Il Maestro di color che sanno… Inferno, canto XII

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Paul Gustave Louis Christophe Doré (1832-1883), Il Minotauro  (1861)

 

Era lo loco ov’a scender la riva

venimmo, alpestro[1] e, per quel che v’er’anco,

tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva.

 

Qual è quella ruina che nel fianco

di qua da Trento l’Adice percosse,

o per tremoto o per sostegno manco,

 

che da cima del monte, onde si mosse,

al piano è sì la roccia discoscesa,

ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse:

 

cotal di quel burrato era la scesa;

e ’n su la punta de la rotta lacca

l’infamia di Creti era distesa

 

che fu concetta ne la falsa vacca;

e quando vide noi, sé stesso morse,

sì come quei cui l’ira dentro fiacca.

 

Lo savio mio inver’ lui gridò: «Forse

tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,

che sù nel mondo la morte ti porse?

 

Pàrtiti, bestia: ché questi non vene

ammaestrato da la tua sorella,

ma vassi per veder le vostre pene[2]».

 

Qual è quel toro che si slaccia in quella

ch’à ricevuto già ’l colpo mortale,

che gir non sa, ma qua e là saltella,

 

vid’io lo Minotauro far[3] cotale;

e quello accorto[4] gridò: «Corri al varco:

mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale[5]».

 

Così prendemmo via giù per lo scarco

di quelle pietre, che spesso moviensi

sotto i miei piedi per lo novo carco.

 

Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi

forse a questa ruina ch’è guardata

da quell’ira bestial[6] ch’i’ ora spensi.

 

Or vo’ che sappi che l’altra fiata

ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno,

questa roccia non era ancor cascata.

 

Ma certo poco pria, se ben discerno,

che venisse colui che la gran preda

levò a Dite del cerchio superno,

 

da tutte parti l’alta valle feda[7]

tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo

sentisse amor, per lo qual è chi creda[8]

 

più volte il mondo in caòsso[9] converso;

e in quel punto questa vecchia roccia

qui e altrove, tal fece riverso.

 

Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia[10]

la riviera[11] del sangue in la qual bolle

qual che per violenza in altrui noccia».

 

Oh cieca cupidigia e ira folle,

che sì ci sproni ne la vita corta,

e ne l’etterna poi sì mal c’immolle![12]

 

Io vidi un’ampia fossa in arco torta,

come quella che tutto ’l piano abbraccia,

secondo ch’avea detto la mia scorta;

 

e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia

corrien[13] centauri, armati di saette,

come solien nel mondo andare a caccia.

 

Veggendoci calar, ciascun ristette,

e de la schiera tre si dipartiro

con archi e asticciuole prima elette;

 

e l’un gridò da lungi: «A qual martiro

venite voi che scendete la costa?

Ditel costinci; se non, l’arco tiro».

 

Lo mio maestro disse: «La risposta

farem noi a Chirón costà di presso:

mal fu la voglia tua sempre sì tosta[14]».

 

Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso,

che morì per la bella Deianira

e fé di sé la vendetta elli stesso.

 

E quel di mezzo, ch’al petto si mira,

è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;

quell’altro è Folo, che fu sì pien d’ira.

 

Dintorno al fosso vanno a mille a mille,

saettando qual anima si svelle

del sangue più che sua colpa sortille».

 

Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:

Chirón prese uno strale, e con la cocca[15]

fece la barba in dietro a le mascelle.

 

Quando s’ebbe scoperta[16] la gran bocca,

disse a’ compagni: «Siete voi accorti

che quel di retro move ciò ch’el tocca?

 

Così non soglion far li piè d’i morti».

E ’l mio buon duca, che già li er’al petto,

dove le due nature son consorti,

 

rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto[17]

mostrar li mi convien la valle buia;

necessità ’l ci ’nduce, e non diletto.

 

Tal si partì da cantare alleluia

che mi commise quest’officio novo:

non è ladron, né io anima fuia[18].

 

Ma per quella virtù per cu’ io movo

li passi miei per sì selvaggia strada,

danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo[19],

 

e che ne mostri là dove si guada

e che porti costui in su la groppa,

ché non è spirto che per l’aere vada».

 

Chirón si volse in su la destra poppa,

e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida,

e fa cansar s’altra schiera v’intoppa».

 

Or ci movemmo con la scorta fida

lungo la proda del bollor vermiglio,

dove i bolliti facieno alte strida.

 

Io vidi gente sotto infino al ciglio;

e ’l gran centauro disse: «E’ son tiranni

che dier nel sangue e ne l’aver di piglio.

 

Quivi si piangon li spietati danni;

quivi è Alessandro, e Dionisio fero,

che fé Cicilia aver dolorosi anni.

 

E quella fronte ch’à ’l pel così nero,

è Azzolino; e quell’altro ch’è biondo,

è Opizzo da Esti, il qual per vero

 

fu spento dal figliastro sù nel mondo».

Allor mi volsi al poeta, e quei disse:

«Questi ti sia or primo, e io secondo».

 

Poco più oltre il centauro s’affisse

Sovr’una gente che ’nfino a la gola

parea che di quel bulicame[20] uscisse.

 

Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,

dicendo: «Colui fesse[21] in grembo a Dio

lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola[22]».

 

Poi vidi gente che di fuor del rio

tenean la testa e ancor tutto ’l casso;

e di costoro assai riconobb’io.

 

Così a più a più si facea basso

quel sangue, sì che cocea pur li piedi;

e quindi fu del fosso il nostro passo.

 

«Sì come tu da questa parte vedi

lo bulicame che sempre si scema»,

disse ’l centauro, «voglio che tu credi[23]

 

che da quest’altra a più a più giù prema

lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge

ove la tirannia convien che gema.

 

La divina giustizia di qua punge

quell’Attila che fu flagello in terra

e Pirro e Sesto; e in etterno munge

 

le lagrime, che col bollor diserra,

a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,

che fecero a le strade tanta guerra».

 

Poi si rivolse, e ripassossi ’l guazzo[24].

 

[1] Come il moderno “alpino”, il termine indica per metonimia “montano”, senza riferimento specifico alle Alpi.

[2] Notiamo la figura retorica (di suono) detta “allitterazione”, consistente nella ripetizione insistita di un suono consonantico (in questo caso la lettera v).

[3] Col valore di “fier”, cioè “diventare” (lat. fieri, passivo di facio).

[4] In questo caso l’aggettivo “accorto” (cioè, “pronto all’azione”) può avere o valore sostantivato (e quindi “quello accorto” è perifrasi per indicare Virgilio) o di predicativo del soggetto (“quello, che era accorto…”). La sostanza del significato non cambia, anche se la struttura sintattica è diversa.

[5] Forma arcaica del congiuntivo presente del verbo “calare” (per “cali”), e non impersonale dal verbo “calere” (“importare, preoccupare”).

[6] Perifrasi metonimica per indicare il Minotauro.

[7] Letteralmente “sozza, sudicia” (< lat. foedus, “sporco”, da non confondersi con fedus, “patto, alleanza”).

[8] Costrutto latineggiante (est qui credat) con congiuntivo dell’eventualità.

[9] Forma con epitesi (cioè aggiunta finale), tipica della pronuncia (e della grafia) toscana. In altri mss. troviamo anche “caòsse”.

[10] Francesismo (< approcher, “avvicinarsi” < lat. ad propiare < prope, “vicino”), tornato di moda ai nostri giorni anche con valore metaforico: “approcciarsi ad un argomento, ad una situazione”, per “confrontarsi, affrontare”.

[11] Altro gallicismo: cfr. ant. franc. riviere; prov. ribiera. Segnaliamo che esisteva, in italiano antico, la regola per cui la preposizione articolata segue l’articolo determinativo, mentre quello indeterminativo è seguito da preposizione semplice: la riviera del sangue vs. una riviera di sangue.

[12] Terzina che costituisce una figura retorica detta della apostrofe, cioè rivolgersi ad un personaggio (presente o assente, come in questo caso) in modo immediato e incalzante. Sempre in questa terzina notiamo anche un’altra figura retorica, il chiasmo, consistente nel collocare agli estremi della frase i verbi ed all’interno di essa i sostantivi: ci sproni – vita corta – l’eterna – c’immolle.

[13] Forma arcaica per “correan” come, al verso successivo, “solien” per “solean”.

[14] Si usa qui “tosto” come aggettivo (“impulsivo”) invece che come avverbio (“immediatamente, prontamente”).

[15] La “cocca” è il taglio che chiude la freccia, grazie alla quale la si può adattare alla corda dell’arco. Da questo termine provengono i verbi “incoccare” e “scoccare”, usato sia transitivamente (“scoccare, far partire una freccia”) che intransitivamente e con valore traslato (“scocca l’ora”).

[16] Da notare il verbo in forma riflessiva (“scoprirsi”) usato con l’ausiliare “avere” invece che col più consueto “essere”.

[17] La forma “soletto” non ha – come sembrerebbe – valore diminutivo (o vezzeggiativo), ma intensivo: “assolutamente, completamente solo”.

[18] Dal latino fur (ladro): aggettivo d’uso comune nell’italiano antico.

[19] “Siamo” è qui congiuntivo potenziale (“possiamo stare”), mentre “a provo” (< ad prope) vale “a fianco, vicino”.

[20] “Bulicame”, dal latino bulla (“bolla”), vale “acqua che ribolle”: nome anche di una fonte termale presso Viterbo.

[21] Forma di passato remoto forte dal verbo “fendere”: la forma debole (più usuale) è “fendette”.

[22] Mentre i commentatori antichi intendono “si cola” come “si cole”, dal verbo “colere” (< lat. colere, “venerare, onorare”), i moderni propendono per la derivazione da “colare” (e quindi “gronda sangue”).

[23] È forma arcaica di congiuntivo (“creda”), così come troviamo anche, in altri passi, “vadi, dichi ecc.”.

[24] Dal latino aquatio (lat. volg. aquatia > guazza), vale “acquitrino, pozza di acqua bassa e melmosa”.

 

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