Paul Gustave Louis Christophe Doré (1832-1883), Caronte (1861)
Per me[1] si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore[2],
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore[3]:
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e ’l primo amore[4].
Dinanzi a me non fuor[5] cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate».
Queste parole di colore oscuro
vid’io scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».
Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto[6];
ogne viltà convien che qui sia morta[7].
Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
ch’ànno perduto il ben de l’intelletto».
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete[8] cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.
Diverse[9] lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon[10] di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta[11],
come la rena quando turbo spira.
E io ch’avea d’error[12] la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?».
Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro[13]
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».
E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor, che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti[14] molto breve.
Questi non hanno speranza di morte
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidiosi[15] son d’ogne altra sorte.
Fama[16] di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia[17] li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei[18] creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi[19] l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui[20]
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi[21] vermi era ricolto.
E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d’un gran fiume;
per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi
ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com’io discerno per lo fioco lume».
Ed elli a me: «Le cose ti fier conte[22]
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d’Acheronte».
Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no[23] ’l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.
Ed ecco verso noi venir per[24] nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave[25]!
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.
E tu che se’ costì[26], anima viva,
pàrtiti[27] da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,
disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».
E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole[28], e più non dimandare».
Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che ’nteser le parole crude.
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch’attende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimonio, con occhi di bragia,
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia.
Come[29] d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede[30] a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d’Adamo
gittansi[31] di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
Così sen vanno su per l’onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s’auna.
«Figliuol mio», disse ’l maestro cortese,
«quelli che muoion ne l’ira di Dio
tutti convegnon qui d’ogne paese:
e pronti sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in disio.
Quinci non passa mai anima buona;
e però[32], se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona».
Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento[33]
la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa[34] diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l’uom cui sonno piglia.
[1] Nella terzina iniziale abbiamo due figure retoriche: l“anafora” o “ripetizione” della forma “per me si va” e la prosopopea, in quanto si immagina che sia la porta stessa dell’inferno a parlare.
[2] Altra figura retorica: la “replicatio” tra “dolente” e “dolore”.
[3] Eco del versetto del Simbolo Niceno: “factorem caeli et terrae”.
[4] Con i tre termini Podestate, Sapienza (Lògos), Amore si definisce la SS. Trinità.
[5] Forma arcaica di perfetto forte per “furono”.
[6] Nel senso del latino suspectus (< suspicere, “guardarsi intorno”), cioè “esitazione, incertezza”.
[7] Col valore transitivo, e quindi in questo caso passivo, comune nell’italiano medievale e rinascimentale, di “uccisa” (con esempi in Cielo d’Alcamo, Ariosto, Guicciardini, ma anche in Alfieri, Foscolo e Leopardi).
[8] Col valore etimologico latino di “separate, nascoste, appartate” (< secernere, “distinguere, separare”).
[9] Dal latino dis + vertere, “andare in direzioni opposte”. In questo verso, come anche altrove in Dante, abbiamo una certa ambiguità di significato: “differenti” o anche “strane”.
[10] Si noti come in meno di tre versi si trovino ben sei termini riconducibili alla sfera semantica del “suono”: lingue (strumento di comunicazione differente da popolo a popolo), favelle (modo di parlare con pronuncia diversa), parole (singoli strumenti di comunicazione), accenti (suoni e lamenti sotto forma di esclamazioni), voci (strumento fonico), suon (rumori non articolati: in questo caso battiti di mani).
[11] Come frequentemente in Dante, vale “scuro, di colore indefinibile” (cfr. lo spagnolo tinto, “rosso scuro, scarlatto”).
[12] Si accetta la lectio difficilior “error” per il più ovvio “orror”, che pure ha l’appoggio del riferimento virgiliano di En. II, v. 559 (“saevus circumstetit horror”).
[13] Termine, oserei dire, “tecnico” quando si definiscono le schiere angeliche.
[14] Uso abbastanza comune nell’italiano arcaico dell’enclitica riferita al complemento oggetto che precede il pronome personale complemento di termine, per il più comune “dirottelo”.
[15] Col valore etimologico del latino in + videre, “guardare male, odiare”.
[16] Vale, come in latino, per “vox media”, col significato di “notizia”; nell’uso moderno, invece, prevale il senso positivo di “buona fama”, cioè “celebrità, importanza”.
[17] Sono le due modalità fondamentali di Dio: giustizia e misericordia, usati per metonimia per indicare, appunto, Dio.
[18] Forma etimologica del condizionale, con epentesi (cioè inserzione) della -e-, da avere + èi (ebbi).
[19] Brevissima climax, di due soli membri, ascendente.
[20] Cfr. il latino certior fio (sum), “sapere, conoscere”.
[21] Dal latino fastidium (nausea, disgusto, ripugnanza), e quindi “nauseabondi”.
[22] Dal latino cognitae (< cognoscere, “sapere”), e quindi “sapute, conosciute”.
[23] Nuovamente la costruzione alla latina dei verba timendi: timeo ne, “temo che”.
[24] Ancora un latinismo: “per” con valore di complemento di mezzo, “con la nave”.
[25] Dal latino pravus (malvagio), da cui deriva anche la forma “bravo”, che anticamente valeva appunto “prepotente, malvagio” (cfr. i “bravi” manzoniani), e solo più tardi assunse il valore nostro moderno di “capace” o “buono”.
[26] Forma tipicamente toscana di avverbio di luogo, per indicare un luogo vicino alla persona a cui ci si rivolge.
[27] Col valore etimologico del latino partior, “dividersi, staccarsi, allontanarsi”.
[28] Figura retorica della perifrasi (o circonlocuzione) per indicare Dio. È uno di quei passi danteschi che hanno assunto un valore “epigrammatico”, cioè di citazioni avulse dal loro contesto e usate da molti (troppi…) spesso anche fuori luogo.
[29] Figura retorica (vv. 112-117), molto comune nella poesia epica (e quindi anche in Dante), della similitudine. Come spesso avviene nella Commedia, i due membri (colon, plur. cola) della similitudine sono in equilibrio perfetto dal punto di vista quantitativo: tre versi l’esempio conosciuto (introdotto da “come”), tre versi l’episodio, o la figura, da spiegare col paragone (“similemente”).
[30] Lezione (cioè parola da inserire a testo) preferita a “rende” basandosi sull’eco virgiliana di Georg. II, v. 82 (anche se la conoscenza da parte di Dante di questo poema virgiliano è sub judice): “miraturque novas frondes”.
[31] Concordato ad sensum col singolare “mal seme”.
[32] Etimologicamente, dal latino per + hoc, col valore di “per questo, perciò”.
[33] L’interpretazione del “de lo”è tuttora discussa: complemento di causa (“per lo spavento”) secondo alcuni commentatori, di specificazione dipendente da “mente”, che – lo abbiamo già visto – in Dante significa spesso “ricordo” (e quindi “il ricordo dello spavento”) per altri.
[34] Forse un ricordo della “lacrimarum vallis” del Salve Regina, ma che può anche rimandare ai lugentes campi di Eneide VI, v. 441.