Il Maestro di color che sanno… Paradiso III

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Alessandro Vellutello (1476 – ?), Piccarda e Costanza, miniatura

 

Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto,

di bella verità m’avea scoverto,

provando e riprovando[1], il dolce aspetto;

 

e io, per confessar corretto e certo[2]

me stesso, tanto quanto si convenne

leva’ il capo a proferer più erto;

 

ma visione apparve che ritenne

a sé me tanto stretto, per vedersi[3],

che di mia confession[4] non mi sovvenne.

 

Quali per vetri trasparenti e tersi,

o ver per acque nitide e tranquille,

non sì profonde che i fondi sien persi[5],

 

tornan d’i nostri visi le postille[6]

debili sì, che perla in bianca fronte

non vien men forte a le nostre pupille;

 

tali vid’io più facce a parlar pronte;

per ch’io dentro a l’error contrario corsi

a quel ch’accese amor tra l’omo e ’l fonte[7].

 

Sùbito sì com’io di lor m’accorsi,

quelle stimando specchiati sembianti,

per veder di cui fosser, li occhi torsi;

 

e nulla vidi, e ritorsili avanti

dritti nel lume de la dolce guida,

che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.

 

«Non ti maravigliar perch’io sorrida»,

mi disse, «appresso il tuo pueril coto[8],

poi[9] sopra ’l vero ancor lo piè non fida,

 

ma te rivolve, come suole, a vòto[10]:

vere sustanze son ciò che tu vedi,

qui rilegate per manco di voto.

 

Però parla con esse e odi e credi;

ché la verace luce che li appaga

da sé non lascia lor torcer li piedi».

 

E io a l’ombra che parea più vaga

di ragionar, drizza’mi, e cominciai,

quasi com’uom cui troppa voglia smaga:

 

«O ben creato spirito, che a’ rai

di vita etterna la dolcezza senti

che, non gustata, non s’intende mai,

 

grazioso mi fia se mi contenti

del nome tuo e de la vostra sorte».

Ond’ella, pronta e con occhi ridenti:

 

«La nostra carità non serra porte[11]

a giusta voglia, se non come quella

che vuol simile a sé tutta sua corte.

 

I’ fui nel mondo vergine sorella;

e se la mente[12] tua ben sé riguarda,

non mi ti celerà l’esser più bella,

 

ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,

che, posta qui con questi altri beati,

beata[13] sono in la spera più tarda.

 

Li nostri affetti, che solo infiammati

son nel piacer de lo Spirito Santo,

letizian del suo ordine formati.

 

E questa sorte che par giù cotanto,

però n’è data, perché fuor negletti

li nostri voti, e vòti in alcun canto».

 

Ond’io a lei: «Ne’ mirabili aspetti

vostri risplende non so che divino

che vi trasmuta da’ primi concetti[14]:

 

però non fui a rimembrar festino[15];

ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,

sì che raffigurar m’è più latino[16].

 

Ma dimmi: voi che siete qui felici,

disiderate voi più alto loco

per più vedere e per più farvi amici?».

 

Con quelle altr’ombre pria sorrise un poco;

da indi[17] mi rispuose tanto lieta,

ch’arder parea[18] d’amor nel primo foco:

 

«Frate, la nostra volontà quieta

virtù di carità[19], che fa volerne

sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.

 

Se disiassimo esser più superne[20],

foran discordi li nostri disiri

dal voler di colui che qui ne cerne;

 

che vedrai non capere[21] in questi giri,

s’essere in carità è qui necesse,

e se la sua natura ben rimiri.

 

Anzi è formale ad esto beato esse[22]

tenersi dentro a la divina voglia,

per ch’una[23] fansi nostre voglie stesse;

 

sì che, come noi sem di soglia in soglia

per questo regno, a tutto il regno piace

com’a lo re che ’n suo voler ne ’nvoglia.

 

E ’n la sua volontade è nostra pace:

ell’è quel mare al qual tutto si move

ciò ch’ella cria o che natura face».

 

Chiaro mi fu allor come ogne dove

in cielo è paradiso, etsi la grazia

del sommo ben d’un modo non vi piove.

 

Ma sì com’elli avvien, s’un cibo sazia

e d’un altro rimane ancor la gola,

che quel si chere[24] e di quel si ringrazia,

 

così fec’io con atto e con parola,

per apprender da lei qual fu la tela

onde non trasse infino a co[25] la spuola.

 

«Perfetta vita e alto merto inciela[26]

donna più sù», mi disse, «a la cui norma

nel vostro mondo giù si veste e vela,

 

perché fino al morir si vegghi e dorma

con quello sposo ch’ogne voto accetta

che caritate a suo piacer conforma.

 

Dal mondo, per seguirla, giovinetta

fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi

e promisi[27] la via de la sua setta.

 

Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,

fuor mi rapiron de la dolce chiostra[28]:

Iddio si sa qual poi mia vita fusi[29].

 

E quest’altro splendor che ti si mostra

da la mia destra parte e che s’accende

di tutto il lume de la spera nostra,

 

ciò ch’io dico di me, di sé intende;

sorella fu, e così le fu tolta

di capo l’ombra de le sacre bende.

 

Ma poi che pur[30] al mondo fu rivolta

contra suo grado e contra buona usanza,

non fu dal vel del cor già mai disciolta.

 

Quest’è la luce de la gran Costanza

che del secondo vento[31] di Soave[32]

generò ’l terzo e l’ultima possanza».

 

Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave,

Maria’ cantando, e cantando[33] vanio

come per acqua cupa cosa grave.

 

La vista mia, che tanto lei seguio

quanto possibil fu, poi che la perse,

volsesi al segno di maggior disio,

 

e a Beatrice tutta si converse;

ma quella folgorò nel mio sguardo

sì che da prima il viso non sofferse;

 

e ciò mi fece a dimandar più tardo.

 

 

[1] Tale formula sarà poi ripresa, cambiandone però il valore, da quello tomistico-scolastico (la dimostrazione scientifica avviene con il confutare ogni tesi, proposta dall’interlocutore, che si ritenga errata: metodo deduttivo) a quello empirico-sperimentale (la dimostrazione avviene attraverso la sperimentazione, che precede quindi l’astrazione della regola: metodo induttivo), ed utilizzata come motto dall’Accademia del Cimento, fondata nel 1657 a Firenze dai discepoli di Galileo.

[2] I due aggettivi corrispondono puntualmente al «provando e riprovando» del verso precedente; infatti Beatrice prima confutando l’opinione errata di Dante (riprovando) lo ha reso «corretto» e poi definendo con argomentazioni corrette la verità (provando) lo ha reso «certo».

[3] Costruzione latineggiante (ad videndum), che vale letteralmente «per il fatto di doversi vedere».

[4] Nel suo significato etimologico (< lat. confessio, dal verbo confiteor) di «dichiarazione, ammissione». I Santi “confessori” sono infatti coloro che hanno dichiarato. testimoniato la loro fede.

[5] Aggettivo usato frequentemente dal Poeta, col valore di «scuro»; infatti il color «perso» era un rosso talmente scuro da sembrare quasi nero.

[6] Dal latino medievale postilla, < lat. post illa (dopo quelle cose), cioè «ciò che segue».

[7] Perifrasi per indicare il mitologico Narciso che, vedendo riflessa la propria immagine in uno specchio d’acqua e credendola persona viva che lo guardasse, se ne innamorò e così, gettatosi in acqua per raggiungerla, morì annegato. Due osservazioni. La prima, legata al contesto, è quella per cui Dante si paragona a Narciso, ma ex contrario: quello vide un’immagine “falsa” (in quanto riflessa) e la credette vera, Dante invece qui vede immagini vere, ma le crede riflesse a tal punto esse sono diafane, cioè trasparenti. La seconda, più generale, ci ricorda che dal nome di Narciso (e dalla sua disavventura) nasce la definizione del “narcisismo”, cioè quella patologia psichica che induce la persona da esso affetta a contemplare ed ammirare solamente se stessa e le proprie azioni.

[8] «Pensiero», latinismo colto dal verbo «cotare» (< lat. cogitare).

[9] Non con valore di avverbio di tempo, ma di congiunzione causale: poiché.

[10] Esempio di rima pseudo-equivoca tra vòto cioè vuoto; con la ò aperta) e voto (cioè l’atto del votarsi a qualcuno o a qualcosa; con la ó chiusa). Il medesimo “bisticcio” fonetico tornerà (non in rima) più sotto, al v. 57.

[11] Metafora che vale «non impedisce, non nega».

[12] Come normalmente in Dante, vale «memoria». Lo stesso uso nel piemontese moderno: amprende a ment (imparare a memoria).

[13] Esempio di ripetizione poliptotica, cioè lo stesso termine (beato) declinato in genere e numero differenti (beati/beata).

[14] Sono le immagini mentali formate dal pensiero e fissate nella memoria di Dante.

[15] Altro latinismo (< festinus), che vale «pronto, veloce».

[16] Per metonimia, tale aggettivo (ma troviamo in Dante anche il sostantivo e l’avverbio, latinamente) vale «semplice, facile». Curiosamente un valore simile si è conservato in piemontese, ed anche in altre parlate, in cui latin vale, oltre che «facile», anche «abile» (detto di persona) ed «eccezionale, bello» (detto di cosa).

[17] «Quindi, poi», < lat. deinde.

[18] Il significato del verso dipende dal valore che si attribuisca al verbo «parea» (sembrava o appariva): nel primo caso il senso, concreto, è che «l’anima sembrava bruciare nel fuoco dell’amore di Dio» (primo foco, cioè il primo Amore, quindi Dio); nel secondo invece significherebbe, metaforicamente, «sembrava una persona che ardesse per il suo primo amore», valore che però – per alcuni commentatori – appare troppo profano per il contesto.

[19] Ancora una frase costruita con inversione tra il soggetto (virtù di carità), che segue, ed il complemento oggetto (nostra volontà), che precede; al centro il verbo (quieta), che vale «pacifica, tranquillizza, rende quieta».

[20] I versi 73-87 sono un chiaro esempio di come Dante sappia fondere in maniera perfetta il rigore logico del ragionamento con la maestria poetica. Infatti, il discorso di Piccarda si apre, scolasticamente, con un periodo ipotetico dell’irrealtà (se desiderassimo… i nostri desideri sarebbero…), completato da una dichiarazione oggettivamente valida (cosa che è impossibile), argomentata da altri due periodi ipotetici, uno della realtà (se è necessario che…) e l’altro della possibilità (se osservi…); la prima affermazione dunque è poi suffragata da una nuova dichiarazione (anzi tutto ciò è formale…, cioè essenziale), conclusa con una conseguenza logica espressa, appunto, con una proposizione consecutiva (così che piace); si termina quindi con la definizione conclusiva (e ’n la sua volontade è nostra pace).

[21] Latinismo dotto (< capere, «aver luogo, essere contenuto»), ovvio in questo contesto dottrinal-scolastico; allo stesso modo troviamo successivamente formule latine quali necesse, beato esse, etsi.

[22] Infinito sostantivato latino, col valore di «esistenza, stato, condizione».

[23] Col valore del latino unus, -a, -um, cioè «una sola».

[24] Forma arcaica latineggiante (< lat. quaerit, da quaerere) per il moderno «chiede», sempre da quarere ma con dissimilazione r/d, come in rado < rarus e armadio < armarium.

[25] Dal latino caput (capo), vale «fine, termine» (cfr. il proverbio «Cosa fatta, capo ha», cioè ha una sua fine, è conclusa, e quindi non può ormai tornare indietro).

[26] Neologismo dantesco (usato solamente in questo passo), costruito, con forma che si dice parasintetica, con la preposizione in- seguita dal verbo ricavato come denominale dal sostantivo. Altri esempi (tutti neologismi danteschi) sono imparadisarsi, immillarsi, intuarsi, inmearsi…

[27] Uso transitivo del verbo «promettere» col valore di «impegnarsi a…».

[28] Termine che può valere sia, in modo più stretto, il chiostro vero e proprio del convento, sia, in forma più generica, la cinta (dal lat. claudere), cioè le mura, del convento stesso. Il senso della frase comunque non cambia.

[29] Forma sincretica per si fu, con si pleonastico.

[30] Col valore probabile di «nuovamente».

[31] Metafora che probabilmente vuole indicare una forza, quella della casa di Svevia, ma anche più in generale di ogni potenza umana e terrena, impetuosa e passeggera come il vento.

[32] Italianizzazione dotta, dal latino Suebia, del tedesco Schwaben, normalmente volgarizzato con Svevia.

[33] Due versi costruiti con grande sapienza stilistica, per lasciare nel lettore un ricordo quanto mai vivo dell’immagine di Piccarda che si allontana, con lentezza e leggerezza, nel cielo. Notiamo infatti l’enjambement Ave/Maria, l’iterazione chiastica cantando, e cantando, e infine l’epitesi in vanìo che prolunga quasi la visione nel suo lento allontanarsi, paragonato allo scendere di un oggetto pesante verso il fondo di uno stagno.

 

 

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