico di «figlio, discendente».

[19] Formula consueta nel linguaggio militare per significare «volgere le spalle, fuggire» e quindi, in senso figurato, «essere sconfitto».

 

 

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