Colapesce tra fiaba, leggenda, mito

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 Albert Henry Payne (1812-1902), Stretto di Messina, olio su tela

 

A partire dal 1885, il giovane Benedetto Croce pubblicò in opuscoli e riviste alcuni saggi che ripercorrevano luoghi e memorie partenopee, e che in seguito furono raccolti nel volume Storie e leggende napoletane (1919). L’ultimo capitolo del libro torna a intitolarsi «Leggende di luoghi ed edifizi di Napoli»: quasi appunti e brevi visioni, dal Palazzo Donna Anna di Posillipo ai vari “palazzi degli spiriti”. Il tema di apertura riguarda però una storia che sta tra la fiaba e la leggenda, e che si lega da una parte a un ricordo d’infanzia dell’autore, e dall’altra ad un misterioso bassorilievo. Si tratta della storia di Colapesce[1], che egli riporta quale narratagli a suo tempo da un cocchiere di casa:

Una delle leggende, che più mi colpirono nei miei primi anni a Napoli, fu quella di Niccolò Pesce: del fanciullo che amava starsene sempre in mare, facendo gridare sua madre, la quale, un giorno, nel calore dello sdegno gli gettò la maledizione, che “potesse diventar pesce”; e da pesce o quasi pesce egli visse da allora, capace di trattenersi ore e giorni immerso nelle acque, come nel suo proprio elemento, senza bisogno di risalire a galla per respirare. E a percorrere in mare lunghe distanze rapidamente Niccolò Pesce usava l’astuzia di lasciarsi ingoiare da taluno degli enormi pesci che gli erano familiari e viaggiare nel loro corpo finché, giunto dove bramava, con un coltellaccio che aveva sempre seco, tagliava il ventre del pesce e usciva libero nelle acque, a compiere le sue indagini. Una volta il re fu preso da desiderio di sapere come fosse fatto il fondo del mare; e Niccolò Pesce, dopo lunga dimora, tornò a dirgli che era tutto formato di giardini di corallo, che l’arena era cosparsa di pietre preziose, che qua e là s’incontravano mucchi di tesori, di armi, di scheletri umani, di navi sommerse. Un’altra volta discese nelle misteriose grotte di Castel dell’Ovo, e ne riportò manate di gemme. Ancora il re gli commise d’indagare come l’isola di Sicilia si regga sul mare, e Niccolò Pesce gli riferì che poggiava sopra tre enormi colonne, l’una delle quali era spezzata. Ma, finalmente, un giorno venne al re voglia di conoscere a che punto veramente colui potesse giungere della profondità del mare, e gli ordinò di andare a ripigliare una palla di cannone, che sarebbe stata scagliata nel faro di Messina.
Niccolò Pesce protestò che avrebbe obbedito, se il re insistesse, ma che sentiva che non sarebbe mai più tornato a terra. Il re insistette. Niccolò saltò subito nelle onde; corse corse senza posa dietro la palla che s’affondava veloce; la raggiunse in quella furia d’inseguimento e la raccolse nelle sue mani. Ma ecco che, alzando il capo, vide sopra se le acque tese e ferme. Lo coprivano come un marmo sepolcrale. S’accorse di trovarsi in uno spazio senz’acqua, vuoto, silenzioso. Impossibile riafferrare le onde, impossibile riattaccare il nuoto. 

Colà restò chiuso, colà terminò la sua vita.

 

 Quanto al bassorilievo, si tratta di quello situato in via Mezzocannone (ma l’originale è al Museo di S.Martino) che rappresenta un uomo villoso o squamato, con un coltello in mano. Sotto la figura, un’iscrizione del 1742 informa che l’opera fu rinvenuta nel 500 durante gli scavi nel Sedile di Porto, e che rappresenterebbe il mitico Orione.  Ma la tradizione popolare vi ha sempre riconosciuto Colapesce, e così ne riferisce Benedetto Croce, ritornando sui ricordi infantili:

Mi persi molte volte, fanciullo, con l’immaginazione nei fondi del mare che l’ardito esploratore frugava, e per un pezzo mi rimase in un cantuccio dell’anima il fascino di quella figura e di quelle imprese.

Da cui, da adulto, le indagini erudite sulle fonti e le versioni letterarie e popolari della leggenda. Vi è chi ha pensato che Croce s’identificasse nel personaggio, come se anch’egli fosse un ricercatore di tesori negli abissi del sapere; certo è che la storia aveva di che impressionarlo, e la lettura che egli ne dà va a sua volta ad arricchire la suggestione di questa fiaba-leggenda, contribuendo alla vitalità con cui essa è giunta ai giorni nostri.

 

I mari di Colapesce

 La leggenda di Colapesce, percorrendo i mari, indugia altresì su altre rive: possono essere le Puglie, può essere la Calabria; ma se ne trova traccia anche in Spagna, o in mari più freddi, come nella Bretagna. Comunque, prevale in tutta Europa l’ambientazione in Sicilia, con un intreccio di motivi e d’immagini, di cui, come sempre per le fiabe, non è possibile individuare origini e sequenze.

Giuseppe Pitrè dedicò un ampio saggio all’argomento, pubblicato in Studi di leggende popolari in Sicilia e nuova raccolta di leggende siciliane, (Palermo 1870-1913), riepilogandone 33 versioni letterarie in varie epoche e lingue, e riportando 18 varianti della tradizione orale raccolte in Sicilia. Ed altre ne sono state trascritte nel tempo, pure a seguito di una certa emulazione locale nell’attribuirsi le origini della leggenda. Anche nelle varie versioni siciliane, motivi ricorrenti sono la maledizione della madre, la straordinaria abilità e fama del ragazzo, la curiosità e prepotenza del re, la cupidigia dell’oro. Ciò che dà visionarietà e respiro alla narrazione, è la presenza del mare, i suoi mille volti, i suoi segreti, la sua potenza e il suo mistero: di variante in variante, Colapesce porta con sé il lettore in un favoloso trascorrere tra onde, vortici e abissi. Ogni volta è l’avidità del re, l’esca della coppa o dell’anello o della corona a indurre la tragica fine: l’oro contamina l’innocenza dell’uomo libero nella natura.

 

Colapesce nel romanticismo tedesco

Il fascino della storia di Colapesce ha avuto una particolare ed amplificata risonanza negli scrittori tedeschi del romanticismo[2]. Un antecedente è la citazione della leggenda da parte dell’erudito Athanasius Kircher (1602-80), professore al Collegio Romano, nel suo Mundus Subterraneus. La fiaba vi era evocata in riferimento ad un intento descrittivo e divulgativo: Colapesce quasi come guida agli abissi del mare e alle sue straordinarie creature. Oltre a Kircher, altre fonti contribuirono al pervenire della leggenda nel contesto letterario romantico, sensibile alla tradizione popolare, all’immaginario medievale e all’ambientazione mediterranea. Ciò che interessava, più che l’uomo-pesce, era il nodo drammatico della storia: l’indomabile potenza della natura, e di fronte ad essa l’uomo libero ed intrepido; e, a contrasto, la tirannide e la fatuità del re, la meschinità dei cortigiani, e il brillare dell’oro, lusinga e condanna.

 

La ballata di Schiller

Il primo fu Friedrich Schiller, nella ballata «Il tuffatore» (Der Taucher,1787), ambientata nello stretto di Messina. La poesia fa propria l’accesa teatralità dell’intreccio – il giovane coraggioso, il re prepotente, la dolce principessa -, ponendo altresì a protagonista il mare, i suoi turbini, vortici, correnti, le sue grotte e le sue creature. E’ qui che Schiller, che pure il mare non l’aveva mai visto, toccò il sublime e la più alta potenza del verso, che culmina in una strofa che nella ballata viene ripetuta due volte:

 

Bolle e ribolle e sibila e si alza

come acqua che al fuoco si consuma

e fiotto a fiotto senza posa incalza

           

sprizzando verso il cielo la sua spuma;

sembra che non si possa mai svuotare

e il mare partorisca un altro mare.[3]

 

La ballata di Schiller s’ispira alla versione siciliana, ma il tuffatore del titolo non è il famoso Colapesce, bensì un paggio coraggioso che, a fronte della pavidità dei cortigiani, accetta la sfida del re. Orgoglioso e abbacinato dal brillio della coppa d’oro che il re getta nel gorgo di Cariddi, esca per chi oserà recuperarla dal fondo, il ragazzo è poi convinto a ripetere il tuffo dalla promessa della mano della principessa, che invano cerca di trattenerlo. E non farà mai ritorno. Schiller quindi non pensa al prodigioso uomo-pesce, ma ad uomo qualunque, armato solo del suo coraggio e della sua volontà, a fronte della cieca e torbida violenza degli elementi; il tuffatore ha paura del gorgo e ribrezzo dei mostri in agguato, ma in effetti l’essere più mostruoso è il re, che gioca cinicamente con la vita altrui, fatuo più che crudele.

 

“L’uomo d’acqua” di Ludwig Tieck

Tutti questi aspetti sono richiamati in gioco nel «L’uomo d’acqua» (Der Wassermensch) di Ludwig Tieck, novella in forma dialogica, pubblicata nel 1835. Si tratta della conversazione in un gruppo di amici, di ritorno dall’aver assistito ad una versione teatrale della ballata di Schiller.

La motivazione di fondo del testo è politico-letteraria, in quanto vi si contrappone un intento rivoluzionario tipico della Junges Deutschland e impersonato dal giovane Florheim, ad una posizione –che è quella di Tieck- di conciliazione tra passato e presente, e di una creatività aperta, non settaria, attenta a cogliere la ricchezza della tradizione. Florheim vorrebbe fare della storia di Colapesce un testo “di lotta”, in cui il protagonista sarebbe un ribelle contro la tirannide. Tieck vi contrappone una visione aperta e dinamica, in cui la tradizione (la leggenda popolare) è materia e stimolo per nuove ricerche fantastiche e formali.  E lo dimostra nel dialogo stesso, ove gli interlocutori ipotizzano quattro diverse varianti della ballata di Schiller: dalla variante “marinaresca”, coi traffici marini napoletani e siciliani; a quella “rivoluzionaria” in cui si assiste ad una rivolta in cui il tiranno viene buttato in mare; a quella “erotica”, sorta di storia d’amore a lieto fine; infine a quella “gotica”, dove è il destino e tenebrose potenze a decidere la sorte del protagonista. In questo modo Tieck si ricollegava al filone romantico (i Grimm, Arnim, Brentano) di raccolta e studio delle fiabe e leggende, da non considerare come un patrimonio antiquario, ma come una fonte inesauribile d’invenzione fantastica e riflessione morale.

 

Un poema, un sonetto, una fiaba

 Danno conferma di tale tesi e della fortuna della leggenda di Colapesce nella letteratura in lingua tedesca, due testi, tra loro assai diversi, per lunghezza e atmosfera. Si tratta di un poema di Franz von Kleist, del 1792, Nikolaus der Taucher (Nicola il tuffatore), in cui l’autore sviluppa il tono epico della leggenda, ponendo di fronte l’uno all’altro, in un dimensione eroica e teatrale, l’imperatore Federico e il prodigioso nuotatore, sullo sfondo dei luoghi mitici di Scilla e Cariddi.

All’altro estremo sta un sonetto del poeta svizzero Conrad Meyer (1825-98), il quale porta la leggenda ad una dimensione domestica, ironica ed insieme simbolica. Qui Colapesce è diventato tale per un battibecco con la moglie e la noia e il disgusto degli esseri umani: il mare, il nuoto, il viaggio, sono tutte metafore della libertà; della leggenda è rimasto il nucleo essenziale e l’intuizione di uno stato originario, felice, dell’uomo nella natura. Quello stesso che troviamo nella versione che Raffaele La Capria scrisse nel suo Colapesce (1975): rivolgendosi specificatamente ai bambini, lo scrittore si avvalse del finale aperto e misterioso del racconto tradizionale, per immaginare una fuga occulta del ragazzo, che con l’aiuto di una saggia tartaruga, inganna il re e i cortigiani, e riconquista in mare aperto la sua libertà, «lontano dalla terra, dagli uomini e dai re».

In questa immagine, il racconto torna forse al suo spunto originario, da ricercarsi nel mito, più che nel patrimonio di fiabe e leggende, nelle quali il tema del mare è prevalentemente legato alla navigazione, alle creature misteriose, alle isole incantate. Nel mito l’invenzione di Colapesce s’incontra non solo con le sirene e le divinità marine, ma con una radicalità del rapporto uomo-natura, e  con l’idea del limite, rappresentato nella narrazione omerica dal gorgo inghiottitore; del quale il profondo significato, nella percezione dell’ordine cosmico, darà Dante per bocca di Ulisse:

e la prora ire giù com’altrui piacque,

infin che il mar fu sovra noi richiuso.

 

 

[1] È da Nicola/Niccolò/Nicolaus Pesce che vengono Colapesce (che qui scegliamo di usare), Cola Pesce, Pescecola, ma anche Cola Pipe, Colan o Colano Pesce, ed altre varianti nelle varie lingue e dialettali.

[2] Per la parte riguardante la letteratura tedesca, mi sono avvalsa delle traduzioni e ricerche sui testi originali, di Marisa Fadoni Strik.

[3] L’intera ballata è stata tradotta in rima e pubblicata in Il Covile n. 645 20/9/2022

 

 

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