Il Maestro di color che sanno… Inferno, canto XVIII

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Paul Gustave Louis Christophe Doré (1832-1883), I ruffiani e i seduttori (1861)

 

 

Luogo è in inferno detto Malebolge[1],

tutto di pietra di color ferrigno,

come la cerchia che dintorno il volge.

 

Nel dritto mezzo del campo maligno

vaneggia[2] un pozzo assai largo e profondo,

di cui suo loco[3] dicerò l’ordigno.

 

Quel cinghio che rimane adunque è tondo

tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura,

e ha distinto in dieci valli il fondo.

 

Quale, dove per guardia de le mura

più e più fossi cingon li castelli,

la parte dove son rende figura,

 

tale imagine quivi facean quelli;

e come a tai fortezze da’ lor sogli

a la ripa di fuor son ponticelli,

 

così da imo de la roccia scogli[4]

movien che ricidien li argini e ’ fossi

infino al pozzo che i tronca e raccogli[5].

 

In questo luogo, de la schiena scossi

di Gerion, trovammoci; e ’l poeta

tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.

 

A la man destra vidi nova pieta[6],

novo tormento e novi[7] frustatori,

di che la prima bolgia era repleta.

 

Nel fondo erano ignudi i peccatori;

dal mezzo in qua ci venien verso ’l volto,

di là con noi, ma con passi maggiori,

 

come i Roman per l’essercito molto,

l’anno del giubileo, su per lo ponte

hanno a passar la gente modo colto,

 

che da l’un lato tutti hanno la fronte

verso ’l castello e vanno a Santo Pietro;

da l’altra sponda vanno verso ’l monte.

 

Di qua, di là, su per lo sasso tetro

vidi demon cornuti con gran ferze,

che li battien crudelmente di retro.

 

Ahi come facean lor levar le berze[8]

a le prime percosse! già nessuno

le seconde aspettava né le terze.

 

Mentr’io andava, li occhi miei in uno

furo scontrati; e io sì tosto dissi:

«Già di veder costui non son digiuno».

 

Per ch’io a figurarlo i piedi affissi;

e ’l dolce duca meco si ristette,

e assentio[9] ch’alquanto in dietro gissi.

 

E quel frustato celar si credette[10]

bassando ’l viso; ma poco li valse,

ch’io dissi: «O tu che l’occhio a terra gette,

 

se le fazion che porti non son false,

Venedico se’ tu Caccianemico.

Ma che ti mena a sì pungenti salse?».

 

Ed elli a me: «Mal volentier lo dico;

ma sforzami la tua chiara favella,

che mi fa sovvenir del mondo antico.

 

I’ fui colui che la Ghisolabella

condussi a far la voglia del marchese,

come che suoni la sconcia novella.

 

E non pur io qui piango bolognese[11];

anzi n’è questo luogo tanto pieno,

che tante lingue non son ora apprese

 

a dicer ‘sipa’[12] tra Sàvena e Reno;

e se di ciò vuoi fede o testimonio[13],

rècati a mente il nostro avaro seno».

 

Così parlando il percosse un demonio

de la sua scuriada, e disse: «Via,

ruffian! qui non son femmine da conio[14]».

 

I’ mi raggiunsi con la scorta mia;

poscia con pochi passi divenimmo

là ’v’uno scoglio de la ripa uscia.

 

Assai leggeramente quel salimmo;

e vòlti a destra su per la sua scheggia,

da quelle cerchie etterne ci partimmo.

 

Quando noi fummo là dov’el vaneggia

di sotto per dar passo a li sferzati,

lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia

 

lo viso in te di quest’altri mal nati,

ai quali ancor non vedesti la faccia

però che son con noi insieme andati».

 

Del vecchio ponte guardavam la traccia

che venìa verso noi da l’altra banda,

e che la ferza similmente scaccia.

 

E ’l buon maestro, sanza mia dimanda,

mi disse: «Guarda quel grande che vene,

e per dolor non par lagrime spanda:

 

quanto aspetto reale ancor ritene!

Quelli è Iasón, che per cuore e per senno

li Colchi del monton privati féne.

 

Ello passò per l’isola di Lenno,

poi che l’ardite femmine spietate

tutti li maschi loro a morte dienno.

 

Ivi con segni e con parole ornate

Isifile ingannò, la giovinetta

che prima avea tutte l’altre ingannate.

 

Lasciolla quivi, gravida, soletta[15];

tal colpa a tal martiro lui condanna;

e anche di Medea si fa vendetta.

 

Con lui sen va chi da tal parte inganna:

e questo basti de la prima valle

sapere e di color che ’n sé assanna».

 

Già eravam là ’ve lo stretto calle

con l’argine secondo s’incrocicchia,

e fa di quello ad un altr’arco spalle.

 

Quindi sentimmo gente che si nicchia

ne l’altra bolgia e che col muso scuffa[16],

e sé medesma con le palme picchia.

 

Le ripe eran grommate d’una muffa,

per l’alito di giù che vi s’appasta,

che con li occhi e col naso facea zuffa.

 

Lo fondo è cupo sì, che non ci basta

loco a veder sanza montare al dosso

de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta.

 

Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso

vidi gente attuffata in uno sterco

che da li uman privadi parea mosso.

 

E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,

vidi un col capo sì di merda lordo,

che non parea s’era laico o cherco.

 

Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo

di riguardar più me che li altri brutti?».

E io a lui: «Perché, se ben ricordo,

 

già t’ho veduto coi capelli asciutti,

e se’ Alessio Interminei da Lucca:

però t’adocchio più che li altri tutti».

 

Ed elli allor, battendosi la zucca[17]:

«Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe

ond’io non ebbi mai la lingua stucca[18]».

 

Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe»,

mi disse «il viso un poco più avante,

sì che la faccia ben con l’occhio attinghe

 

di quella sozza e scapigliata fante

che là si graffia con l’unghie merdose,

e or s’accoscia e ora è in piedi stante.

 

Taide è, la puttana che rispuose

al drudo suo quando disse «Ho io grazie

grandi apo[19] te?»: «Anzi maravigliose!».

 

E quinci sien le nostre viste sazie».

 

[1] Il termine “bolgia” (cfr. antico francese bolge/bouge) deriva dal latino medievale bulga, “sacca”.

[2] Valore concreto di “vaneggiare”, cioè “aprirsi sul vuoto” (< lat. vanum, “vuoto”). In italiano moderno utilizziamo solamente il valore astratto di “dire o pensare cose senza senso”.

[3] Espressione del latino scolastico: “al momento opportuno”.

[4] Qui nel senso di “ponti rocciosi”.

[5] Forma arcaica per “raccoglie”. Questa lezione è preferita rispetto a quella racco’gli (cioè “li raccoglie”, ipotizzabile partendo dalla scriptio continua), da scartare perché presenterebbe una ripetizione inutile del pronome personale gli rispetto al precedente i.

[6] Pieta, che normalmente in Dante vale “angoscia, pena” (cfr. Inf. I, v. 21), qui ha più il valore di “spettacolo doloroso, angoscioso”.

[7] Nova… novo… novi: esempio di ripetizione poliptotica, in cui però i primi due aggettivi valgono “mai visto prima, originale”, mentre il terzo significa “strano, inusuale”.

[8] “Levar le berze” è forma che, partendo da un germanismo (< ant. ted. versen, moderno Ferse, “calcagno”), equivale al moderno “alzare, levare i tacchi”.

[9] Forma arcaica di passato remoto, con epitesi, per “assentì”.

[10] Il si va riferito, come falso riflessivo pleonastico, a credette, e non a celar, come si potrebbe forse pensare per scriptio continua: “celarsi credette”.

[11] Ovviamente bolognese va concordato con pur io (io solo, essendo bolognese, cioè da intendere “non sono il solo bolognese a piangere qui”) e non certo con piango, cosa che non avrebbe alcun senso.

[12] Forma locale bolognese per “sia” (congiuntivo presente di “essere”), e quindi anche usato come affermazione ().

[13] Per una certa incoerenza di valore la formula “fede o testimonio” è sospettata di errore nell’archetipo da S. Bellomo (nel suo commento al testo: Torino 2013, pag. 290) per “fede e testimonio”, con valore di endiadi formulare.

[14] Il termine conio può essere inteso in due modi: il punzone con cui si “coniavano” le monete (e quindi “donne da comprare”, cioè “prostitute”) oppure dal verbo “coniare/coniellare”, cioè “ingannare” (e quindi “donne da ingannare”). L’espressione usata ancora oggi, seppur raramente, tiene conto della prima interpretazione: perciò dire di qualcuno o di qualcosa che è “di conio” vale “di poco valore, comprabile con poco denaro”.

[15] Diminutivo con valore intensivo: “tutta sola, completamente sola”.

[16] Verbo piuttosto raro che indica “il soffiare rumoroso con naso e bocca di chi mangia avidamente”: tale lezione è preferita a “sbuffa” sia perché difficilior sia perché meglio si adatta alla “bestialità” di tutta la scena.

[17] Il termine zucca, oltre alla rima con Lucca, sarebbe (secondo la testimonianza di alcuni commentatori antichi), formula metaforica tipica dei lucchesi per indicare la testa. Sarebbe quindi significativamente usata dal poeta per sottolineare la figura, qui presentata, del lucchese Alessio Interminelli.

[18] Aggettivo di uso arcaico, col valore di “sazia, stanca”: resta nel linguaggio moderno nel suo derivato “stucchevole”, cioè qualcosa, appunto, di esagerato, che stanca e riempie, specialmente in senso figurato, a sazietà.

[19] Forma “scempiata”, cioè senza raddoppiamento consonantico, per il più usuale (un tempo) “appo”, ma più etimologicamente vicina all’originale latino (apud).

 

 

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