Il Maestro di color che sanno… Inferno, canto XXI

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Paul Gustave Louis Christophe Doré (1832-1883), Malacoda ed i suoi demoni (1861)

 

Così di ponte in ponte, altro parlando

che la mia comedìa cantar non cura,

venimmo; e tenavamo il colmo, quando

 

restammo per veder l’altra fessura

di Malebolge e li altri pianti vani;

e vidila mirabilmente oscura.

 

Quale ne l’arzanà[1] de’ Viniziani

bolle l’inverno[2] la tenace pece

a rimpalmare i legni lor non sani,

 

ché navicar non ponno[3] – in quella vece

chi fa suo legno novo e chi ristoppa

le coste a quel che più viaggi fece;

 

chi ribatte da proda e chi da poppa;

altri fa remi e altri volge sarte;

chi terzeruolo e artimon rintoppa –;

 

tal, non per foco, ma per divin’arte,

bollia là giuso una pegola[4] spessa,

che ’nviscava la ripa d’ogne parte.

 

I’ vedea lei, ma non vedea in essa

mai che le bolle che ’l bollor levava,

e gonfiar tutta, e riseder compressa.

 

Mentr’io là giù fisamente mirava,

lo duca mio, dicendo «Guarda, guarda!»,

mi trasse a sé del loco dov’io stava.

 

Allor mi volsi come l’uom cui tarda

di veder quel che li convien fuggire

e cui paura sùbita sgagliarda,

 

che, per veder, non indugia ’l partire:

e vidi dietro a noi un diavol nero

correndo su per lo scoglio venire.

 

Ahi quant’elli era ne l’aspetto fero[5]!

e quanto mi parea ne l’atto acerbo,

con l’ali aperte e sovra i piè leggero!

 

L’omero suo, ch’era aguto e superbo[6],

carcava un peccator con ambo l’anche,

e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo.

 

Del nostro ponte disse: «O Malebranche,

ecco un de li anzian di Santa Zita!

Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche

 

a quella terra che n’è ben fornita:

ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo;

del no, per li denar vi si fa ita[7]».

 

Là giù ’l buttò, e per lo scoglio duro

si volse; e mai non fu mastino sciolto

con tanta fretta a seguitar lo furo[8].

 

Quel s’attuffò, e tornò sù convolto[9];

ma i demon che del ponte avean coperchio,

gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto:

 

qui si nuota altrimenti che nel Serchio!

Però, se tu non vuo’ di nostri graffi,

non far sopra la pegola soverchio».

 

Poi l’addentar con più di cento raffi,

disser: «Coverto convien che qui balli,

sì che, se puoi, nascosamente accaffi[10]».

 

Non altrimenti i cuoci[11] a’ lor vassalli

fanno attuffare in mezzo la caldaia

la carne con li uncin, perché non galli.

 

Lo buon maestro «Acciò che non si paia

che tu ci sia», mi disse, «giù t’acquatta

dopo uno scheggio, ch’alcun schermo t’aia;

 

e per nulla offension che mi sia fatta,

non temer tu, ch’i’ ho le cose conte,

perch’altra volta fui a tal baratta».

 

Poscia passò di là dal co del ponte;

e com’el giunse in su la ripa sesta,

mestier li fu d’aver sicura fronte.

 

Con quel furore e con quella tempesta

ch’escono i cani a dosso al poverello

che di sùbito chiede ove s’arresta,

 

usciron quei di sotto al ponticello,

e volser contra lui tutt’i runcigli;

ma el gridò: «Nessun di voi sia fello!

 

Innanzi che l’uncin vostro mi pigli,

traggasi avante l’un di voi che m’oda,

e poi d’arruncigliarmi[12] si consigli».

 

Tutti gridaron: «Vada Malacoda!»;

per ch’un si mosse – e li altri stetter fermi -,

e venne a lui dicendo: «Che li approda[13]?».

 

«Credi tu, Malacoda, qui vedermi

esser venuto», disse ’l mio maestro,

«sicuro già da tutti vostri schermi,

 

sanza voler divino e fato destro?

Lascian’andar, ché nel cielo è voluto

ch’i’ mostri altrui questo cammin silvestro.

 

Allor li fu l’orgoglio sì caduto[14],

ch’e’ si lasciò cascar l’uncino a’ piedi,

e disse a li altri: «Omai non sia feruto».

 

E ’l duca mio a me: «O tu che siedi

tra li scheggion del ponte quatto quatto,

sicuramente omai a me ti riedi».

 

Per ch’io mi mossi, e a lui venni ratto;

e i diavoli si fecer tutti avanti,

sì ch’io temetti[15] ch’ei tenesser patto;

 

così vid’io già temer li fanti

ch’uscivan patteggiati[16] di Caprona,

veggendo sé tra nemici cotanti.

 

I’ m’accostai con tutta la persona

lungo ’l mio duca, e non torceva li occhi

da la sembianza lor ch’era non buona.

 

Ei chinavan li raffi e «Vuo’ che ’l tocchi»,

diceva l’un con l’altro, «in sul groppone?».

E rispondien: «Sì, fa che gliel’accocchi!».

 

Ma quel demonio che tenea sermone

col duca mio, si volse tutto presto,

e disse: «Posa, posa, Scarmiglione!».

 

Poi disse a noi: «Più oltre andar per questo

iscoglio non si può, però che giace

tutto spezzato al fondo l’arco sesto.

 

E se l’andare avante pur vi piace,

andatevene su per questa grotta;

presso è un altro scoglio che via face.

 

Ier, più oltre cinqu’ore che quest’otta[17],

mille dugento con sessanta sei

anni compié che qui la via fu rotta.

 

Io mando verso là di questi miei

a riguardar s’alcun se ne sciorina[18];

gite con lor, che non saranno rei».

 

«Tra’ti avante, Alichino[19], e Calcabrina»,

cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo;

e Barbariccia guidi la decina.

 

Libicocco vegn’oltre e Draghignazzo,

Ciriatto sannuto e Graffiacane

e Farfarello e Rubicante pazzo.

 

Cercate ’ntorno le boglienti pane;

costor sian salvi infino a l’altro scheggio

che tutto intero va sovra le tane».

 

«Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?»,

diss’io, «deh, sanza scorta andianci soli,

se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio.

 

Se tu se’ sì accorto come suoli,

non vedi tu ch’e’ digrignan li denti,

e con le ciglia ne minaccian duoli?».

 

Ed elli a me: «Non vo’ che tu paventi;

lasciali digrignar pur a lor senno,

ch’e’ fanno ciò per li lessi dolenti».

 

Per l’argine sinistro volta dienno;

ma prima avea ciascun la lingua stretta

coi denti, verso lor duca, per cenno;

 

ed elli avea del cul fatto trombetta.

 

[1] Voce di origine veneta (il moderno “arsenale”), dall’arabo dàr sinà’ā (“officina”), da cui deriva anche il termine “darsena”.

[2] “Durante l’inverno”, complemento di tempo continuato, espresso – come anche in latino – con l’accusativo semplice.

[3] Forma lucchese, usata per ragioni metriche.

[4] Voce veneziana per “pece” (cfr. il verbo italiano “impegolarsi”, di uso ormai esclusivamente metaforico), dal latino tardo piculam (diminutivo di picem) con passaggio dalla gutturale tenue (-c-) a quella media (-g-).

[5] Notiamo che “fero” (“feroce”, < latino ferum) non è attributo di “aspetto”, ma predicato retto da “era”. Inoltre i tre versi consecutivi si chiudono con aggettivi qualificanti il diavolo: fero (feroce per l’aspetto), acerbo (crudele per il comportamento) e leggero (per il procedere).

[6] Aggettivo usato in forma traslata per indicare “rilevato, innalzato”.

[7] Ita (sott.: fiat), cioè “avvenga/sia così”, è formula giuridica di assenso.

[8] Latinismo dotto, da furem (“ladro”), da cui in italiano anche il sostantivo “furto” e l’aggettivo “furtivo”.

[9] Col valore di “imbrattato, ricoperto (di pece)”.

[10] Forma arcaica e locale per “arraffi”. In realtà l’etimo sarebbe “caffo” (dispari), che diede nome ad un gioco (giocare “a caffo”), per cui, per metonimia, il verbo “accaffare” varrebbe genericamente “giocare d’azzardo” e quindi “fare baratteria, agire disonestamente”.

[11] Altra forma arcaica: per “cuochi”. Così come troviamo, sempre in Dante, plurali quali: bieci, mendici, caduci.

[12] Verbo coniato da Dante a partire dal sostantivo “runciglio” (o “ronciglio”, cioè “rampino, uncino”); vale “afferrare con un uncino di ferro”.

[13] Dal verbo latino ad + prodesse (“giovare, essere utile”):significa dunque “Cosa gli serve?”.

[14] L’uso del trapassato remoto (“fu… caduto”) vuole indicare la subitaneità dell’azione.

[15] L’uso del verbo temere + che indica, come in latino (timeo ut…), il timore che non accada ciò che si vorrebbe. Intende, quindi, “temetti che non…”.

[16] Costruzione passiva personale del verbo “patteggiare”. “Dopo che essi furono patteggiati” vale “dopo che furono sanciti i patti riguardo a loro”.

[17] “Otta” è forma locale fiorentina per “ora” (cfr. anche, sempre in Dante, “allotta” per “allora”).

[18] Dal latino tardo *exaurare, cioè “mettere all’aria (i panni)” per farli asciugare. Qui assume il valore metaforico di “mettersi in mostra, farsi vedere, uscir fuori”. Nell’uso moderno ha il valore di “esibire, mettere in evidenza, elencare puntualmente”.

[19] Interessanti i nomi, tutti grottescamente evocativi, dei diavoli che formano la schiera che accompagnerà Dante e Virgilio. Dal nome collettivo di “Malebranche” (“che afferrano con violenza”) ai singoli: Alichino, dal francese Hellequin (forse dalla forma plurale araba hālikīn, “dannati”; cfr. anche l’italiano Arlecchino), nome di un demonio di leggende e di rappresentazioni popolari medievali; Farfarello, anch’esso dal francese antico farfadel (“folletto”); Cagnazzo, “grosso cane”; Scarmiglione, Barbariccia e Malacoda connessi a caratteristiche fisiche; Calcabrina è colui “che pesta la brina”, cioè, secondo gli antichi commentatori, la Grazia, oppure potrebbe significare “colui che ha pestato molte terre” e quindi che è pratico ed esperto; Draghignazzo sarebbe da collegare o a un magnus draco (“grosso drago”) o a ghigno o digrigno o ancora sghignazzo; Rubicante sarebbe il “rosseggiante” (dal latino ruber, “rosso”), ma, poiché i diavoli sono stati descritti come neri, alcuni testi presentano la varia lectio Rabicante, cioè il “rabbioso” (< latino rabiem), che sarebbe confermato dall’epiteto di “pazzo”; Libicocco potrebbe essere un incrocio tra “libeccio” e “scirocco”, e quindi rimandare all’impetuosità dei venti, oppure indicare la provenienza, “dalla Libia”, con la terminazione in -occo (cfr. “bustocco”, cioè “di Busto”); Ciriatto infine deriverebbe da “ciro”, cioè maiale (e infatti il diavolo è detto “sannuto”, cioè dotato di lunghi denti), con la desinenza -atto che indicherebbe la discendenza animalesca (cfr. cervo > cerbiatto).

 

 

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