Femministe: l’eterogenesi dei fini

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Dopo l’effervescenza mediatica, quello delle proteste delle dirigenti PD per la loro non inclusione tra i ministri del governo Draghi, resta un caso così caratteristico da segnare un punto di non ritorno. Premesso quanto sia insopportabile la pretesa delle “femministe di professione” di rappresentare tutte le donne e parlare a nome loro, anche nello specifico vi risalta la contraddizione del rivendicazionismo femminista, che ideologizza il mero dato quantitativo, a discapito d’ogni criterio di qualità. Le politicanti del PD, in sostanza, rivendicano un riconoscimento per il solo fatto di esserci, pretendendo cioè che le donne in politica debbano avere binari riservati per transitare e usufruire fino ai massimi livelli delle famigerate “quote rosa”. Si assiste ad un’eterogenesi dei fini: l’uguaglianza tra uomini e donne, principio e obiettivo, è in ciò sconfessata, in quanto ingombro per le carriere della casta femminile partitica. Il sessismo ideologizzato femminista è più importante –forse il solo importante- rispetto alla lotta delle idee, alla capacità politica, all’eventuale seguito e consenso.

Si tocca qui l’essenziale contraddizione del principio rivendicazionistico femminista: da una parte s’invoca un automatismo quantitativo artificiale – le percentuali. -, dall’altra si fa una questione di qualità, che –per principio altrimenti proclamato- non può dipendere dal sesso. Si deve presumere che le donne del PD ritenessero di avere tra loro figure più affidabili e prestigiose, più idonee a fare i ministri. Ma allora, o l’uno o l’altro: o “quote rosa” obbligatorie, o discernimento di qualità. Del resto la contraddizione è palese quando le stesse hanno da ridire sulle donne presenti nel governo Draghi, e questa volta nel merito.

Si pone quindi puntualmente il paradosso: automatismi per la parità di genere versus criteri di merito, competenza, capacità a prescindere dal sesso. La prima modalità è mortificante per le donne e controproducente da molti punti di vista, mentre la seconda può  – potrebbe – influire positivamente sul generale livello di qualità delle istituzioni e della politica (attualmente assai basso). Ove accada che donne vadano ad occuparsi di politica per le donne – per la loro realtà, per i loro problemi reali – ciò non è limitazione, ghettizzazione; ma se le donne in politica la fanno per se stesse, come categoria, casta che si avvantaggia di ulteriori privilegi “compensativi”, “inclusivi”, i veri problemi delle donne sono ignorati  o strumentalizzati.

 

La “femminilizzazione” del linguaggio.

La “femminilizzazione” imposta – che sia del linguaggio, delle norme burocratiche, del reclutamento in organismi e istituzioni- è un fenomeno di artificializzazione della realtà, che infatti necessita continuamente della promozione mediatica. Se l’identità sessuale produce ideologicamente apparati e norme per il superamento dei sessi, si determina un processo all’infinito, artificioso, fatto di burocrazie e carriere; esso ha bisogno continuamente di nuove “sfide”, nuovi apparati, nuovi nemici.

Prendiamo in considerazione un aspetto apparentemente innocuo, per quanto fastidioso, quello della femminilizzazione del linguaggio.

L’argomento fu svolto ampiamente nel 2019 da Maria Desmers nel saggio «La féminisation libère-t-elle les femmes?» (La femminilizzazione libera le donne?)[1], che faceva riferimento alla situazione francese, sempre all’avanguardia nel politicamente corretto di Stato. Il testo affronta la questione da un punto di vista radicale, in quanto l’autrice si colloca in un’area di contestazione generale della società, di matrice anarchica: fa quindi un’analisi di tipo strutturale, che valuta le manipolazioni sulla lingua sotto il profilo dell’impatto sociale effettivo. Ella si domanda: «il dominio del maschile nella lingua è in rapporto talmente diretto con il dominio maschile nella vita che un riequilibrio della bilancia dei generi nella lingua riequilibrerebbe la realtà dei rapporto di genere?».

Anticipiamo qui la risposta, che la Desmers dà a conclusione in un’ampia e approfondita analisi: la femminilizzazione della lingua, cavallo di battaglia delle femministe di professione, ostentando una lotta tra i generi applicata alle desinenze, si rivela elemento propagandistico, diversivo, mediatico, e come tale controproducente ai fini dell’operatività sulla condizione reale delle donne.

La Desmers si riferisce ad un contesto in cui le autorità linguistiche di Stato intervengono con norme e sanzioni specifiche nella «battaglia per imporre una scrittura detta inclusiva», in cui si elimini la prevalenza del genere maschile nelle desinenze dei plurali di aggettivi, nei pronomi ecc.., e s’imponga una forma femminile di tutte le qualifiche attinenti a persone. Questa “battaglia” – si chiede la Desmers – ha un fondamento, una pertinenza alla materia a cui si applica (la lingua), oppure non è altro che un’istituzionalizzazione della guerra tra i sessi, finalizzata a destrutturare le comunità umane anche sotto il profilo delle identità linguistiche?

«La lingua francese [come quella italiana] è una lingua che si può dire grammaticalmente distinta per generi. […] Questa polarizzazione ha fatto scomparire il neutro, che è presente a pari titolo che il maschile e il femminile nelle lingue più antiche come il latino e il greco, e in varie lingue ancora parlate oggi. Si sente spesso dire, a partire da una falsa evidenza, che questa sparizione del neutro si è fatta a profitto del maschile, per esempio nell’uso degli accordi del plurale. Si sente dire anche che il maschile vince sul femminile. Da queste osservazioni, il principio della scrittura inclusiva inferisce che la lingua attui e induca un’inferiorizzazione delle donne, e che dunque in nome di un principio di eguaglianza di esistenza nella lingua, si debba riequilibrare la bilancia dei generi, rimettere il maschile al suo posto e associargli sistematicamente, in diversi modi, il femminile».
Ma – osserva la Desmers – ove s’intenda fare della lingua un teatro della guerra tra i sessi, «la battaglia metaforica non si gioca nella vita vera, e reciprocamente. Si tratta di una falsa evidenza basata su un’osservazione superficiale. In effetti, la storia dello stabilirsi dei generi grammaticali quale può essere ricostruita c’insegna che nelle forme più antiche rappresentate dall’ipotetica lingua indoeuropea […] la ripartizione dei generi linguistici serviva a differenziare l’animato dall’inanimato. Intervenne poi il femminile che, per la sua morfologia, somigliò a quello che diventò il neutro, e servì per esempio all’espressione dei termini astratti […]. È  solo più tardi che il cosiddetto femminile si specializzò nella designazione di esseri animati detti femminili». Quanto all’accordo del plurale nel maschile, «certi linguisti lo spiegano per il fatto che il maschile è meno marcato, dunque più vicino al neutro, quindi più adatto a raggruppare generi diversi».

Già questi brevi accenni fanno intendere come «le motivazioni del genere dei nomi sono talmente complesse e corrispondono talmente poco ad un sistema, che esse non possono essere lette in un’ipotesi ideologica semplificatrice che ne farebbe il risultato di un sessismo intrinseco».

Anzi, la storia della lingua testimonia una fluidità, una sua specifica arbitrarietà, che fino a qualche secolo fa faceva sì che certi termini cambiassero di genere, o fossero di genere diverso tra singolare e plurale. Furono caso mai successive normazioni linguistiche, ortografiche, grammaticali e sintattiche, ad assolutizzare la polarizzazione dei generi linguistici. È quindi un altro paradosso che s’intenda «riequilibrare la bilancia dei generi […] imponendo da parte dell’autorità centrale un arsenale di regole» per obbligare alla «scrittura inclusiva». Si tratta, aggiunge la Desmers, dell’idea progressista per cui la lingua, come altri aspetti della realtà umana, abbia a migliorare per «normalizzazioni e uniformizzazioni successive», quindi, nel nostro caso, per un processo di omologazione che non a caso si accompagna ad un impoverimento e perdita di significanza del linguaggio, e quindi d’identità delle comunità umane a fronte del Sistema globalizzato. Perché regnare sulla lingua, introducendo in essa per legge la banalizzazione di processi ben diversamente complessi, significa operare sulla rappresentazione e sulla comunicazione, e quindi in una dimensione profondamente autoritaria.

In sostanza, quindi, la femminilizzazione ideologica del linguaggio è da una parte operazione pretestuosa, scientificamente e ontologicamente infondata, dall’altra svolge un’azione cosmetica, di mascheramento, di copertura del vuoto delle idee, delle azioni, dei programmi.

«E’ per questo che l’espressione scrittura inclusiva è un non senso, una falsa promessa […] Per includere gli esseri e ciò che essi vivono, è quello che si dice che bisogna trasformare». La focalizzazione sulle forme, ovvero il gergo del neopolitichese politicamente corretto, «non fa che allontanare ancora di più il linguaggio dalle realtà che si pretende di includere».

Col che si ritorna all’eterogenesi dei fini, e a come l’ottica femminista sia incapace di azione programmatica sulla realtà, ma sempre e solo promuova se stessa, esprimendo una conflittualità permanente priva di contenuti reali, quindi indolore e a costo zero per il Sistema  globalizzato, economico e di potere.

Quest’autoreferenzialità porta con sé una cecità ai fatti altrettanto caratteristica, e – tanto per rimanere in argomento – false narrazioni, luoghi comuni che ignorano realtà, testi e anche parole. Così, in occasione del centenario di J.P.Sartre, c’è da aspettarsi un rilancio iperfemminista della De Beauvoir (la coppia francese è ritratta nella foto qui a sinistra, in alto)  per renderla retrospettivamente autonoma dal partner. Ebbene, si faccia i conti con le parole (non quelle delle sue opere, men che mediocri), ma con la Petizione-Manifesto del 1977 per la depenalizzazione della pedofilia da lei firmato (con altri “intellettuali”). Forse conviene alla De Beauvoir restare nel cono d’ombra di Sartre e che non si “femminilizzi” la cronaca delle loro squallide esistenze.

 

[1] Maria Desmers, La féminisation libère-t-elle les femmes? Prima pubblicazione nella rivista Des ruines n° 3/4, 2019. Riedizione in brochure presso Ravages éditions, luglio 2019.

 

 

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