Dante e Beatrice verso il cielo del Sole, miniatura del XV secolo, British Museum, Londra
La gloria[1] di colui che tutto move[2]
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più de la sua luce prende
Fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda[3] tanto,
che dietro la memoria non può ire.
Veramente quant’io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.
O buono Appollo, a l’ultimo lavoro[4]
fammi del tuo valor sì fatto vaso[5],
come dimandi a dar l’amato alloro.
Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
m’è uopo intrar ne l’aringo[6] rimaso.
Entra nel petto mio, e spira tue[7]
sì come quando Marsia traesti
de la vagina de le membra sue.
O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,
vedra’mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno[8].
Sì rade volte, padre, se ne coglie
per triunfare o cesare o poeta,
colpa e vergogna de l’umane voglie,
che parturir letizia in su la lieta
delfica deità dovria la fronda
peneia, quando alcun di sé asseta[9].
Poca favilla gran fiamma seconda[10]:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda.
Surge ai mortali[11] per diverse foci[12]
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci,
con miglior corso[13] e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella.
Fatto avea di là mane e di qua sera
tal foce, e quasi tutto era là bianco
quello emisperio, e l’altra parte nera,
quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
aquila[14] sì non li s’affisse unquanco.
E sì come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin[15] che tornar vuole,
così de l’atto suo, per li occhi infuso
ne l’imagine mia, il mio si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso.
Molto è licito là, che qui non lece[16]
a le nostre virtù, mercé del loco
fatto per proprio de l’umana spece.
Io nol soffersi molto, né sì poco,
ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,
com’ferro che bogliente esce del[17] foco;
e di sùbito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d’un altro sole addorno.
Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.
Nel suo aspetto[18] tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ’l fé consorto[19] in mar de li altri dèi.
Trasumanar significar per verba
non si poria[20]; però l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba.
S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente[21], amor che ’l ciel governi,
tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.
Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo[22] acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
La novità del suono e ’l grande lume
di lor cagion m’accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume.
Ond’ella, che vedea me sì com’io,
a quietarmi l’animo commosso,
pria ch’io a dimandar, la bocca aprio,
e cominciò[23]: «Tu stesso ti fai grosso[24]
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l’avessi scosso.
Tu non se’ in terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
non corse come tu ch’ad esso riedi».
S’io fui del primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi[25],
dentro ad un nuovo più fu’ inretito[26],
e dissi: «Già contento requievi [27]
di grande ammirazion[28]; ma ora ammiro
com’io trascenda questi corpi levi».
Ond’ella, appresso d’un pio sospiro,
li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro,
e cominciò: «Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.
Qui veggion l’alte creature l’orma
de l’etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
Ne l’ordine ch’io dico sono accline[29]
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti[30]
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.
Questi ne porta il foco inver’ la luna;
questi ne’ cor mortali è permotore[31];
questi la terra in sé stringe e aduna;
né pur le creature che son fore
d’intelligenza quest’arco saetta
ma quelle ch’ànno intelletto e amore.
La provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa ’l ciel sempre quieto
nel qual si volge quel ch’à maggior fretta;
e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto.
Vero è che, come forma non s’accorda
molte fiate a l’intenzion de l’arte[32],
perch’a risponder la materia è sorda,
così da questo corso si diparte
talor la creatura, ch’à podere
di piegar, così pinta, in altra parte;
e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì l’impeto primo
l’atterra torto da falso piacere.
Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d’un rivo
se d’alto monte scende giuso ad imo.
Maraviglia sarebbe in te se, privo
d’impedimento, giù ti fossi assiso[33],
com’a terra quiete in foco vivo».
Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.
[1] Dante stesso, nella epistola a Cangrande della Scala, in cui ci fornisce parecchie indicazioni utili al commento della cantica del Paradiso, dice che tale termine non va inteso solamente nel senso di «potenza, magnificenza», ma anche in quello di «luce divina, fulgore».
[2] Questo primo verso, con l’immagine tomistico-aristotelica di Dio come “motore immobile” dell’universo, anticipa l’ultimo verso della cantica (xxxiii, v. 145: «l’amor che move il sole e l’altre stelle») in una sorta di cerchio che, stilisticamente perfetto, voglia quasi riprodurre la perfezione della circolarità dell’universo e di Dio.
[3] Dal verbo, raro e poetico, «profondarsi», col valore di «penetrare profondamente, immergersi profondamente», usato solamente in un altro passo del Paradiso per indicare l’immergersi degli angeli nella essenza divina.
[4] Latinismo dotto (< labor, «fatica, impresa»), eco di un passo virgiliano (Egl. x, v. 1: extremum hunc… mihi concede laborem: «concedimi quest’ultima fatica»).
[5] Reminiscenza neo-testamentaria (Atti ix, 15), laddove San Paolo è definito vas electionis, mentre il riferimento successivo all’alloro (amato dai poeti) ricorda il mito di Apollo (dio della poesia) e Dafne, dal dio amata e trasformata in pianta di alloro; da quel momento tale pianta fu sacra ad Apollo ed alla poesia. Poiché il termine «alloro» in latino è laurus, da esso deriva il participio passato laureatus (it. laureato) per indicare chi sia incoronato di alloro («poeta laureato») e poi, per estensione, chiunque riceva un grado accademico (laurea).
[6] Tale termine (anche nella forma più comune «arengo»), di origine germanica (dal gotico *hari-hrings), indicava inizialmente il «campo di battaglia» per passare poi, per metonimia, ad indicare la battaglia stessa sia in senso proprio che figurato.
[7] Consueta forma con epitesi (tue per tu) per necessità di rima con «sue».
[8] Frase relativa con costruzione a senso, in cui il pronome «che» è usato, come polivalente, per «di cui», ed il verbo (farai) è concordato con uno solo dei due soggetti (tu, la materia).
[9] Il verbo, pur riferito alla fronda, dipende dall’immagine metaforica “sete-desiderio”, ma rimanda anche all’aggettivo «peneia», che deriva dal nome del fiume Peneo, mitologico padre di Dafne.
[10] Costruzione inversa, in cui il complemento oggetto (favilla) precede il soggetto (fiamma) ed il verbo (seconda, cioè «segue, viene dopo»); il termine «fiamma», poi, per metonimia vale «incendio» (la causa per l’effetto).
[11] Esempio, latineggiante, di dativo di vantaggio (per i mortali).
[12] Il termine «foce» vale genericamente «uscita, sbocco»; solo in un secondo tempo assumerà quello specifico di «sbocco di un fiume».
[13] Con questa immagine si intende l’inizio della primavera con l’equinozio di marzo. Già Virgilio (Georg., ii) indicava nell’inizio della primavera il momento più propizio dell’anno alla rinascita della terra e, quindi, ai lavori agricoli; tale opinione era comunque comune sia nell’antichità che nel medioevo cristiano, tanto che in molti comuni (e nell’antica repubblica romana) l’anno iniziava a marzo, facendo così partire il computo dell’anno ab annuntiatione Domini (25 marzo) invece che a nativitate Domini (25 dicembre).
[14] Dante usa nel poema sia la forma dotta «aquila» che quella popolare «aguglia» (entrambe dal latino aquila): qui è incerto (secondo le testimonianze mss.) quale dei due termini sia preferibile. Si sceglie tuttavia la forma dotta data la natura del contesto.
[15] È incerto se il poeta intenda il falco pellegrino (peregrinus), oppure, più concretamente, il pellegrino nel suo senso più comune ed ovvio di persona lontana da casa.
[16] Latinismo dotto (< licet, «è lecito»), comune nelle disquisizioni teologico-filosofiche ed usato in alternanza, come qui, col più comune «è li(e)cito».
[17] Per «dal»: forma più etimologica (< lat. de).
[18] Dal latino aspicere, usato però non col consueto valore passivo (aspetto: ciò che si vede), ma col valore attivo di «azione del guardare».
[19] Col valore etimologico (dal latino cum + sors) di «colui che ha la medesima sorte», e con analogia per la desinenza maschile.
[20] Forma arcaica di condizionale, formata con l’infinito del verbo seguito dall’imperfetto indicativo di «avere» (e. g. dicere habebam), ancora utilizzata in alcuni dialetti italiani come il piemontese (podrìa, «potrei»).
[21] Col valore di «per ultima», cioè l’anima, da Dio creata dopo il corpo.
[22] Costruzione latineggiante (tantum caeli) con l’avverbio (tanto) seguito dal genitivo partitivo (del cielo).
[23] Formula introduttiva di un discorso diretto di particolare solennità che compare frequentemente nel Paradiso.
[24] Col valore figurato di «rozzo, ignorante, ottuso».
[25] Formula di particolare intensità retorica, in cui osserviamo: «brevi», per «poche», ha valore – potremmo dire – metonimico-causativo, in quanto queste “poche” parole producono un “breve” discorso; «parolette» non è diminutivo, ma ha – come nell’uso consueto del tempo – lo stesso valore di «parole» (e così userà il termine Gozzano nel suo «Totò Merumeni», v. 21: «vender parolette»); infine «sorrise» è participio passato di «sorridere» che, avendo valore transitivo, è passivo, venendo usato come in una sinestesia: non è che le parole siano “sorrise” di per sé, ma vengono pronunciate da Beatrice che sorride.
[26] Etimologicamente vale «preso nella rete», e quindi «avviluppato, sorpreso», col valore traslato di «rete/impedimento».
[27] Da scriversi in corsivo in quanto vero e proprio verbo latino (perfetto di requiesco), col valore di «mi acquietai», dovuto al tono di spiegazione filosofico-scolastica di tutto l’episodio.
[28] Costrutto latineggiante dell’accusativo di relazione: vale «quanto alla mia meraviglia, riguardo al mio stupore», così come il successivo «ammiro» significa, ancora latinamente, «stupisco».
[29] Vale «hanno inclinazione, sono inclinate» ed è un plurale femminile in -e pur derivando da nome latino della 3a declinazione con desinenza plurale in –es (forma regolare: acclini).
[30] «Destinazioni», sostantivo in rima equivoca con «porti», dal verbo «portare».
[31] Termine di uso dantesco, in cui il prefisso per- rafforza il significato, dando il valore di «che fa muovere fino in fondo».
[32] Forma astratta usata per il concreto: «artista».
[33] Anche se in questo contesto il significato del termine è semplicemente di «rimasto», esso ha come valore preciso quello di «seduto comodamente», con l’intenzione di rimanervi a lungo.